Edizioni World Hub Press, Bologna, Collana High Concept Novel, Luglio 2011, pp. 650 €. 24,00
“….Voglio dire che io ho vissuto e morirò qui, come tuo padre e tutti i nostri avi prima di noi, ma tu forse -e se non tu, certamente tuo figlio- morirete in Eretz Yisrael. Sono secoli che la nostra famiglia aspetta di essere redenta e non sai quanto mi renda felice pensare che a farlo sia mio nipote”.
“Ma la gente assiepata oltre i cancelli dell’École Militaire non urlava morte al traditore: urlava morte all’ebreo. Morte all’ebreo”.
“Il filo che aveva spezzato tanti anni prima era rimasto lì, a penzoloni, ad aspettare che qualcosa o qualcuno lo riannodasse”
Con profonda soddisfazione presento il romanzo di esordio di un caro amico, Gabriele Rubini. Nato a Nuoro nel dicembre 1967, residente a Bologna, Rubini è un appassionato studioso di Storia, soprattutto del Medio Oriente. Ha vissuto per circa un anno in Israele, presso il kibbutz Ghivat Brenner, prima di laurearsi in Storia americana ed intraprendere la carriera di export manager in un’azienda del bolognese, attività che alterna alla scrittura [1] .
Con Generazioni 1881-1907 l’Editore World Hub Press (WHP) dà vita ad una nuova collana, dal titolo High Concept Novel: il programma, diretto in primo luogo ai giovani, consiste nel valorizzare e divulgare, secondo criteri di qualità, la conoscenza e il sapere scientifico, attraverso la trama narrativa.
Nel nostro caso, l’attenzione è volta alla storia del Popolo Ebraico, focalizzata su un arco di tempo di ventisei anni; tanto breve, quanto denso di eventi. Ecco le due date estreme.
1881: all’uccisione in S. Pietroburgo, il 13 marzo di quell’anno, dello Zar Alessandro II ad opera del movimento rivoluzionario terrorista Narodnaja Volja, seguono tremendi pogromi antisemiti.
Giovani ebrei, soprattutto studenti, che vivono nei territori dell’Impero danno vita alle prime iniziative sioniste, come gli Amanti di Sion (Hovevei Sion, Amanti di Sion), nati ad Odessa, o i Bilu -acronimo delle iniziali ebraiche di un versetto biblico, Isaia: 2,5: Beith Ya’acov Lekhu Venelkha, “בית יעקב לכו ונלכה” Casa di Giacobbe vieni, camminiamo (alla luce del Signore)-, gruppo fondato a Kharkov.
Questi volonterosi saranno l’anima della Prima Aliyah (letteralmente: Salita), il ritorno alla Terra dei Padri, Israele. I prodromi del nostro racconto, nel presentarci i primi protagonisti, ci donano pure uno sguardo assai breve, ma significativo, verso i secoli precedenti.
1907: è il periodo immediatamente successivo alla guerra russo-giapponese del 1905 e alla prima rivoluzione russa, con la scintillante Belle Epoque ormai al tramonto e destinata ad infrangersi nelle trincee della Prima Guerra Mondiale-
Il 1907 è una data emblematica anche per quanto concerne l’idea forza che è alla base del romanzo, l’opzione sionista. Infatti, un anno prima, nel 1906, a Gerusalemme, Boris Schatz, artista di origine lituana, aveva fondato la Scuola d’Arte Bezalel (in omaggio all’architetto del Tabernacolo e dei suoi arredi, come narra la Bibbia), dalla quale è nata l’arte israeliana.
Schatz aveva vissuto a Parigi nell’ultima decade dell’800, all’epoca del tristemente noto processo Dreyfus, riportando da questa drammatica vicenda un insegnamento indelebile: non solo egli abbracciò la scelta sionista, ma soprattutto era convinto che una nuova -o, per meglio dire, rinnovata- Patria per il Popolo ebraico non avrebbe mai potuto (ri)vedere la luce senza una nuova cultura, una nuova arte, nonché una nuova lingua [2] .
E, nelle ultime pagine del libro, assisteremo ad un incontro significativo, proprio in Gerusalemme, tra lo stesso Schatz e uno dei protagonisti. Anzi questo personaggio (a sua volta artista e residente a Parigi) è la figura/simbolo del romanzo, colui col quale esso, non certo a caso, si apre e si chiude.
Generazioni ha conosciuto, come accade spesso, altre stesure (superate dalla versione definitiva) ed è frutto di accurate ricerche di carattere storico, ma non solo, durate anni. E’uscito al momento giusto. Infatti, dopo l’entusiasmo nato nel grande pubblico, verso la fine degli anni ’90 del Novecento, verso tutto ciò che concerneva Ebrei ed Ebraismo, complici film di successo quali La vita è bella di Roberto Benigni o il più profondo, a mio parere, Train de vie di Radu Miheaileanu, è riemersa pian piano la bimillenaria ostilità, concentrata in primo luogo contro lo Stato di Israele, in quanto tale, a prescindere dalle scelte del Governo in carica in un certo periodo o frangente storico.
Ostilità crescente, irrobustitasi grazie alla grave crisi economico/finanziaria mondiale -una costante nella Storia e gli Ebrei ne sono ben consapevoli-. E non deve essere dimenticata l’ostilità verso lo Stato Ebraico, a prescindere, diffuso soprattutto nel mondo accademico, lato sensu, e politico, che sovente parla della costruzione dello Stato come di un vulnus, di un peccato originale di Israele.
Per questo, sono utili opere come la presente, ricche di sostanza e di spessore, in grado di farci conoscere una realtà, anzi molte realtà, tanto distorte quanto misconosciute.
Il fulcro dell’opera è costituito dalle vicende di cinque famiglie ebraiche -russi, italiani, francesi, ma non solo- che si sviluppano in un vasto intreccio, con svolte talora imprevedibili, dove tuttavia l’Autore riesce a far sì che chi legge non si perda, per così dire, tra le righe; anzi sia incoraggiato a proseguire, per immaginare, conoscere, scoprire ciò che accadrà nelle pagine successive.
Sullo sfondo delle drammatiche vicende di quegli anni, della Grande Storia, nasce, cresce e si sviluppa la Piccola Storia dei protagonisti, dando così vita ad una narrazione corale scritta con profonda partecipazione, in uno stile incisivo, privo di retorica, scevro da certe minuziose descrizioni che spesso rischiano di distogliere l’attenzione del lettore. Oggi non possiamo esprimerci come cinquanta o cento anni or sono, pena l’artificiosità; un romanzo strutturato in modo tradizionale qual è Generazioni si avvale, come notevole punto di forza, di un linguaggio che va diritto al cuore perché è spontaneo, immediato, in grado di farti passare, nel volgere di pochi istanti, dal pianto al riso. E, mi si passi la libertà -che non è una critica, al contrario- certi intercalari usati, che sono propri del linguaggio odierno (come l’espressione “assolutamente sì”), non stonano affatto, bensì danno freschezza e vigore al racconto.
Dunque una modalità espressiva agile ed immediata che bene si coniuga con un impianto solido, in grado di giocare su diversi piani spazio/temporali. Uno stile snello attentissimo al linguaggio e alle sfumature espressive, a cominciare dall’aspetto grafico: i punti salienti dei dialoghi, ad esempio, sono evidenziati dal corsivo, comprese le frasi in dialetto, nel nostro caso, come vedremo, bolognese, o le espressioni in lingua yiddish (con rigorosa traduzione nelle note a pié di pagina). “Yiddishland” è un mondo imprescindibile che si sta via via rivalutando, a quanto mi risulta perfino in Israele, dopo anni di rimozione e silenzio. Così personaggi e situazioni sono resi a “tutto tondo”.
Una doverosa spiegazione sul titolo. Come fa notare in modo perspicuo il giurista e storico Francesco Lucrezi -riprendendo una riflessione di Rav. Gianfranco Di Segni-, la parola Generazioni, in ebraico Toledòt, assume una rilevante importanza nella Torah, poiché è dal susseguirsi delle Toledòt che prende vita e forma l’universo; ed è dall’avvicendarsi delle Generazioni nel tempo che nasce e si sviluppa la storia, la storia degli esseri umani, con il loro carico di esperienze, di glorie e di bassezze. E con il loro ritornare alle origini, per riannodare certi fili tagliati e, all’apparenza, perduti. Toledòt am Israel è dunque la Storia del Popolo di Israele.
Con notevole sapienza Rubini sa alternare le voci dei protagonisti nati dalla sua fantasia con quelle di persone realmente esistite, delle quali traccia ritratti indelebili.
Ad esempio, il ventenne Benyamin Jacobi, una delle figure rilevanti del libro, giovane soldato russo nella Guerra di Crimea, iniziata nell’autunno 1853, in una lettera ai genitori -attesissima- scrive, non nascondendo il proprio stupore: “….mi trovo a Sebastopoli, arruolato in artiglieria. Il mio comandante è un nobile. Pensate: è venuto qui volontario! Ha un’aria un po’ truce e passa ore a scrivere appunti su un taccuino, una sorta di diario di guerra. Tolstoj si chiama: Lev Nikolajevic Tolstoj”.
Il romanzo si articola in due parti: la prima è dedicata a “Ha’Avot, i Padri”, cioè i protagonisti dai quali le storie prendono avvio; nella seconda “Ha’Banim, i Figli”, raccolgono il testimone da coloro che li hanno preceduti. Dunque, i “Padri” sono la struttura base, il fondamento saldo sul quale viene edificata la casa dai “Figli”. Ogni parte, poi, è suddivisa in “Libri” a seconda delle nazionalità dei personaggi. E non mancano gl’intrecci, creati per suscitare lo spirito d’avventura e la fantasia dei lettori, una sfida loro lanciata per confrontarsi con un variegato universo di culture, tradizioni, esistenze.
Proprio per lasciare intatto il piacere della scoperta, nel riassumere la trama di questa epopea mi limiterò agli aspetti essenziali al fine di sottolinearne in primo luogo le tematiche letterarie, soffermandomi con maggiore attenzione sulle famiglie russe perché è da loro che parte la storia ed a loro che, in modo ciclico, ritorna.
La scena d’apertura è drammatica. Siamo nella città di Zhitomir, Ucraina, all’interno della cosiddetta “Zona di residenza” (cherta osedlosti), il grande territorio che andava dalla Lituania all’Ucraina, comprese Bielorussia e parte della Polonia (in fondo al libro c’è un paio di perspicue cartine). Essa era stata istituita da Caterina II nel 1795 come residenza obbligatoria -salvo rare eccezioni- per gli Ebrei: una sorta di immenso ghetto -comprendente anche centri di una certa grandezza, non solo villaggi- abolito solo dalla Rivoluzione del 1917.
E’ il 17 marzo 1881, quattro giorni dopo l’attentato che uccide Alessandro II. Nathan Zylberstein, quasi 13 anni, viene picchiato e ferito gravemente da un gruppo di cosacchi che, poco prima, avevano dato sfogo al loro antisemitismo assassino uccidendogli la madre Lyla, il padre Judah e la sorella Hannah, maggiore di pochi anni.
Per quanto gli Ebrei non c’entrassero con l’assassinio dello Zar, questo fatto fu il pretesto per terribili pogromi. Salvato da un goy, il ragazzo è condotto dallo zio materno Benyamin Jacobi, che sta a Berdichev [3], località vicina, di circa 20.000 abitanti, chiamata la Gerusalemme dell’Ucraina, dove i rapporti tra Ebrei e Cristiani sono più tranquilli. Lo zio lo accoglie prontamente in casa e lo assiste con l’aiuto del figlio Samuel. Benyamin (colui che, giovanissimo, aveva partecipato alla Guerra di Crimea, riportandone un indelebile ricordo) è ora un ricco vedovo di quarantasei anni, proprietario di tre distillerie, la cui vodka viene venduta fino a Mosca e S. Pietroburgo.
Dalle prime pagine del romanzo -in un suggestivo flash back- conosciamo la storia della famiglia Jacobi. Originaria della Sassonia, poi trasferitasi dapprima a Cracovia, all’epoca di Re Casimiro III il Grande, protettore degli Ebrei (sec. XIV), indi a Lublino, nei secoli seguenti -dopo la sconfitta di Napoleone e grazie alle curiose vicende della vita- era approdata a Berdichev, in Ucraina.
Questo trasferimento è all’origine dello stretto rapporto che, per tanti anni, legherà gli Jacobi agli Zylberstein, originari di quel luogo e proprietari di una distilleria che l’anziano capofamiglia, proprio in quel torno di tempo, intende vendere.
L’Autore segue partecipe la vita dei diversi attori sul campo delineandone i caratteri con notevole capacità di introspezione psicologica. A cominciare dall’amicizia -unita ad una florida collaborazione commerciale- tra il nipote del vecchio Zylberstein, David, allegro e socievole, con il primogenito di Marek Jacobi, Levy, bravo amministratore, ma poco socievole. Con il secondo ad occuparsi di amministrazione e il primo a curare i clienti, gli affari prosperano. I rispettivi figli (Samuel -figlio di Levy- e Moshe -figlio di David-) crescono insieme.
La vita nello shtetl costituisce un accurato studio d’ambiente: l’impegno professionale e familiare, i contrasti, gli affetti, le difficoltà, i sentimenti nei confronti dell’esperienza di guerra. Di profondo impatto sono gli stralci di lettere inviate ai genitori dal giovane Benyamin, cariche di nostalgia di casa, di incertezza per il domani, di solidarietà verso i compagni con i quali il ragazzo divide la paura, la fatica, il freddo, il fango. Testimonianze scritte che ci ricordano quelle raccolte da Cornelius Ryan nel suo Il giorno più lungo, ambientato nei giorni dello sbarco alleato in Normandia del giugno 1944. Quel “Da qualche parte, in Normandia”, colmo d’ intensa carica emotiva, indirizzato da un esausto soldatino statunitense diciottenne ai genitori, nel nostro caso può divenire “Da qualche parte, in Crimea”.
Indimenticabili le frasi in yiddish -ad esempio quella di p. 26, per esprimere nel modo più realistico possibile il concetto “parliamoci chiaro”-, la cui traduzione in italiano, come detto, è affidata alle provvidenziali note a pié di pagina, ricche pure di informazioni di carattere storico e religioso poiché spiegano il significato di tradizioni ed usanze del mondo ebraico, vive ancora oggi.
I sogni….e, primo fra tutti, il Sogno di una Patria Ebraica, assai prima che Theodor Herzl vi desse dignità politica, al fine di ottenerne quella legittimazione internazionale da lui -con ragione- ritenuta indispensabile.
Il sentimento di appartenenza al Popolo Ebraico, questa profonda consapevolezza di sé consentono al giovanissimo Judah Zylberstein (figlio dell’affascinante Moshe, scomparso prematuramente, e di Dora Nirenstejn, la figlia dello…spazzacamino) di comprendere ben presto la ragione di fondo dell’antisemitismo, il motivo per cui esiste la stessa Zona di Residenza. Sono in primo luogo le parole del nonno paterno David ad illuminarlo:“Noi siamo il loro [dei goym] specchio…loro si guardano, non si piacciono e se la prendono con lo specchio…”. Ci sono alcune pietre miliari nella vita di Judah. Anzitutto la lezione impartita da David, che attende la redenzione del suo popolo; indi l’incontro, grazie ad un amico, con la personalità carismatica di Moses Hess, il grande “protosionista”, il quale, nella sua opera principale (Roma e Gerusalemme del 1862), aveva preconizzato, come unica risposta all’antisemitismo e unico modo per affermare l’identità ebraica nel mondo moderno, la creazione di uno Stato ebraico socialista nella Terra di Israele, in linea con i movimenti nazionali europei emergenti-. Indi il sostegno psicologico, quasi fisico, del Direttore del sanatorio di Berdichev, Dr. Salomon Pollack (altra figura stupenda del romanzo), degli Jacobi padre e figlio (Samuel e Benyamin). Tutto ciò fa nascere in Judah la consapevolezza e l’entusiasmo incontenibile di essere parte di un grande disegno: la creazione di una società nuova per un uomo nuovo e libero nella Terra dei Padri. Queste motivazioni forti convinceranno il giovane a superare l’ostilità al progetto espressa sia dalla madre Dora, sia da una parte non trascurabile della locale comunità, stretta tra grettezza e rassegnazione.
Judah Zylberstein e Lyla Jacobi (sorella minore di Benyamin, nata nel 1848, ragazza decisa e affascinante), insieme ad un piccolo gruppo di compagni, partono alla volta di Eretz Yisrael dove vivranno nove anni, in un villaggio agricolo alle spalle del Lago Kinneret (in Galilea) dal suggestivo ed emblematico nome di Shoshanat Jericho: la Rosa di Jericho. Essa è un fiore del deserto che, lì per lì, sembra una piccola palla di rovi senza radici, pare morta. Ma bastano due gocce d’acqua per farla rifiorire. Come il Popolo Ebraico che trova nell’ideale sionista la strada della Rinascita.
In questo luogo, costituito da un “pugno di baracche di legno arroccate in cima ad un colle”, Judah e Lyla lavoreranno in modo duro, sostenendo gravi sacrifici; dal loro matrimonio nasceranno -in Terra d’Israele!- due figli: Hannah (nel 1867) e Nathan, due anni dopo.
Il loro entusiasmo pare essere premiato, poiché mai era mancato loro il coraggio nel sostenere difficili prove, affrontate senza perdere il sorriso e il buonumore; ma sarà la fillossera, questo temibilissimo insetto che attacca le viti, a decretare il drammatico abbandono delle loro speranze e il mesto ritorno in patria della famiglia.
Seguiranno o, come scrive Rubini, scivoleranno alcuni anni fino a quel giorno fatidico di marzo 1881 e “a quella bomba che, insieme allo Zar,” aveva fatto “saltare in aria un mondo”.
Anche il Sogno, forse? No, perché un Sogno, se davvero ti è entrato nell’anima e nella carne, non muore e qualcun altro, dopo di te, riprenderà il cammino.
Dalla Russia il racconto, sempre declinato secondo agili capitoli titolati, si sposta a Bologna, nel febbraio 1887. La famiglia italiana è costituita dai Morpurgo, commercianti originari del Ducato di Modena. In apertura incontriamo Daniele Morpurgo, trentanovenne giornalista del prestigioso quotidiano locale Il Resto del Carlino, allorché, dopo una notte trascorsa al lavoro nei fumosi locali della sede posta in Via Garibaldi n. 3, presso la Tipografica Azzoguidi, incontra al vicino Caffè S. Pietro una variegata compagnia di amici, tutti più anziani, desiderosi di conoscere le principali notizie del giorno, anzitutto politiche (in campo interno e internazionale), dalla viva voce di lui, del…cinno (ragazzino, nel dialetto locale), come lo hanno soprannominato con affetto e un briciolo di ironia. Prendono vita quadretti di “Bologna com’era” sapidi e arguti, con figure umane caratterizzate da uno spirito concreto, pur talora un po’ greve.
Seguiamo quindi la storia di Daniele, persona sensibile, fin da quando, bambino, gioca con un coetaneo vicino di casa e correligionario, Edgardo Mortara. Questo nome evoca una notissima e, di per sé, assurda quanto vergognosa -e indifendibile, nonostante i tentativi ancora oggi operati da alcuni autori, sulla cui malafede preferisco non intrattenermi- vicenda di stampo medievale, iniziata nel giugno 1858, indelebile macchia nella storia della Chiesa Cattolica; la tragedia di una famiglia di ebrei bolognesi, la vita di un bambino, poi giovane, poi uomo tormentata dagl’incubi . I genitori si videro rapire dalla Guardie del Papa -per ordine dell’inquisitore di Bologna, il domenicano Feletti, che agiva su dettato di Papa Pio IX; siamo ancora prima dell’Unità d’Italia- il figlioletto di sette anni, sesto di otto figli, con la motivazione che questi, tempo addietro, ammalato, era stato battezzato in segreto da una giovane domestica cattolica, certa Nina, a quanto pare, “lesta di mano” (per questo in seguito licenziata dalla Sig.ra Mortara) e desiderosa di incassare un premio in danaro dalle autorità ecclesiastiche per la sua azione. Il Battesimo impartito a persona in punto di morte era fatto la cui veridicità non poteva ovviamente essere dimostrata; inoltre, a quanto pare, nulla contavano elementari considerazione di umanità e di rispetto per la libertà di coscienza.
L’impartito Battesimo comportava, secondo le leggi vigenti nello Stato pontificio, la sottrazione del piccolo alla famiglia e il suo allevamento in ambito cattolico. Il caso, col trascorrere del tempo, divenne celebre in tutto il mondo occidentale, USA compresi, poiché le idee liberali si stavano facendo strada. Notevoli personalità (tra le quali Sir Moses Haim Montefiore, con tutto il prestigio di cui godeva, anche al di fuori dell’ambiente ebraico) si mossero verso Roma affinché Edgardo fosse restituito ai suoi affetti e alla sua fede; invano. Anche per evitare vicende come questa e tutelare le famiglie ebraiche fu costituita, alcuni anni dopo, l’Alliance Israelite Universelle.
Peraltro, il dramma restò sempre nel cuore di Daniele, che vediamo crescere, divenire uomo ed intraprendere gli studi accademici, Facoltà di Lettere. Il giovane diviene allievo di Giosue Carducci, il grande poeta che illustrò la cattedra di Letteratura italiana (chiamata all’inizio di “Eloquenza italiana”) nell’Ateneo felsineo per oltre un quarantennio, dal 1860 al 1904. Di rilevante efficacia sono le scene di vita universitaria che L’Autore rievoca davanti ai nostri occhi; un mondo tramontato da tempo, ma che, fino a poco più di un quarantennio fa, era ancora ben vivo, almeno nei suoi aspetti essenziali. L’esistenza di Daniele è allietata dal matrimonio con Zita Bemporad, di Padova, e dalla nascita dei figli (Italo e Filippo). Su tutti l’affettuosa protezione di mamma Elda.
Peraltro, il dramma restò sempre nel cuore di Daniele, che vediamo crescere, divenire uomo ed intraprendere gli studi accademici, Facoltà di Lettere. Il giovane diviene allievo di Giosue Carducci, il grande poeta che illustrò la cattedra di Letteratura italiana (chiamata all’inizio di “Eloquenza italiana”) nell’Ateneo felsineo per oltre un quarantennio, dal 1860 al 1904. Di rilevante efficacia sono le scene di vita universitaria che L’Autore rievoca davanti ai nostri occhi; un mondo tramontato da tempo, ma che, fino a poco più di un quarantennio fa, era ancora ben vivo, almeno nei suoi aspetti essenziali. L’esistenza di Daniele è allietata dal matrimonio con Zita Bemporad, di Padova, e dalla nascita dei figli (Italo e Filippo). Su tutti l’affettuosa protezione di mamma Elda.
L’incontro col Professore è occasione per Morpurgo di crescita umana e culturale. Come spesso accade all’Università, non mancano i forti contrasti, specie quando il Discepolo annuncia al Maestro l’intenzione di lasciare l’incerta carriera di docente per l’assai più lucrosa (e, in definitiva, varia) vita di giornalista. Ma, qualche tempo dopo, saranno proprio le parole del ruvido Carducci, infiammate di amor patrio e pronunciate, in modo imprevisto, quale risposta ad un duro articolo sul “caso Mortara”, scritto in polemica contro i Gesuiti da Daniele, ad esortare questi ad un impegno, quale italiano (e non in quanto ebreo), in favore del suo Paese, unito solo nell’apparenza, per denunciarne i guasti, le contraddizioni; e, in primo luogo l’ignavia -sorta di parente povera dell’oblomovismo russo-, vera “peste nazionale”.
Siamo dunque di fronte ad una diversa scelta rispetto al movimento risorgimentale ebraico, cioè il Sionismo. Gabriele Rubini prende posizione: l’opzione sionista -emancipazione nazionale ai fini dell’emancipazione sociale- è da lui ritenuta ineludibile; tuttavia, nel corso della lettura, incrociamo pure altre strade lungo le quali s’incamminano alcuni personaggi.
Il ritorno alla Terra dei Padri, poi, nel nostro romanzo, è, per chi vi crede, un ideale saldo, imprescindibile, ma, per varie cause, non realizzato in pieno, se non per limitati periodi.
Tuttavia tale scelta è una sorta di pietra d’inciampo nella quale ognuno, prima o poi, s’imbatte.
Altra vicenda, per così dire, paradigmatica si svolge a Parigi, nel 1895.
Siamo nel pieno di un evento che sconvolse la pubblica opinione francese dell’epoca. In estrema sintesi: nel 1895 un capitano d’artiglieria di origini alsaziane, Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio in favore dei tedeschi, viene cacciato dall’esercito, degradato e condannato ai lavori forzati all’Isola del Diavolo, nella Guyana francese. Una vibrante e difficile campagna di stampa, condotta dallo scrittore Emile Zola dalle colonne del quotidiano L’Aurore (1898), sensibilizza la pubblica opinione e contribuisce in modo decisivo, nel prosieguo del tempo, a riabilitare l’ufficiale; va precisato che, a causa del suo impegno Zola deve, per qualche tempo, andarsene dalla Francia. Il nocciolo della vicenda Dreyfus stava nell’origine ebraica dell’imputato, in un contesto dove il veleno antisemita era profondamente radicato nei diversi strati della popolazione (e se ne vedranno gli effetti nefasti poco più di un quarantennio dopo); l’onta di Sédan del 1870 bruciava ancora; sull’esperienza della Comune di Parigi (marzo/maggio 1871) non si era riflettuto a sufficienza: la vita quotidiana era certo oltremodo difficile. Dunque si cercava un colpevole, un orditore di complotti sul quale scaricare ogni responsabilità; senza contare che la destra cattolica era ansiosa che fosse attuata una risolutiva pulizia del “corpo sano” della Francia dalle troppe presenze straniere. E agli Ebrei, inutile girarci intorno, nei momenti di crisi, vien fatto riprendere dall’armadio assurdo della commedia umana, la veste minacciosa dello Straniero, del Diverso, al di là di qualsivoglia verità storica. Vicenda emblematica, all’apparenza lontana, eppure così vicina, per diversi aspetti, ai tempi nostri….Gli stessi Ebrei francesi di quegli anni sono divisi, tra l’aperta denuncia dell’affronto subito e il passivo silenzio, in attesa di tempi migliori. Il capitano Antoine Lanzmann -ebreo e, a sua volta, di origine alsaziana- e il padre Benoît (nato Barukh), agiato commerciante, ben rappresentano queste due tipologie.
Antoine -giovane, bello, ardimentoso, gran giocatore- era stato scelto come ufficiale di picchetto per la degradazione di Dreyfus. Se, da una parte, è indignato per la macchinazione ordita ai danni di quest’ultimo; dall’altra, prova vergogna perché il condannato, lui che in precedenza scrutava tutti con alterigia, si era abbassato a urlare la propria innocenza piangendo davanti alla folla inferocita.
Lanzmann, dapprima, pare aver messo da parte la tragica vicenda: ha un felice rapporto d’amore con Pauline, giovane ex prostituta che lo rende padre di una bambina, Catherine; pare stimato nel suo ambiente. Una vita piena, insomma. Ma gli eventi incalzano; o meglio, l’antisemitismo acquista crescente vigore. Anche le persone come Benoît, nel loro silenzioso orgoglio di essere ebrei, ne prendono coscienza: “…Temo che quel che sta accadendo ora sia niente a paragone di quello che ci aspetta”, mormora profetico. In lontananza si staglia l’ombra terribile del “Vel d’Hiv”.
Nella Rafle du Vél’d’Hiv, così chiamata in francese, in una sola notte -16/17 luglio 1942-, furono catturati e rinchiusi in una sorta di velodromo (distrutto nel 1959) -in condizioni disumane- circa 13.000 Ebrei, per lo più apolidi: 3031 uomini, 5802 donne e 4051 bambini (quasi tutti nati in Francia). Tutto era stato predisposto in modo meticoloso dal prefetto di polizia, René Bosquet, responsabile dei 4500 poliziotti che realizzarono il piano: gli elenchi delle famiglie, gl’indirizzi, le abitudini; nemmeno gli Ebrei ricoverati in ospedale sfuggirono alla caccia, alla Opération vent printanier, Operazione Vento di primavera, così denominata dal famigerato Bosquet (è il contesto in cui si svolge il film La chiave di Sarah, recensito da ultimo nella rubrica “Cinema” ).
E Antoine metterà su un piatto della bilancia gli affetti e la sicurezza (ma fino a quando?) e sull’altro la scelta coraggiosa di ribellarsi all’infamia, di cui, ad un certo punto è divenuto bersaglio.
Sceglierà quest’ultima via, anche a costo della vita. La seconda parte del romanzo riprende, attraverso le storie dei Figli, le vicende della prima, in un susseguirsi febbrile di eventi.
C’è il ventenne Mendel Jacobi -nato dall’unione tra Benyamin e la seconda, assai più giovane, moglie Leah Horowitz- il quale partecipa con coraggio alla guerra russo-giapponese del 1905. Lo sfondo storico è, come sempre, drammatico. Assistiamo alla prima Rivoluzione russa, a disordini, massacri e pogromi antisemiti. Dopo un breve ritorno a casa, Mendel, ritornato al reggimento, finisce per cacciarsi in una situazione difficile, proprio a causa della sua generosità.
Dopo aver salvato un gruppo di soldati, tra i quali il suo superiore diretto, da un pugno di commilitoni facinorosi in corso di ammutinamento e con intenzioni omicide (il cui antisemitismo nulla ha da invidiare a quello delle classi “alte”), grazie a tale atto di coraggio, viene invitato, proprio dal superiore, a lasciare la divisa e tornare alla sua Berdichev. Poco dopo però viene arrestato, imprigionato e accusato di diserzione. Rischia la pena di morte, ma, a questo punto, si crea una forte catena di solidarietà nella quale si distinguono, in diversi ruoli, i personaggi che abbiamo conosciuto nella prima parte; o meglio i loro figli, come ad esempio….Beh, lascio al lettore il piacere di scoprire da solo di chi si tratti; anche perché questa figura, in apparenza secondaria, diviene, nella parte finale del racconto, una specie di deus ex machina. Grazie ad essa, infatti, Nathan -nato in Eretz Yisrael, non dimentichiamolo-, divenuto pittore affermato a Parigi, (grazie anche al sostegno di Bénoit Lanzmann, grande mecenate, padre di Antoine), fa i conti col proprio destino e, pur lasciando, dopo emozionati incontri, la terra natìa per la seconda volta, si rende conto che, prima o poi, vi ritornerà.
Varie, come detto, sono le tematiche, le esperienze esistenziali. Possiamo toccare con mano che pure in una famiglia di contrabbandieri può nascere una ragazza buona e generosa, e che a tanti di noi è data un’ulteriore chance nella vita: perfino ad una prostituta di nobili sentimenti o ad una donna che pareva condannata ad invecchiare senza accanto un amore.
Percepisci il freddo, il sudore, la gioia improvvisa, il terrore che annichilisce, tutti i sentimenti diventano tuoi, tanto riesci ad immedesimarti nel testo. Toccanti le scene d’amore, descritte con emozione partecipe. E c’è quel ciclico ritornare a casa, sia pur per poco tempo -mi riferisco al “ceppo” russo-, poiché, come scrive un autorevole personaggio del romanzo “…questa famiglia non è abbastanza grande perché tanti dei suoi componenti attraversino la vita senza incontrarsi”.
I luoghi, poi, cambiano colore a seconda dei contesti in cui si svolgono le differenti vicende.
Parigi, la città degl’Impressionisti -di Cézanne, Renoir oltre che di quel giovane pittore spagnolo, un tipo geniale, proveniente da Malaga, che al cognome del padre (Ruiz) preferisce quello della madre- è descritta con solare affetto perché vista con gli occhi di Nathan Zylberstein; sembra quindi lontana l’atmosfera cupa, carica d’odio, in cui si svolse il dramma di Dreyfus.
Tuttavia, qua e là, la luce è offuscata dalle tenebre del sentimento antiebraico.
Attraverso queste storie vediamo in filigrana la Storia del Popolo Ebraico, con i suoi drammi e le sue gioie, le paure, le speranze. C’è l’impegno verso una completa integrazione con il resto della società, coi “gentili”: da realizzarsi attraverso l’Utopia bundista, il partito socialista ebraico, o magari con l’emigrazione -che fu davvero massiccia, tra fine ‘800 e inizi ‘900- verso la Goldene Medine (La Nazione d’Oro, così erano chiamati gli USA dagli Ebrei dell’Est Europa). E’ così per Samuel Jacobi, figlio di primo letto di Benyamin, sbarcato a New York e divenuto, nel giro di alcuni anni, pur a prezzo di gravi sacrifici, facoltoso imprenditore e uomo d’affari. Pagine dense, ricche di suggestione, talora dure, degne di un film di Martin Scorsese come Gangs of New York, ambientato per la verità un ventennio prima, ma molto simile alla nostra storia nei suoi aspetti essenziali.
E poi, dopo l’Emigrazione e l’Utopia, c’è il Sogno. Una nuova -o meglio rinnovata- Patria nella Terra dei Padri, unico passaporto verso l’autentica libertà.
Ed è proprio nei capitoli conclusivi del romanzo che acquista, prende corpo il valore dell’opzione sionista, e l’A. ce lo illustra sia attraverso i dialoghi tra i suoi protagonisti -come ad esempio, tra due “grandi vecchi” quale Salomon Pollack, grande medico, direttore del sanatorio (e non solo) di Berdichev, e Bénoit Lanzmann- sia grazie all’entrata in scena di figure storiche che davvero possiamo chiamare fondanti per la (ri)nascita dello Stato di Israele; tra le quali spiccano Boris Schatz, citato all’inizio, e Aaron Aaronsohn. Ma, insieme al grande Progetto nazionale, libertario in sé, autentico movimento di decolonizzazione, di liberazione di intelligenze [4] e, nello stesso tempo, preziosa occasione di progresso per i popoli vicini, ecco nascere e crescere l’incomprensione di questi, avversione ben presto trasformatasi in quell’odio che, ancora oggi, impedisce un’autentica pace in Medio Oriente.
Dunque siamo davanti a problemi antichi e nuovi al tempo stesso e Generazioni, romanzo sì, ma anche formativo testo di storia, ce ne mostra la genesi e lo sviluppo, con un rigore ed un’onestà culturale davvero rari. Prezioso libro che dà conto di come la storia e la legittimazione di Israele, inteso sia come Stato che come comunità di persone libera ed indipendente, vengano di lontano e non rappresentino affatto -come troppo sovente si legge o si ascolta, anche da voci ritenute autorevoli- un risarcimento dell’Europa nei confronti degli Ebrei per la Tragedia imposta dalla stessa a questi ultimi attraverso la Shoah. Il sionismo non “ha in alcun modo beneficiato della Shoah, ma, al contrario, ne è stata la prima vittima” [5] .
Opera prima, quella di Rubini, che incoraggia una lettura veloce ed incalzante: puoi cadere nel tranello di…divorarla in poco tempo, “d’un fiato”. Ma poi devi tornarci su, per gustarla, rifletterci, farla tua. Anzi, fin dalle prime pagine, è già parte di te.
[1] Miei commenti, più brevi, a quest’opera sono apparsi, tra gli altri, sui siti web: www.lastambergadeilettori.com; www.sololibri.net; www.personaedanno.it
[2] Per chi, durante la lettura fosse interessato a studiare temi legati alla storia degli Ebrei, al Sionismo e non solo, sul sito web www.highconceptproject.wordpress.com c’è un post intitolato: “Per chi volesse approfondire Gabriele Rubini consiglia” con utili indicazioni.
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[3] Berdichev è altresì il luogo di origine della famiglia Ephrussi, come descritto da Edmund De Waal, in Un’eredità di avorio e ambra, Bollati Boringhieri, 2011; vedi mia recensione su questo sito, Settembre 2011.
[4] Così Georges BENSOUSSAN, tra i massimi studiosi della Shoah, in un’intervista a Pagine Ebraiche di questo febbraio 2012.
[5] Ancora G. BENSOUSSAN, cit. Dell’illustre saggista francese ricordiamo, oltre al fondamentale testo sul Sionismo, in due volumi, edito da Einaudi nel 2007 (Il sionismo: una storia politica e intellettuale), anche il perspicuo Israele, un nome eterno. Lo Stato di Israele, il sionismo e lo sterminio degli Ebrei d’Europa, UTET S.p.A., 2009, pp. 203.