(Titolo originale Tzhok shel achbarosh )
Trad. Elisa Carandina, Prefazione di Furio Colombo, Ed. Atmosphere libri, collana Biblioteca dell’acqua, Gennaio 2012, pp. 182, €. 16,00
“…soltanto una bambina è restata…sottoterra acquattata”
Cinque capitoli, cinque diversi piani espressivi compongono questa originale opera di Nava Semel, una delle voci più interessanti della letteratura israeliana. Nata col cognome di Arzti nel 1954 a Tel Aviv, città in cui vive col marito Noam Semel e due figli gemelli, ella è cresciuta in un ambiente poliglotta dove si mescolavano tedesco, inglese, ebraico e yiddish. D’altronde, il suo nome proprio originario è Sheyndl -così si chiamava la nonna, perita nella Shoah-, che in yiddish significa Bella, poi tradotto nell’ebraico Nava.
Ha lavorato a lungo per la televisione e la radio ed è conosciuta non solo come romanziera per adulti e ragazzi (Lezioni di volo; L’esclusa; I segreti del cuore), ma anche come poetessa ed autrice di teatro.
E’ membro del Massua Institute of Holocaust Studies e del Consiglio direttivo dello Yad Vashem di Gerusalemme.
Il presente romanzo, E il topo rise -ma forse è arbitrario e riduttivo definirlo “romanzo”-, si articola in cinque parti: storia, favola, poesia, sogno e diario, lungo l’arco di 150 anni.
La prima (La storia) inizia in una giornata di fine 1999 a Tel Aviv allorché un’anziana signora sente dentro di sé il prepotente desiderio di raccontare la propria tragica storia alla nipotina, pur consapevole della difficoltà di narrarla.
Quando aveva cinque anni i genitori, per sottrarla alla deportazione, la consegnarono, dietro lauto compenso in danaro, ad una famiglia di contadini polacchi. La piccola fu nascosta in una cantina buia, dov’erano custodite le patate; poco cibo, tanto disprezzo, coronato dalle ripetute violenze sessuali perpetrate nei suoi confronti da Stefan, figlio dei padroni di casa. Unica compagnia per lei, un topo. Una situazione tremenda, della quale ella, ignara della tragica sorte dei genitori, non riusciva a comprendere la causa. E, per di più, carica di angoscia: se “essere un’ebrea” comportava come conseguenza simili maltrattamenti, per forza tale condizione doveva consistere in qualcosa di spaventoso di cui vergognarsi!
La seconda parte (La favola) è il diario della bambina -ora divenuta nonna- che ci spiega meglio il racconto di sé da piccola e illumina sul significato del titolo. Secondo uno dei miti della creazione, il topo aveva chiesto a D-o il dono della risata, ma aveva presto compreso quanto tale dono fosse miserabile. Perché un mondo, questa è la riflessione, in cui i bambini debbono essere nascosti, o sepolti per dir meglio, in luoghi umidi e tenebrosi, è un assurdo che va distrutto e ricostruito dall’inizio. Grande tenerezza ispira il rapporto affettuoso tra nonna e nipote (che ascolta il racconto), mentre è assai più distaccato quello tra l’anziana sopravvissuta e la propria figlia, madre della bambina, la quale pare non accettare il fatto di essere una persona della “seconda generazione”(dopo la Shoah). Simile atteggiamento ostile si manifesta pure allorquando la nipotina riferisce di aver raccontato a scuola la drammatica storia della nonna. Infatti sua madre (cioè la figlia di colei che era stata rinchiusa in cantina) si oppone a che la figlia prenda coscienza del passato, col pretesto della troppo giovane età; e, in un misto di grettezza, ricatto morale, paura, gelosia, osserva: “…Questo genere di progetti si fanno al liceo…. prima della gita di classe ai campi di sterminio in Polonia. Domani vado dalla direttrice a lamentarmi dell’insegnante”.
Malgrado tale grave dissenso, nella scuola la vicenda è conosciuta e così nascono diverse storie tra loro collegate sul tema, le quali, negli anni seguenti, assumono maggiore rilievo, arricchendosi di nuovi particolari ed aspetti.
La terza parte (Le poesie) ci dà conto dei componimenti poetici sulla leggenda della bambina e del topo.Si tratta di filastrocche, in apparenza scherzose ed innocenti, che, in realtà nascondono una cupa tragedia e una solitudine senza speranza. Eccone una, ad esempio, dal titolo Somme e Sottrazioni: “Mamma papà domestica e bambina – quattro anime in cascina – la cameriera se n’è andata – il papà non è tornato – la mamma si è dileguata……soltanto una bambina è restata…sottoterra acquattata”.
La quarta parte (Il sogno) è ambientata cento anni dopo, nel 2099, allorché uno studioso di antropologia raccoglie ed analizza gli studi nati sul celebre mito della Bambina e del Topo.
E’ pure una riflessione sulla natura della memoria e sulle occasioni positive che essa può donare alle generazioni future. Tramandare il ricordo di tragici eventi non ci immunizza contro la possibilità che essi possano ripetersi; ciononostante la Memoria può darci una speranza per l’avvenire.
L’ultima parte (Il diario) è il diario di padre Stanislaw, il sacerdote al quale la tremenda contadina -dopo che i genitori, deportati, non erano ovviamente stati più in grado di pagare il compenso- lascia la piccola, incoraggiandolo a consegnarla ai tedeschi. Al contrario, il prete, autentico Giusto, la tiene presso di sé e la salva. L’uomo affida alla redazione del diario, alla scrittura l’incarico di mantenere il ricordo, la Memoria. Padre Stanislaw, con il suo agire, pretende, alla stregua di un profeta biblico, risposte dal Signore che permette quest’Orrore assoluto; ma, in questo suo tentativo di ristabilire fede e speranza, in D-o e negli uomini, egli si rende conto che forse sono le proprie intime speranze ad essere venute meno.
Da questo libro, tradotto pure in tedesco e in inglese, è stata tratta in Israele un’opera lirica e ne verrà ricavato altresì un film.
Testo originalissimo nella struttura letteraria, in grado di giocare secondo diversi piani spazio-temporali, è assai suggestivo poiché tratta la Shoah attraverso la sofferenza del soggetto più indifeso, un bambino: “Ma potrà mai esistere un nuovo giorno per una bambina che è tutta tenebra?” si domanda angosciato Padre Stanislaw. Il linguaggio talora è oscuro, difficile, ma l’opera è preziosa poiché ci pone di fronte all’ineludibile problema del come raccontare le nostre vicende più dolorose. Pensiamo al lungo Silenzio dei sopravvissuti, prima che irrompessero le loro testimonianze tragicamente liberatorie; ma pure al “parlare subito” da parte di alcuni di loro, seguito da un silenzio disperato, talvolta sfociato in gesti estremi.
E le domande: Il Racconto modifica il Ricordo? L’Arte è il solo strumento per comunicare la memoria del vissuto con le sue emozioni?