(Titolo originale: Har ha’etsah hara’ah, 1974; The hill of evil counsel, 1976)
Trad. Elena Loewenthal, Ed. Feltrinelli, collana I narratori, Torino, Ottobre 2011, pp. 231, €. 17,00
“Papà diceva sempre che le terre più belle ci avevano vomitato dalle loro viscere con un odio cieco, e per questo ne avremmo costruita qui una mille volte meglio. Mamma invece chiamava questo paese un cortiletto e diceva che qui non ci sarebbero mai stati un vero fiume, una cattedrale e dei boschi impenetrabili”
“Quando finalmente sarebbe sorto lo Stato Ebraico, avremmo galoppato con i nostri cavalli fino alle sorgenti d’acqua…”
“…Gerusalemme romperà i suoi argini e diventerà una grande metropoli. I vecchi scenderanno allegramente per le sue strade, alle sue porte non verrà alcun nemico minaccioso..”
Tre lunghi racconti compongono quest’opera di Amos Oz, pubblicata da Feltrinelli -con la traduzione di Elena Loewenthal- lo scorso ottobre, ma scritta tra il 1974 e il 1975, quando cioè lo scrittore israeliano, pur poco più che trentenne, aveva già raggiunto la maturità poetica ed espressiva.
Dopo aver approfondito un classico come Una storia di amore e di tenebra (2001), è emozionante leggere ora pagine redatte quasi un quarantennio fa. Non si tratta di compiere un esercizio stilistico o ermeneutico, bensì di rivivere l’esperienza esistenziale dell’Autore, cercare quali temi egli ha ripreso nel corso degli anni, quali percorsi ha interrotto, modificato, sviluppato.
Tre novelle, intrecciate tra loro in una mirabile unità spazio-temporale, caratterizzate da due figure/mondo legate, a loro volta, l’una all’altra. Per il lettore, una scoperta graduale. Una fiamma di vita che arde, senza mai spegnersi, come nell’immagine di copertina nell’edizione italiana.
La prima figura è la Città di Gerusalemme, ritratta nel biennio convulso che precede la (ri)nascita dello Stato di Israele, in un ambiente di forte tensione e di consapevolezza che qualcosa di importante stia per accadere.
Il Monte del Cattivo Consiglio è il racconto d’apertura -il più ricco di spunti autobiografici- che dà il titolo al volume.
Maggio 1946. Nella Città Santa sono in corso i festeggiamenti per il primo anniversario della vittoria alleata. La celebrazione congiunta Britannici / Ebrei mostra, al di là delle apparenze, come l’evento non sia affatto condiviso. Da una parte c’è la potenza coloniale inglese, consapevole sì che i tempi gloriosi sono alle spalle, ma, ciononostante, ancora legata a comportamenti improntati ad una malcelata arroganza nei confronti della locale comunità ebraica; dall’altra i rappresentanti sionisti, forti del proprio orgoglio nazionale.
Durante la festa, proprio mentre è in corso la proiezione di un filmato che racconta le gesta di Bernard Law Montgomery in nord Africa, Lady Bromley, cognata dell’Alto Commissario inglese (Sir Alan Cunningham), una signora “molto anziana…”, ha un improvviso malore e viene soccorsa prontamente da un medico. Sappiamo ben presto che, in realtà, si tratta di un veterinario.
Conosciamo così la famiglia Kipnis. Padre, madre, figlio e il piccolo Hillel, l’A. adombrato.
Il ragazzo è la voce narrante che si esprime in terza persona allorché si riferisce a se stesso.
La città, quel suo clima speciale vissuto attraverso occhi e sensibilità infantili (come nel racconto successivo), sono espressi con immagini di intensa poesia, in un linguaggio ricco di sfumature. Gerusalemme dai vasti spazi, alture, fiori, giardini; ci troviamo in città, ma sembra di stare in campagna o in un luogo selvaggio dove puoi perfino trovare pezzi d’ossa di un soldato turco. Silenzi, suoni di campane, rumori di animali nel buio. Più che descritta, essa è abbracciata nei diversi momenti del giorno e nel susseguirsi delle stagioni: la luce azzurra e grigia dell’alba, i “cipressi e le torri dell’acqua in cima alla collina di Romema”, immersi nella foschia; l’afa dell’estate, la luce calda del pieno mattino, “l’angoscia e nostalgia” della sera, quando si chiudono l’una dopo l’altra, le tende e le imposte di ferro; i misteri notturni, lo spirare intenso del vento, mentre i cani abbaiano in lontananza. Le colline all’intorno talora spaventano le giovanissime voci narranti poiché sembrano loro montagne altissime, incombenti; al di là delle quali pare esserci un nulla ostile.
Quale ringraziamento per l’aiuto prestato alla nobildonna, il Dr. Kipnis e Signora sono invitati al ballo di maggio nel Palazzo dell’Alto Commissario, sul Monte del Cattivo Consiglio.
Com’è noto, Gerusalemme è circondata da alture che si elevano per alcune decine di metri rispetto al suo livello. Esse hanno rappresentato, nel corso dei secoli, eccellenti posti di osservazione per le sentinelle poste a guardia della città: il Monte degli Ulivi a est; il Monte dello Scandalo a sud est; il Monte Scopus a nord-est; il Monte del Cattivo Consiglio a sud. Quest’ultimo appellativo insolito deriva dal fatto che, secondo la tradizione, fu il luogo in cui venne organizzato il complotto per uccidere Gesù e dove Abramo si fermò prima di “consegnare il figlio Isacco nelle mani divine”.
Alcune note biografiche sui Kipnis. Il Padre, Hans, nativo della Slesia, è (pro)nipote, per parte di madre, del celebre geografo Hans Walter Landauer. Dopo la laurea a Lipsia in Medicina Veterinaria (con specializzazione in Malattie bovine tropicali e subtropicali), nel 1932 compie l’Aliyah; mentre la madre e le sorelle restano in Germania, dove saranno uccise dai Nazisti. E’ un giovane silenzioso e taciturno, dagli occhi azzurri, amante dei libri e del suo nuovo Paese, che via via impara a conoscere. Sogna di diventare scrittore, ma anche di costituire un allevamento di bovini sulle montagne della Galilea. In un villaggio arabo (Halsa) incontra un ornitologo bavarese, un tipo ascetico che sta raccogliendo materiale per un vasto studio sugli uccelli della Terra Santa.
Mentre insieme compiono lunghe escursioni in questi luoghi carichi di suggestione, rievocano le amate poesie di Schiller.
Per potersi assicurare l’indipendenza economica Hans si reca a Gerusalemme, da Arthur Rupin, illustre esponente sionista, il quale lo persuade a rinunciare al vagheggiato allevamento, a impiegare i suoi danari in un agrumeto a Nes Zionah, nonché ad acquistare una casetta nel nuovo quartiere, sorto in città, di Tel Arza. Gli procura poi un impiego come veterinario itinerante, il che consente ad Hans di integrarsi sempre meglio nella nuova Patria, affinando la conoscenza della lingua, grazie pure alla redazione di un diario nel quale, a sera, annota in ebraico i suoi pensieri.
Pur ottimista sul futuro di Israele, egli condivide il generale clima di dolore e smarrimento -descritto con notevole efficacia da Oz- che si diffonde a seguito del notevole afflusso di profughi dai luoghi più disparati dell’Europa. Dai nuovi arrivati acquista libri “odorosi di carta e cuoio”.
Amore direi fisico per i libri, che troviamo dapprima in Yehuda Arieh Klausner, indi in suo figlio Amos, il nostro Autore.
Col trascorrere del tempo Kipnis non avrà più notizie dei congiunti, un profondo dolore per lui.
La Madre, Ruth, è una Donna affascinante, misteriosa, dal “sorriso autunnale”.
Originaria di Varsavia, con una voce che incanta gli interlocutori, era giunta anni addietro a Gerusalemme per studiare Storia, ma, dopo qualche tempo, ne era stata scoraggiata per la durezza del luogo e la difficoltà della lingua. Allorché sta per andarsene negli USA dalla sorella, grazie a Rupin, conosce Hans Kipnis. I due si sposano ben presto e, un anno dopo, nasce Hillel.
La Donna è la seconda figura/mondo dell’opera: sempre desiderata, ma destinata ad essere perduta, nel primo e nell’ultimo racconto. Ruth è una personalità complessa con accessi di autentico odio nei confronti del coniuge, che poi sembrano rientrare, e verso la nuova Patria. Talvolta pare essere travolta dalla nostalgia per la Polonia; mentre la forte sensibilità la rende consapevole che qualcosa di terribile si abbatterà a breve sugli Ebrei d’Europa.
Tra Hans e Ruth non si crea mai una vera intimità: il principale motivo del distacco è il diverso atteggiamento verso Eretz Israel, come possiamo leggere nella prima frase che ho riportato in apertura.
Hillel è un bambino rotondetto e goffo, soggetto ad attacchi d’asma, soprannominato dai coetanei di Tel Arza “Gelatina”, alle prese con le prime inquietudini sessuali, suscitate in lui da due donne vicine di casa, zia e nipote, che suonano il piano e il violoncello. E’ legato in modo intenso al padre, mentre con Ruth il rapporto soffre di un certo, apparente, distacco (contrariamente all’esperienza familiare di casa Klausner). Di tale distacco Hans è consapevole e -sempre pronto a comprendere le motivazioni altrui, senza giudicare, né condannare- cerca con pazienza di spiegare al figlio come l’atteggiamento disinteressato di lei e certi suoi comportamenti all’apparenza incomprensibili derivino dal fatto che la mamma, cresciuta tra agi e ricchezze, fatica a reggere le attuali condizioni di vita.
Il convenzionale ballo di maggio al Palazzo dell’Alto Commissario, in un clima decadente e fatuo, impersonato dall’anziana e perfida Lady Bromley, è il contesto nel quale si compie la scelta radicale di Ruth, inaspettata per i congiunti, ma forse meditata da parte di lei chissà quanto tempo prima.
E quella madre imprevedibile e sempre lontana, fuggita all’improvviso, non ha qualcosa in comune con Fania Mussman, madre del piccolo Amos Klausner, poi Oz, il cui compagno agognato -e poi raggiunto una notte, in “quella stanza che dava sul cortile dietro casa di Haya e Zvi”- altri non era che il…sonno eterno?
Nel secondo racconto, il Sig. Levi, la voce narrante è un ancora un ragazzo, a sua volta con un nome legato al sacro, alla tradizione biblica: Uriel, il quale vive in un quartiere, presso Via Sofonia, costruito lungo il pendio di una collina dalla quale sono visibili i monti intorno a Gerusalemme. Il luogo è popolato da personaggi stravaganti, che paiono nascondere antichi segreti. Aleggia ovunque un che di trascurato, provvisorio -come quelle baracche, adibite a deposito, costruite col legno delle casse in cui la gente “aveva trasportato le sue cose dalla Russia e dalla Polonia”-. Senti ristagnare nell’aria odore di cavolo.
C’è l’anziano poeta Nehamkin, originario di Vilna, che, “rotondo e sbiadito, morbido come un orsetto di pezza”, sogna tempi nuovi, Bibbia alla mano; e intanto, con i suoi versi, cerca di decifrare “l’incertezza del vento tra le fronde”. Egli vive insieme a suo figlio Efraim, elettricista ed ideologo. Basso, capelli crespi, tuta blu da lavoro, incapace di star con le mani in mano, nella sua officina il giovane è in grado di riparare apparecchi radio (nonché ferri da stiro) e si è costruito da solo svariate trasmittenti. Carattere introverso, abile -ma impaziente- giocatore di scacchi, ogni tanto sparisce per giorni. Al ritorno è abbronzato, però quasi sempre di cattivo umore; a causa del suo insolito atteggiamento in giro hanno deciso che faccia parte attiva della Resistenza ebraica anti inglese. Egli, adorato da numerose ragazze, è un, almeno aspirante, ebreo combattente. Nulla a che vedere con quei poveri ragazzi della Diaspora che si son fatti trascinare al macello senza proferire parola.
Efraim e Uriel, il primo ha nominato come proprio “vice” in officina il secondo, sognano di libertà, di tempi nuovi, di battaglie combattute da sottomarini ai raggi X, in grado di spostarsi come se nulla fosse sotto la crosta terrestre. “Solo le generazioni future troveranno pace”, sostiene profeticamente il giovanotto.
Il salotto della casa in cui Uriel vive coi genitori è un ambiente luminoso, ricco di libri e di…spirito sionista: alle pareti la foto di un contadino dietro all’aratro in un campo nella valle di Iezreel, davanti al davanzale della finestra “…un grosso chiodo teneva su la scatola salvadanaio del Fondo permanente…”, poco distante un busto di Chopin contornato da una scritta in polacco “Tutto il calore del mio cuore fino allo spirare dell’anima”…Le partite a scacchi del padre, tipografo, chiamato dalla moglie per cognome, Kolodny, con Efraim, mentre la mamma suona il piano…
La donna, affascinante e carica di magia agli occhi dei familiari -e non solo- come una stella del cinema, ha il dono di alleggerire la tensione quando si fanno troppo accese le discussioni tra il polemico Efraim e il padre, solito a trattare tutto “con prudente scetticismo”. Il tè è pronto! E’ un piacere, poi, accogliere l’instancabile Nehamkin, il quale farà tutti partecipi delle sue visioni profetiche. E intanto il crepuscolo inizia.
Il rapporto sereno tra i genitori si riverbera sul ragazzino il quale, accanto ai prevedibili turbamenti sessuali dell’età, ha precise idee sull’amore, quello serio, che vede legato alla nascita dello Stato Ebraico. E sono cariche di profondo sentimento le immagini che Oz dona al cuore di Uriel: una Gerusalemme ancora composta di tante piccole borgate l’una diversa dall’altra, le campane delle chiese, l’insolita processione dalla Sinagoga Salvezza degli esuli…
Ma non mancano i ragazzi vicini di casa, i Grill, dispettosi fino alla crudeltà – la cui sorella però suscita nel “nostro” un forte desiderio-…C’è pure l’incursione in casa Kolodny da parte di una pattuglia inglese alla ricerca di partigiani Ebrei. Peraltro, nel caso specifico, è quasi una visita di cortesia: nella ricerca di persone, documenti, armi o altro materiale compromettente, gli oggetti sono spostati con una certa circospezione.
I sogni di gloria guerresca di Uriel sembrano infine essere infranti da un evento improvviso dal quale egli è escluso ad opera degli adulti, con sua grande frustrazione. Mai verrà a sapere se quell’indecifrabile ed aspro personaggio giunto un giorno nella loro casa e ben presto scomparso, nascosto in cantina o chissà dove, fosse davvero un certo Sig. Levi, come i genitori lo avevano chiamato, o magari il mitico comandante della Resistenza ebraica contro gli occupanti britannici, del quale tutti parlano.
L’ultimo racconto, Nostalgia, il più intenso e drammatico, ha un passo differente. Si articola sotto forma di alcune lettere che, a inizio autunno 1947, un medico quarantenne di origine viennese, Emanuel Nussbaum, malato terminale di cancro, indirizza idealmente alla donna che ha molto amato -e ancora ama-, una dottoressa dal carattere forte e deciso, Hermina (Mina) Oswald, ora lontana da lui, forse ancora nella città di Haifa, o magari già negli USA, impegnata per un ciclo di conferenze. Attraverso le parole di Emanuel Mina prende vita al punto da divenire più reale di quanto non lo sarebbe se si trovasse, di persona, a pochi passi da lui. Anzi ella, per lo più percepita come fredda, disincantata, con quel suo spegnere la sigaretta “come se volesse piantare una vite di ferro sul fondo del posacenere”, talora è immaginata, in modo quasi palpabile, come vicina e calda.
Solo nel crepuscolo, impegnato a sfruttare al massimo la luce del sole, egli scrive una sorta di confessione su di sé, sulla donna e su Gerusalemme, su quanto siano cambiati -e stiano cambiando- da un punto di vista antropologico -e pure fisico- le nuove generazioni di coloro che sono nati nella Terra dei Padri.
Mina e la città sono quasi un unico essere, avvolte da uno struggimento che le fa apparire vicine e lontane al tempo stesso: “Il tramonto comincia presto e la fiamma è più opaca del solito…forse anche disperata, un ardore amaro come l’ultimo atto d’amore, che è animato di furia perché è l’ultimo e non ve ne saranno altri”.
In Emanuel c’è forte passione, ma altresì un malinconico, pur lucido, distacco, dato dalla consapevolezza che non vedrà il futuro che si sta preparando: a nulla valgono le maldestre frasi di circostanza pronunciate dal medico che lo visita all’Ospedale Hadassah di Monte Scopus.
Ciononostante egli registra e riporta l’irrimediabile ostilità araba, l’approntarsi della difesa ebraica (prima della Risoluzione ONU del 29 novembre 1947, n. 181, e, a maggior ragione, in vista della partenza britannica) e le riserve espresse, nei confronti del nascente Stato, dai giornali europei, in primo luogo dal Times di Londra, impegnato a mettere in guardia i sionisti dall’intraprendere “mosse azzardate”, suscettibili di gravi conseguenze. Come si vede, in oltre un sessantennio, nulla è cambiato!
E, presenza costante, Gerusalemme, della quale l’uomo scorge lo stretto rapporto con il deserto; il deserto che porta in sé qualcosa d’inquietante: “…il Monte Scopus è la soglia del deserto. Mi sgomenta questa vicinanza, tra me e il deserto. Valli abbandonate, rocce sfregiate dal sole, cespugli sferzati dal vento…”. Il fischio del treno in lontananza, da Emek Refaim.
Colori sfumati, ma talvolta intensi al punto da indurre il protagonista ad uscire per essere, a sua volta, partecipe dei cambiamenti della città durante la giornata, mutamenti simili alle variazioni d’umore di una persona. Della donna amata.
Non sempre Emanuel è solo. A volte gli fa compagnia il giovanissimo Uriel, incontrato nel racconto precedente, incuriosito da quel signore, ai suoi occhi maturo, uno zio inconsueto cui si vuole bene (“Non morire!” lo prega dentro di sé), il quale non è solo un medico, ma dispone, nel suo appartamento, di un laboratorio di chimica adatto a fabbricare ordigni; risorsa utilissima in questi tempi difficili.
E poi Uriel si sente compreso dal dottore, nelle sue ansie per le angherie subite dai coetanei vicini di casa.
Emanuel, nonostante sappia di essere prossimo alla fine, anzi proprio per questo, non rinuncia, attraverso quelle lettere, a comunicare se stesso, a narrare, a ripercorrere le tappe della storia d’amore con Mina (e della sua malattia) per mantenersi vivo.
Un comportamento coraggioso così bene espresso da Dacia Maraini nel suo ultimo La grande festa (ed. Rizzoli, 2011) dove, con rara sensibilità, l’Autrice evoca le persone più care della sua vita, ora scomparse. La sorella Yuki, morta prematuramente, il padre Fosco (scrittore appassionato di Oriente, alpinista, viaggiatore sensibile), il compagno per tanti anni Alberto (Moravia), l’amico Pier Paolo (Pasolini), intessendo con loro un dialogo in grado di dar significato all’esistenza. E pure alla Morte e al suo Mistero -da parte di lei, Dacia, a suo dire non credente-, entrambi visti come il momento culminante di “una Grande Festa”.