Per la laurea ad honorem a David GROSSMAN
"E’ uno dei più profondi interpreti della tragedia del popolo ebraico. L’arte e la letteratura sono oggi i 'luoghi' in cui meglio si può affrontare la Shoah e sperimentarne le sensazioni a mano a mano che i testimoni scompaiono e mentre la ricerca storica e documentaristica rimane in ambito specialistico e non è in grado di raggiungere tutte le persone".
La Prof. Ida Zatelli, Ordinario di Lingua e Letteratura Ebraica nell’Ateneo di Firenze, riunisce in sé due doti assai rare: seria e stimata studiosa (tra l’altro, Vicepresidente dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo), è cordialissima e disponibile, felice di rapportarsi all’interlocutore che le si rivolge, poco importa se questi è qualcuno mai incontrato in precedenza.
Nelle brevi, ma significative, frasi che ho riportato all’inizio è espressa tutta la motivazione profonda della sua proposta di conferire allo scrittore israeliano David Grossman la laurea (specialistica) honoris causa in Studi Letterari e Culturali Internazionali; proposta che gli organi accademici hanno accettato con entusiasmo.
Data della cerimonia: 27 gennaio 2008, celebrazione della Giornata della Memoria.
Non darò conto ora delle numerosissime iniziative che, nel nostro Paese, hanno illustrato tale circostanza; confesso che, da alcuni giorni, i miei pensieri erano rivolti all’appuntamento fiorentino, all’incontro con una persona che seguo da diversi anni, sia come romanziere che come coscienza critica del suo Paese. Nella primavera del 2001 ebbi il piacere di ospitare in casa mia David Grossman, insieme ad altri famosi quattro scrittori israeliani. Erano impegnati, presso alcune città italiane, in una sorta di tour letterario, organizzato dall’Ufficio culturale dell’Ambasciata di Israele a Roma, con la collaborazione della Casa editrice Feltrinelli, del Salone Internazionale del Libro di Torino e di alcune Associazioni di Amicizia Italia/Israele (allora facevo parte di quella di Bologna); in occasione della sosta nella nostra città si erano fermati da noi per cena. Una sorpresa, oltre che un grande onore, che la dice lunga sul carattere israeliano: Ve li immaginate cinque scrittori italiani (o europei in genere) che vanno per la maggiore, coinvolti in un viaggio culturale che si fermano in una casa privata di persone comuni? Loro cinque ci regalarono questo privilegio. Pensai ai tre visitatori che si fermano da Abramo, alle querce di Mamre……alla tavola di Andrei Rublëv, così evocativa…..
Rammento l’incontro col pubblico nella principale sede della Feltrinelli, sotto le Due Torri: la disinvoltura dei più celebri Grossman e Meir Shalev; la curiosità di Batya Gur, ora purtroppo compianta, qui conosciuta solo agli specialisti del settore, ma apprezzata scrittrice di thriller in Patria; la vivacità mista a timidezza dei più giovani Etgar Keret e Dorit Rabinyan.
Ricordo che quando il dibattito si concluse e ci incamminammo verso la nostra abitazione, distante pochi minuti, mentre gli altri chiacchieravano e ridevano, David era divenuto silenzioso. Si guardava attorno, come alla ricerca di qualcosa.
Tramonto rosato di un fine giornata di maggio.
Sbucammo in Piazza S. Stefano, uno dei luoghi più suggestivi della città, con al centro il complesso religioso denominato, nel linguaggio locale, Sette Chiese o Gerusalemme di Bologna. All’improvviso vedemmo David staccarsi da noi ed accelerare il passo, diretto senza indugio verso l’entrata principale alle Sette Chiese. Mentre gli altri si fermavano ad ammirare quel luogo fatato, in silenzio, io raggiunsi David e, nel mio inglese elementare, gli spiegai che, a quell’ora (erano passate da poco le venti), i monaci benedettini olivetani, custodi della Basilica, si erano già ritirati all’interno del complesso e non era possibile parlare con loro. Mi guardò, un po’ dispiaciuto, e alla domanda se conoscesse quel luogo, fece cenno di sì col capo, regalandomi un misterioso sorriso.
A casa nostra parlammo a lungo, di letteratura, dell’incubo terrorista, del conflitto arabo/israeliano/palestinese. Sentivi come la sua presenza fosse, in qualche modo, sovrastante, ma, il suo, era il dominio della delicatezza nei sentimenti, della partecipazione alla realtà degli altri. Scambiò qualche parola col nostro figlio minore, Marco, di cui, venni a sapere, era coetaneo il suo secondogenito, Uri. David era rimasto sconvolto, come tutti noi del resto, da una vicenda agghiacciante, svoltasi alcuni giorni prima. Due adolescenti israeliani, Koby Mandell e Iosef Ish-Ran, residenti in un villaggio della Giudea, Teqoa (ricordate il Profeta Amos?), erano stati uccisi a colpi di pietra da un gruppo di terroristi (diversi adulti contro due bambini: mirabile coraggio) appartenenti al Jihad islamico, a poche centinaia di metri da casa, all’interno di una grotta dove si erano recati in gita. L’Orco aveva massacrato due ragazzini sorridenti con gli occhiali, la cui unica colpa era quella di essere Ebrei, di amare i colori e i profumi della loro terra.
Una storia eterna.
L’Aula Magna dell’Università di Firenze (un tempo scuderie dei Medici), sede della cerimonia fissata per le 11, è già stracolma un’ora prima. Con un poco di fortuna riusciamo a sederci, Mauro ed io. Ci sono persone di tutte le età, un paio di rabbini col cappello a tesa larga e la barba, l’Ambasciatore di Israele a Roma, Gideon Meir ("Sarò felice il giorno in cui leggerò le parole di un Grossman palestinese" ha dichiarato tempo fa in un’intervista. Sarà difficile, Eccellenza, molto difficile, per varie ragioni -che è politicamente scorretto approfondire-, ma abbiamo fede, grazie anche all’esempio del Grossman israeliano) con la moglie Hamira, studiosa della Bibbia e donna sorridente, alla mano, che parla alla perfezione la nostra lingua; ma soprattutto, elemento importantissimo, tanti giovani: saluto, tra gli altri, Shulim Vogelman, anima col padre Daniel, della Casa editrice Giuntina di Firenze.
Riesco a procurarmi due copie della lectio doctoralis che David terrà dopo la proclamazione. Leggiamo in silenzio. Fin dalle prime battute ci rendiamo conto di avere tra le mani un’opera d’arte.
Pian piano che si addentriamo in quel 'luogo' l’emozione cresce e alla fine……
Un applauso scrosciante accoglie il corteo dei Professori in tocco e toga, il Magnifico Rettore, Prof. Augusto Marinelli, in testa. David Grossman è tra loro, fresco di barbiere, emozionato, con il suo viso da ragazzino polacco.
Il Prof. Marinelli osserva come sia la prima volta in assoluto che l’Ateneo apre le porte nella giornata di domenica: "Ma" spiega "la circostanza lo esige. Celebriamo infatti, in primo luogo, la Giornata della Memoria…." Egli ricorda che, con le infami leggi razziali del 1938, ben quattrocento (400!) professori furono cacciati dalle nostre università, circa il 7% dei docenti italiani, con le conseguenze, sul piano della qualità della ricerca, ancora oggi ben riscontrabili. Nella sola Firenze furono trentasette i docenti espulsi, oltre ad un numero imprecisato di lettori, studenti, impiegati. "Ogni anno onoriamo questa Giornata con eventi di alto profilo" prosegue "Oggi abbiamo la gioia di ospitare un artista degno erede della grande tradizione culturale ebraica del dialogo e del confronto tra culture diverse. David Grossman è, tra gli Autori israeliani, uno dei più letti ed amati; non solo per la sua produzione letteraria, ma per il suo costante impegno in favore del dialogo". "So" racconta "che egli è stato riconosciuto per le vie della nostra città, fermato, accolto con affetto da comuni cittadini, abbracciato….."
E’ compito della Prof. Ida Zatelli, nella sua laudatio presentare il nuovo Dottore. Ella lo fa con il tono partecipato, anzi commosso, che la caratterizza; la sua esposizione, densa di cultura, non è mai fredda, distaccata, comprendi che ci mette il cuore e l’anima: hai davanti agli occhi la Firenze medicea, nella quale le lingue colte erano tre: il latino, il greco e l’ebraico; pensi al valore dell’Ebraismo diasporico, ponte ideale tra Cristianesimo e Islam….
Ecco i moderni scrittori. Per introdurne l’importanza la relatrice parte da una splendida immagine, tratta dal libro del Profeta Ezechiele: "…..C’era un uomo vestito di lino, con una borsa da scriba al fianco….Il Signore gli disse: 'Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un tau sulla fonte degli uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono'….Allora l’uomo vestito di lino….fece il suo rapporto e disse 'Ho fatto come tu mi hai comandato' " (Ez. 9, 2-4; 5-11)
Gli scrittori, ella spiega, sono oggi i nuovi profeti di Israele; profeti intesi come araldi, messaggeri. La lingua ebraica, studiata nel Rinascimento alla corte dei Medici, è oggi tornata a diffondere in tutto il mondo il suo messaggio.
Non posso fare a meno di pensare, per un attimo, al Governo degli Ignoranti (così definiva Vaclav Havel gli stalinisti che lo avevano imprigionato): l’arretrata, variopinta congrega che vorrebbe boicottare Il Salone Internazionale del Libro di Torino, che aprirà i battenti tra circa tre mesi, perché quest’anno il Paese ospite sarà Israele: "scandalo" aggravato dal fatto che l’iniziativa si svolgerà in concomitanza col Sessantesimo della costituzione dello Stato: maggio 1948! Ma questo triste pensiero dura appunto solo un attimo.
La Professoressa ci parla di David Grossman. E’ nato nel 1954 a Gerusalemme dove vive tuttora; laureato in Filosofia e Teatro all’Università Ebraica di Gerusalemme, ha cominciato la sua attività giovanissimo alla Radio israeliana come autore e conduttore di programmi culturali e come corrispondente impegnato in servizi di carattere sociale e politico. Dalla fine degli anni Ottanta si è dedicato completamente alla scrittura. Ha sperimentato diversi generi letterari: dal romanzo psicologico, a quello epistolare, a quello di formazione. Con Vedi alla voce: amore, che ha aperto la via del successo agli scrittori israeliani in Italia, egli ripropone il tema della Shoah in una prospettiva originale: la tragedia vista attraverso gli occhi di un ragazzino, figlio di sopravvissuti (Momik), che cerca di raffigurarsi la "Belva nazista", per la quale costruisce addirittura una trappola, poiché la ritiene un vero animale, e "Quel Paese lì". Nella sua opera egli approfondisce i temi dell’infanzia e dell’adolescenza, confrontandosi con le diverse risorse del linguaggio e ricorrendo ad originali soluzioni narrative: pensiamo a Ci sono bambini a zig zag o a Qualcuno con cui correre, avventura picaresca in una Gerusalemme che non ti aspetteresti.
Altro tema trattato dalla poetica di Grossman è l’Amore, inteso come relazione affettiva, dramma dell’assenza e della gelosia, un’indagine profonda delle più intime pulsioni dell’anima, dove la corporeità riveste forte rilievo (Che tu sia per me il coltello o Col corpo capisco).
La sua scrittura è espressione di un forte afflato etico, che investe tematiche di scottante attualità. Il disagio e l’ingiustizia come fenomeni umani sono temi portanti della narrativa dell’Autore, siano essi determinati da una particolare condizione politica o da una sorta di ossessione psicologica. Egli considera la libertà come il cuore stesso dell’opera letteraria: "..la libertà di pensare diversamente…..di guardare in modo nuovo a situazioni e persone, anche se sono i nostri nemici… Dobbiamo permettere al nemico di essere prossimo -fosse anche per un solo momento- con tutto ciò che questo comporta….Bisogna arrivare a conoscere l’altro dall’interno…"
Non potevo fare a meno di chiedermi: Conoscerlo anche quando al nemico non interessa affatto, a sua volta, conoscerti, David, perché desidera solo la tua morte -indipendentemente da qualsivoglia disputa politica su Terra/Pace, tanto cara agli analisti europei, quanto lontana dal cuore del problema-? Come fai a vedere la realtà con gli occhi di chi fa scoppiare autobus zeppi di studenti, donne incinte e pensionati, di chi lapida i bambini, ama la morte e, sulla base di tale codice, educa i propri figli, non esitando a mandarli al macello, negando loro ogni speranza di gioia e di avvenire; mentre tu cerchi il dialogo, il confronto, l’immedesimazione, insomma la vita?
La Professoressa mi riporta alla dimensione storica della Giornata: ora che i testimoni stanno scomparendo, il compito di "parlare agli uomini oltre gli ambiti della ricerca specialistica, sarà sempre di più affidato all’arte dello scrittore, nuovo portavoce, nuovo profeta. Grossman che scrive spinto da una forte esigenza interiore, si è assunto questo compito, che ormai tutti ci riguarda".
Ecco l’aspetto ufficiale:……Vista la delibera del Consiglio di Facoltà e il decreto del Ministro….. David Grossman è insignito del diploma di laurea specialistica in "Studi Letterari e Culturali Internazionali", valido a tutti gli effetti di legge.
Il neodottore è rivestito di toga e tocco: lì per lì sembrerebbe un poco in imbarazzo, ma passati l’emozione e lo stupore del primo istante, ti rendi conto quanto stia bene nella parte.
Siamo al primo giorno di scuola, Prof. Grossman, alla scuola di vita e ansiosi di imparare.
Egli legge, o meglio racconta, la sua lectio doctoralis in un inglese fluido e solenne al tempo stesso, una suggestione inesprimibile a parole. Nella sala non si ode alcun rumore, se non il lieve fruscio della pagine che vengono girate. Nella vicenda drammatica delle persone salvate dalla prostituta polacca, le quali, in piedi nell’intercapedine di un muro, cercano, scavando nella memoria, di ricomporre un breviario di preghiere, di ricostruire un lunario, poiché ritengono di essere gli unici Ebrei rimasti sulla faccia della terra, c’è tutto il carattere di questo popolo unico al mondo. Guardavo David e richiamavo alla mente quello che scrisse alcuni anni fa nell’introduzione al libro dell’Esodo, uscito per la collana Einaudi Tascabili: "Se non si perderanno d’animo, [gli Ebrei nell’immensità del deserto] capiranno che è avvenuto un miracolo, che hanno ottenuto un privilegio, l’occasione di reinventare se stessi, di essere redenti. Se sapranno osare, potranno modellare su di sé una nuova identità. Ma per fare ciò, devono combattere l’enorme zavorra dell’abitudine, dell’ansia e del dubbio, della schiavitù interiore….."
E pensavo a Uri, il secondogenito poco più che ventenne, perito in azione di difesa nel Sud del Libano, nell’agosto 2006, a poche ore dalla proclamazione della tregua; Uri è morto da eroe. Suo padre, nell’orazione funebre che ha commosso tanta gente, ne fa un ritratto a tutto tondo, di altissimo profilo morale, colmo di un amore senza fine nei confronti di questo ragazzone -chiamato dai parenti Neshuma, perché egli era tutto Neshamà, anima- che gli aveva dato il privilegio di essere suo confidente: "……Non sono nemmeno capace di dire ad alta voce quanto tu fossi per me qualcuno con cui correre. Ogni volta che arrivavi in licenza dicevi: vieni, papà, parliamo. Di solito andavamo in un ristorante, a sedere e a parlare….".
La lectio si intitola Il colombo viaggiatore della Shoah: "…..noi, in Israele, siamo condannati a dibatterle ripetutamente [le conseguenze della Shoah], a cadere talvolta nella trappola dell’angoscia esistenziale che la Shoah ha scavato in noi, a definire gli aspetti della nostra vita nei termini categorici, estremi, che [essa] ha lasciato in noi. In un certo senso si può dire che il popolo ebraico, e di fatto, quasi ogni ebreo, sia un colombo viaggiatore (a carrier pigeon) della Shoah, che lo voglia o no".
Il messaggio del colombo David Grossman è un capolavoro assoluto, che sarebbe oltraggioso riassumere nel linguaggio comune.
Mi permetto solo di limitarmi a riportarne alcuni stralci più significativi, nella traduzione italiana operata dall’Università di Firenze. Sono sicura che vi emozionerà e vi scuoterà nel profondo, come ha emozionato e scosso me.
Il Governo degli Ignoranti è miseria lontana.
“Oggi ricorre la Giornata Internazionale della Memoria. Sei milioni di ebrei morirono sul suolo d'Europa in un eccidio senza precedenti nella storia dell'umanità e dopo il quale l'umanità non fu più la stessa.
Ecco alcuni interrogativi che questa giornata risveglia: esiste oggi un dibattito sulla Shoah in quanto avvenimento dal significato "universale" e non esclusivamente "ebraico"? Tale dibattito è significativo, e autentico, oppure, con l'andar degli anni, si è trasformato in una sorta di obbligo formale, di tributo che il senso di colpa europeo si sente in dovere di pagare una volta all'anno agli ebrei e ai patimenti da loro subiti durante la Shoah? E noi, rappresentanti di questa generazione, di tutti i popoli e le religioni, comprendiamo l'incisività e l'attualità degli interrogativi che la Shoah ci prospetta e la rilevanza che hanno ancora oggi, soprattutto oggi?
Queste domande concernono, peraltro, anche il nostro rapporto con gli stranieri, i diversi……concernono l'indifferenza che il mondo mostra…..verso episodi di massacro in Ruanda, in Congo, in Kosovo, in Cecenia, nel Darfur; concernono la malvagità e la crudeltà del genere umano che nel periodo della Shoah si profilarono come concreta possibilità di comportamento. In che modo trovano espressione nella nostra vita e quale influenza hanno sulla conformazione e sulla condotta del genere umano?
In altre parole: la memoria che serbiamo della Shoah può essere veramente una sorta di segnale d'avvertimento morale? E siamo noi in grado di trasformare i suoi insegnamenti in parte integrante della nostra vita?
………………..Quanto più ci allontaniamo dall'epoca degli avvenimenti, quanto più il numero dei sopravvissuti diminuisce, tanto più cresce il timore che il dibattito sulla Shoah rimanga circoscritto a un ambito accademico e astratto e perda gradualmente il legame con una dimensione umana, personale, privata.
Apparentemente questo è un processo naturale: coloro che ricordano si allontanano dalla sofferenza personale delle vittime a favore di una prospettiva storica più ampia, generale, teorica. In un certo senso è più facile, e persino "comodo", occuparsi di un evento storico traumatico con gli strumenti del pensiero astratto e del dibattito concettuale piuttosto che esporsi, di volta in volta, alle atrocità, all'insopportabile sofferenza del singolo, dell'individuo, dell'uomo, della donna e del bambino vittime di quel trauma.
Noi ebrei non abbiamo altra scelta che toccare direttamente con mano la Shoah in quasi ogni circostanza o congiuntura significativa della nostra vita. La Shoah ha elaborato in noi schemi di pensiero e di condotta ravvisabili in quasi ogni ambito della nostra esistenza: dal modo in cui alleviamo ed educhiamo i figli a quello in cui lo Stato di Israele affronta i problemi di sicurezza e di politica estera. Ma la Shoah è più che altro presente nel modo occulto, tragico, con cui gli israeliani e gli ebrei percepiscono la loro esistenza in quanto popolo, la loro diversità, l'agghiacciante peculiarità del loro destino, la loro estraneità fra gli altri popoli, l'esperienza della loro esistenza che appare immancabilmente fragile, incerta, sempre in bilico, e sulla quale incombe l'ombra di una qualche minaccia.
Ma affinché questa disquisizione non rimanga a un livello puramente teorico……..vorrei raccontarvi una storia di quel periodo……racchiude una tale sofferenza e un tale dolore che da anni non mi dà pace.
Si tratta della vicenda di un giornalista ebreo polacco di nome Leib Rochman. Negli anni Trenta del secolo scorso Rochman scriveva per un giornale in yiddish pubblicato a Varsavia. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale fece ritorno alla cittadina nella quale era nato, Minsk Mazowiecki, situata a est di Varsavia, dove si attivò come "assistente sociale" tra gli ebrei del ghetto, facendo meraviglie nel procacciare cibo agli affamati. Nel 1942 sposò Ester, anch'ella nativa del luogo, e tre mesi dopo i nazisti sterminarono la comunità ebraica. Dei seimila ebrei della cittadina ne rimasero meno di venti.
Leib ed Ester, insieme con la sorella minore di quest'ultima, riuscirono a mettersi in salvo e a trovare rifugio presso una donna polacca il cui soprannome era "Ciotka", zia in polacco, un'anziana prostituta cordiale e piena di vita. Affidarono a degli amici polacchi i risparmi che avevano messo da parte negli anni anteriori alla guerra e di tanto in tanto mandavano da loro Ciotka affinché venisse pagata, continuasse a tenerli con sé e si preoccupasse della loro sopravvivenza.
Nel suo salotto Ciotka costruì per Leib ed Ester una parete-nascondiglio, a poca distanza da quella originaria. Leib, sua moglie e sua cognata vissero nell'intercapedine tra le due pareti per quasi due anni. A un certo punto decisero di portarvi anche Haim, il fratellino minore di Ester, tenuto prigioniero in un campo dei dintorni, e consegnarono a Ciotka del denaro affinché si recasse al campo, corrompesse le guardie, liberasse Haim e lo conducesse da loro.
Ciotka si mise in viaggio ma strada facendo bevve un po’………………. finì per spendere tutto il denaro che aveva con sé tornò a casa senza Haim.
Quella notte i tedeschi giustiziarono tutti i prigionieri del campo e anche Haim morì.
Quando Leib ed Ester vennero a sapere che Haim non era più in vita decisero di salvare un altro ebreo che……..possedeva una vasta cultura ebraica e parlava la lingua della Bibbia. Poiché credevano che non fossero quasi rimasti ebrei al mondo, ritennero indispensabile tentare di salvare chi potesse perpetuare lo spirito e la tradizione ebraica.
A volte penso: tre ebrei vivevano dietro una parete, ignari di ciò che avveniva nel mondo, eppure decisero di salvare qualcuno in grado di tramandare l'ebraismo. Questa fu la loro considerazione a quell'epoca.
Così fecero arrivare Efraim e dopo di lui un altro ebreo, più anziano di tutti loro. Ora erano in cinque. La distanza tra le pareti era di pochi centimetri. Di notte uscivano strisciando dall'intercapedine e dormivano sul pavimento del salotto di Ciotka. La mattina…….si infilavano tra le pareti e rimanevano lì, in piedi. Cinque persone, schiena contro schiena, faccia contro faccia…………………Ciotka portava loro del cibo e dei vasi da notte in cui fare i loro bisogni………
Da dietro la parete sentivano talvolta voci di ebrei perseguitati che arrivavano in quella casa a chiedere un tozzo di pane……Un poco alla volta queste persone smisero di arrivare……e a quel punto Leib, Ester e gli altri erano ormai sicuri di essere rimasti gli ultimi ebrei al mondo…………………………………………………….
Rimasero nascosti fino alla fine della guerra, quando poterono uscire. Leib Rochman era molto malato e debole. I cinque abbandonarono il nascondiglio e si misero in viaggio, senza sapere per dove. Cinque ebrei pressoché nudi. Gli abiti che indossavano si erano logorati in quei due anni. Attraversarono i villaggi intorno a Lublin, bussarono a porte, supplicarono per un tozzo di pane, per un po' d'acqua. Nessuno aprì, nessuno diede loro né pane né acqua. Ovunque andassero la gente li indicava e diceva stupita, in tono di scherno: ma come, sono rimasti così tanti ebrei?
Una notte trovarono rifugio in un campo di prigionieri vuoto, il cui recinto era stato sfondato, e lì trascorsero la notte……La mattina, al loro risveglio, scoprirono di essere nel campo di concentramento di Meidanek, liberato un paio di giorni prima dai russi, e di aver dormito sui letti dei prigionieri. Alla luce del giorno gironzolarono per il campo e all'improvviso videro la Shoah.
Non sapevano esattamente cosa fosse avvenuto negli ultimi due anni e ora vedevano davanti a sé mucchi di cadaveri e i cumuli di cenere di chi era stato bruciato. Non riuscivano a crederci………..
A quel punto si imbatterono in un gruppo di ufficiali e di guardie del campo catturati dai russi. I soldati dell'Armata rossa accerchiavano i tedeschi che stavano seduti al centro, prigionieri.
Così, nello stesso giorno, Leib e compagni videro le vittime e i carnefici. I carnefici in carne ed ossa. Non qualcosa di astratto, un qualche simbolo del male. Lì, davanti a loro, erano gli assassini che avevano messo in atto il piano della ‘Soluzione Finale’.
Di colpo Leib Rochman non fu più in grado di sopportarlo. Corse verso un soldato russo e gli strappò di mano il fucile, con l'intenzione di sparare ai tedeschi. Fermo davanti a loro prese la mira, ma non riuscì a premere il grilletto. Quasi impazzì, urlò, odiò se stesso, ma non poté farlo.
Allora gridò, in yiddish: Aufstein, Fallen! – In piedi! A terra!
I tedeschi, sicuri che stesse per ucciderli, fecero ciò che ordinava loro, terrorizzati. Scattarono in piedi e si lasciarono cadere a terra, più volte. Leib capì che non sarebbe riuscito ad ammazzarli. Non sapendo cosa fare buttò via il fucile, si ritirò in disparte e scoppiò a piangere, a tossire e per la prima volta sputò sangue. Allora scoprì di essere malato di tubercolosi.
Leib ed Ester Rochman ebbero molte altre vicissitudini…………. alla fine giunsero nella terra di Israele. Si stabilirono a Gerusalemme ed ebbero un figlio e una figlia. Quest'ultima, la poetessa Rivka Miriam Rochman, è una mia cara e buona amica ed è da lei che ho appreso questa storia.
Leib Rochman fu giornalista dell' emittente radio israeliana Kol Israel, ma per gran parte della sua vita si dedicò alla scrittura. Pubblicò due romanzi e una raccolta di racconti che ritengo esempi meravigliosi di letteratura innovativa, profonda, che discende negli abissi dell'animo umano. Questa è la storia sua e di sua moglie Ester. Ci sono altre milioni di storie come questa. Ogni persona morta, o sopravvissuta, è una vicenda a sé e tutte queste storie, in apparenza, si mantengono su un piano totalmente diverso da quello su cui sono dibattute oggi le grandi "questioni" relative alla Shoah, sempre che siano dibattute. Tali questioni vertono soprattutto sulla negazione della Shoah, sull'incremento del numero dei neo nazisti in diverse nazioni e sul rafforzamento dell'antisemitismo nel mondo. Negli ultimi anni la discussione circa il diritto dei tedeschi di considerarsi vittime di quella guerra al pari di altri popoli, o addirittura di creare una simmetria -errata e inammissibile a mio parere- tra la loro sofferenza e quella degli ebrei durante la Shoah, si fa sempre più accesa.
Le vicende personali di Leib ed Ester Rochman, così come quelle di altri milioni di persone, si mantengono, su un piano diverso, ma senza di esse un dibattito sulla Shoah non sarebbe completo e sarebbe impossibile creare un legame emotivo tra le generazioni future e ciò che avvenne allora. Dirò di più: senza quelle storie personali il dibattito sulla Shoah potrebbe talvolta apparire un tentativo inconsapevole di difendersi dall'orrore palese. E, spingendoci oltre, si potrebbe ipotizzare che, senza di esse, il dibattito generico, di principio, si spegnerebbe lentamente. Proprio le vicende individuali, private, sono il 'luogo' più universale, la dimensione entro la quale è possibile creare il senso di identificazione umana e morale con le vittime, che permette a chiunque di porsi ardui interrogativi: come mi sarei comportato io se fossi vissuto a quell'epoca, in quella realtà? Come mi sarei comportato se fossi stato una delle vittime, o un connazionale degli aguzzini? Ho l'impressione che fino a che non risponderemo a queste domande -ognuno per conto proprio- fino a che non ci sottoporremo a questo autointerrogatorio, non potremo dire a noi stessi di aver affrontato pienamente ciò che avvenne laggiù. E se non lo faremo, dimenticheremo………………
L'arte è lo strumento più accessibile e comprensibile con il quale gran parte di noi può oggi venire a contatto, direttamente e lucidamente, con la memoria della Shoah e con gli insegnamenti che da essa derivano.
È una grossa responsabilità per gli artisti: presentare le cose in modo immediato, non manipolativo…..
È molto difficile penetrare in quelle tenebre, nel luogo dove tutte le bussole impazzirono, e mostrare chiaramente la follia di ciò che avvenne. Mediante l'arte possiamo ravvivare il linguaggio col quale descrivere ciò che avvenne, non sedimentarci in un cliché di parole e di sentimenti intesi, in verità, a proteggerci da quell'insopportabile sofferenza. Ancora e ancora, in un'infinità di varianti, dobbiamo raccontare a noi stessi e agli altri quella storia terribile, con tutte le sue atrocità, ma anche con le sue scintille di luce e di pietà e di compassione e di coraggio……….
Raccontarla basandoci sulla conoscenza dei fatti storici, facendo riecheggiare gli interrogativi morali, sociali e filosofici che essa risveglia, ma mantenendo sempre un legame con le vicende personali degli esseri umani che la vissero; ponendo noi stessi laggiù al posto loro, con loro. Ancora e ancora (time and again) dobbiamo tornare laggiù, identificarci totalmente con la donna……. con il bambino costretti a spogliarsi gli uni davanti agli altri un attimo prima di essere giustiziati e gettati in una fossa. Tornare a essere con i due bambini ebrei presi prigionieri durante un rastrellamento, mentre giocavano a pallone con i loro amici cristiani. E quando il treno che li trasportava via passò accanto al campo di calcio videro, attraverso le fessure del vagone, i loro compagni che continuavano a giocare.…..Tornare a essere con le due donne e i tre uomini che per giorni e settimane e mesi e anni rimasero in piedi, al buio, tra due pareti.
Il mio modo di tornare a raccontare questa storia è stato scrivendo Vedi alla voce: amore.
Scrissi quel libro perché ero arrivato a un momento della mia vita in cui sentivo di non poterne più fare a meno. Di non poter più vivere e comprendere appieno la mia vita di essere umano, di padre, di ebreo, di israeliano e di scrittore, fin tanto che non avessi sperimentato -grazie alla scrittura- l'esistenza che non avevo avuto 'laggiù', all'epoca della Shoah. Dovevo capire se, e in che modo, sarei stato in grado di mantenere una parvenza umana qualora mi fossi trovato 'laggiù', come una delle vittime, o, D-o non voglia, uno dei carnefici. Volevo sapere cosa un uomo deve cancellare -o rimuovere- dentro di sé per poter essere parte di un meccanismo omicida (a killing machine). In altre parole, che cosa avrei dovuto sopprimere in me stesso per poter sopprimere altri, o anche ‘soltanto’ accettare quella situazione in silenzio.
È evidente che tali interrogativi sono pertinenti non solo al periodo della Shoah, ma anche a situazioni meno estreme……..
Ognuno di noi può rispondervi a modo proprio. Io lo faccio scrivendo. Immagino che questo sia il motivo per il quale avete deciso di concedermi oggi questa laurea ad honorem. Prometto che i miei libri continueranno a porre questi interrogativi, e cercheranno di darvi una risposta. Ancora e ancora
e ancora.
Again and again and again”.