(Titolo originale Coupable d’être née. Adolescente à Auschwitz)
Trad. Nicolò Barile, Ed. L’Harmattan Italia S.r.l., 2008 (Ed. originale francese L’Harmattan s.a., Paris, 1997) pp. 178
Mercoledì 23 gennaio scorso, di buon mattino. Sono arrivata da pochi minuti in studio, quando squilla il telefono: "Buongiorno, sono Francesco Berti! " Così saluta l’interlocutore dall’altro capo del filo.
Una graditissima sorpresa: ho infatti la gioia di avere l’Avv. Francesco Berti Arnoaldi, persona ricca di esperienza, cultura ed umanità tra i miei lettori, insieme al figlio Avv. Giuliano (così chiamato in ricordo di Giuliano Benassi: ricordate Viaggio con l’Amico?).
Egli esprime apprezzamento per quello che ho scritto nella recensione a Prigioniera di Teheran sul valore della testimonianza e l’attualità della Memoria e mi segnala un testo francese, appena uscito in Italia Colpevole di essere nata. E’ la storia autobiografica, scritta circa dieci anni fa, da Simone Lagrange, nata Kadoshe, deportata tredicenne ad Auschwitz insieme con la madre, nel giugno del 1944, dopo essere stata torturata per diversi giorni da Klaus Barbie, il cosiddetto Boia di Lione, capo della Gestapo in questa città con il grado di Hauptsturmführer (una sorta di capitano), tragicamente celebre per la deportazione di centinaia di ebrei (tra questi, moltissimi bambini), nonché per la tortura ed eliminazione fisica di altre centinaia di patrioti francesi.
Simone è stata il principale testimone d’accusa al processo, intentato nel 1983/1987 contro tale truce personaggio; processo che vide ben 37 udienze, conclusosi con la condanna di Barbie all’ergastolo per crimini contro l’umanità. La prima sentenza del genere pronunciata in Francia.
Il libro è pubblicato con il contributo della Fondazione ex Campo di Fossoli, di cui l’Avv. Berti è Presidente; egli lo ha presentato proprio ieri ad un folto gruppo di studenti modenesi coinvolti nell’iniziativa, nata ad opera della stessa Fondazione: Un treno per Auschwitz. Si tratta di un viaggio, in treno appunto, che si svolge ogni anno, in concomitanza con la Giornata della Memoria: luogo di partenza è la stazione ferroviaria di Carpi, da dove, oltre 60 anni fa, gli internati del campo di concentramento di Fossoli partivano alla volta dei lager dell’Europa nazista; una delle destinazioni più frequenti era Auschwitz. Il viaggio si indirizza principalmente agli studenti delle scuole medie superiori della Provincia di Modena e agli adulti che, a vario titolo, intendono condividere con i ragazzi questa esperienza nella Memoria e per la Memoria.
"Sarei molto lieto che tu lo leggessi". Il mio….mentore non m’invita certo ad una semplice lettura, è chiaro. L’argomento mi coinvolge, è evidente, specie quando l’Avv. Francesco mi rivela che la prefazione al testo è a firma Elie Wiesel, un uomo nei confronti del quale nutro un’autentica venerazione e le cui sei lezioni sul Talmud, che tenne diversi anni fa nell’Aula Magna di S. Lucia in Bologna davanti ad un pubblico tanto foltissimo quanto attento, sono un ricordo indelebile. Pur consapevole della mia inadeguatezza, chiedo le indispensabili informazioni su nome esatto dell’autrice, editore, ecc., ma vengo subito fermata: "Mi sono fatto riservare alcune copie, una delle quali è per te! ". Non posso tirarmi indietro.
Ritorno con la mente ai processi celebrati in Francia negli anni ’90, ad esempio, a diversi funzionari del governo collaborazionista di Vichy, alla difficoltà con cui questo Paese (e non è il solo!) ha fatto i conti col proprio drammatico passato, al revisionismo sempre dietro l’angolo, alla nauseabonda montante marea dell’antisemitismo per nascondere il quale si è inventata l’ipocrita categoria dell’antisionismo, già sbugiardata, oltre quarant’anni fa, da Martin Luther King; ma quest’opera di smascheramento non è stata sufficiente, purtroppo……
Sì, ricordo bene, dalle foto apparse sui giornali in occasione del processo, l’aspetto di Klaus Barbie: un uomo scarno con le fattezze da uccello del malaugurio. L’aria inespressiva e metallica dei criminali nazisti, la stessa degl’imputati di Norimberga -che mi hanno dato sempre l’impressione di una sorta di monoblocco, tutti seduti in fila, nella medesima posizione, grigiastri, con abiti simili (poco importa se in divisa o in borghese, non te ne accorgi nemmeno, lì per lì), li diresti disinteressati nei confronti del mondo circostante- o di Eichmann in Jerusalem, maniacalmente occupato a tenere in ordine la sua cella, pronto nondimeno a balzare in piedi ogni qualvolta il Giudice gli si rivolgeva. Una maschera grottesca.
Il mattino dopo mi giunge per posta un plico, con l’indirizzo scritto da mano familiare: è destinato a mio marito (il Collega più giovane…) e a me; particolare gentile, questo di unirci nel pensiero; lo apro: ecco il libro, Simone. Sulla pagina di apertura c’è una dedica a matita, non per questo meno suggestiva, anzi. "Modena, 22 gennaio 2008 Al liceo Muratori per l’incontro con gli studenti modenesi che venerdì 25 partiranno col ‘treno per Auschwitz’ e ora a Mara. Da memoria a memoria, sempre alla ricerca del significato…..Bologna, 23 gennaio 2008".
Mi ritaglio una finestra di tranquillità, non occupata da impegni di sorta.
Leggo la prefazione di Elie Wiesel. Egli ringrazia Simone per la sua testimonianza, con le parole che lui solo sa trovare; lui che ne è una sorta di ideale fratello. Erano circa coetanei; furono arrestati coi i familiari in una fase molto avanzata del conflitto, quando la Germania, incalzata sia dagli Alleati che dall’Unione Sovietica, ritardava le operazioni di guerra per deportare e gasare quanti più Ebrei possibile, dall’Ungheria e non solo: Quem Deus vult perdere, dementat prius; a entrambi furono uccisi i genitori e altri cari congiunti; entrambi conobbero l’indicibile di Auschwitz e le marce della morte; entrambi, a prezzo di inenarrabili sacrifici, sono tornati nel mondo, con l’impegno della Memoria: "Non c’era gioia per gli scampati" egli riflette "Inconsolati e inconsolabili, per essi si trattava di sopravvivere, poi di vivere. Per dovere verso la memoria dei morti…..per parlare ai vivi".
Nel Prologo, un vero e proprio "Prologo in cielo" -siamo alla fine del 1996, dieci anni dopo il processo a Barbie- Simone, mentre contempla il grande abete ricoperto di neve che adorna il suo giardino, pensa al padre, ucciso sotto i suoi occhi in una giornata di gennaio, rivede le colonne di morti-viventi che si allungano sulle strade impervie della Polonia e pensa: "La Memoria….serve anche a preparare il futuro…." E il Futuro è Simon, ideale dedicatario, il nipotino, ultimo arrivato da circa un anno; ha gli occhi color del miele e una piccola fossetta gli orna il mento: la nonna ancor giovane e il bisnonno Kadoshe rivivono in lui.
Prende corpo il racconto di Simone. L’Introduzione ci porta al 1939, ad un’atmosfera carica di tensioni e preoccupazione; la guerra imminente. La guerra: una bambina di otto anni che ne sa della guerra? Non è poi così pericolosa, lei pensa, perché nei nostri giochi, quando qualcuno è colpito, si rialza subito! Tuttavia, le espressioni sui volti degli adulti non lasciano tranquilli; la mobilitazione, la disfatta….e poi che significa, poco dopo, che molti soldati francesi, catturati, sono stati spediti in campi di prigionia in Germania: perché mai così lontano? Lentamente, man mano che cresce, la ragazzina comincia a comprendere. Negli anni successivi ella è a conoscenza della persecuzione che si abbatte sugli ebrei tedeschi, prima, e polacchi poi. Percepisce la crescente ondata di odio…arrivano le restrizioni, il timbro “Ebreo” (termine che si pretende infamante) sui documenti di identità, l’isolamento praticato da coloro che fino a qualche tempo prima erano compagni di gioco, amici, vicini di casa……Simone ha un carattere forte, uno spiccato senso della propria dignità. Quando una mattina a scuola, prima che ella si sieda al suo banco in fondo alla classe, lontana dagli altri, la maestra -che, fino all’altro giorno, lodava i suoi riccioli scuri- vuole costringerla, per l’ennesima volta, a farsi frizionare i capelli col DDT, poiché, in quanto ebrea, ha le pulci e può contaminare i compagni, Simone si ribella e getta con forza il calamaio addosso all’insegnante. La sua prima rivolta e la sua prima vittoria! Non accetta più di farsi umiliare. Da quel giorno non sarà più tenuta a quell’anomala disinfestazione.
"Penso" ella scrive "che, in seguito, questo tipo di reazione mi abbia aiutato ad Auschwitz".
La delazione da parte di chi credevi amica. Jeanne, una ragazza ospitata con affetto in casa Kadoshe, tradisce e fa condurre Simone e i genitori al quartier generale della Gestapo di Lione, nei locali dell’Hotel Terminus, dove Klaus Barbie tiene i suoi famigerati interrogatori. E’ il 6 giugno 1944, gli Alleati stanno sbarcando sulle coste della Normandia. Un assurdo D Day quello che vede Simone e il Mostro incontrarsi per la prima volta. L’uomo dal sorriso freddo come una lama di coltello tiene in braccio un gatto bigio, che accarezza con fare distratto. Forse un uomo che ama gli animali non è cattivo….Ma….
Egli nutre una sorta di attrazione morbosa per i bambini, non vede l’ora di trovarseli tra le grinfie per farli soffrire, ucciderli lentamente e il tramite ideale per ottenere lo scopo è torturare i genitori, in specie le madri; o, alternativa ancor più ghiotta, seviziare, sotto gli occhi della mamma (al fine di colpevolizzarla), il piccolo membro di una famiglia per poter arrivare agli altri che, magari, sono stati nascosti in luogo sicuro. Questo diabolico sentiero percorre Barbie: vuol assolutamente conoscere il luogo dove si trovano i due fratellini di Simone (Albert e Juliette, che lei ritroverà, alla fine dell’Orrore). Per sette lunghi giorni sottoporrà la piccola a sofferenze indicibili per distruggere psicologicamente lei e sua madre, senza riuscire nel suo intento, anche perché nessuna delle due sa dove siano i bambini, sottratti al pericolo in tempo utile.
"Quel giorno [Barbie] portava una giacca bianca su pantaloni blu, come uno in vacanza. Tutto si ripeté una volta che fummo nel suo ufficio dove la sua graziosa giacca immacolata si macchiò presto del mio sangue. Questa tortura continuò sette giorni di seguito….non so se io e la mamma avremmo conservato il silenzio se avessimo saputo dove si trovavano….Certamente fu la nostra ignoranza a salvar loro la vita". In tale clima disperato l’unico conforto per Simone è di ritornare tra una tortura e l’altra, tra le braccia di sua madre, finché il perverso meccanismo glielo consente. Lei e la Mamma sempre unite, anche quando, scomparso chissà come e dove il Papà, verranno deportate, dopo un allucinante viaggio in treno, nel luogo "dove le bussole impazzirono", Auschwitz.
Il racconto ci coinvolge in maniera totale: riesce a far sì che il lettore -mi risalgono alla mente e al cuore le parole di David Grossman a Firenze- si identifichi totalmente con il terrore di questa ragazzina, la sua disperazione, ma anche la forte dignità, il coraggio di vivere, che le fa apprezzare un raggio di sole tra i rami o il sorriso di una prigioniera, l’amore immenso per la Mamma, che la induce a rinunciare alla fuga, durante il trasferimento verso l’Ignoto, pur di starle vicino. La Mamma è figura sempre presente, anche quando gli aguzzini gliela porteranno via, ad Auschwitz, per ucciderla nella camera a gas.
Il linguaggio è semplice, efficacissimo, nel descrivere l’indescrivibile: i pianti dei bambini, le urla bestiali, le botte, il crepitìo delle mitragliatrici…la progressiva, calcolata, disumanizzazione dei prigionieri, colpa ancor più grave, se possibile, della loro soppressione. Lo stile narrativo è essenziale, pare di sentirla parlare, Simone, con le sue frasi brevi e i punti esclamativi che esprimono i sentimenti, senza tante preoccupazioni formali. Nel condurci davanti alla Gorgone quell’impietosa freschezza espressiva spesso è assai più efficace dei preziosismi tipici di uno scrittore di professione.
Non sono taciuti episodi tremendi, come, uno per tutti, quello con al centro Josef Mengele.
Anche Mengele ha un debole per i piccoli, per le creature indifese, ci gioca, gatto raccapricciante col topo, protagonista di una favola che nessun bambino vorrebbe farsi raccontare. "Mengele giocò con i bambini [ungheresi] per più di un’ora. Sorrideva loro …ne accarezzava i capelli biondi quando gli passavano accanto. Allora i piccoli, rassicurati, ridevano, come fanno i bambini. Poi su ordine del mostro i palloncini con cui giocavano furono ritirati. Fu lo stesso Mengele ad offrirceli ‘Non ne avranno più bisogno’ sibilò sorridendo…..Quello che successe superò la nostra immaginazione. Mengele ci fece scavare una fossa attorno ai bambini. Poi, dopo aver fatto versare della benzina, fece bruciare in un cerchio di fuoco questi innocenti….."
Il freddo sadismo, che mi rifiuto di definire pazzia perché il Male assoluto non ammette categorie umane, come la spiegazione psichiatrica, ad esempio.
Simone, dopo l’evacuazione da Auschwitz a causa dell’avanzata delle truppe sovietiche, è costretta, con centinaia di altri prigionieri, alla marcia della morte; all’improvviso le pare di riconoscere, in una colonna di uomini, figure sparute e disperate, la sagoma di suo padre. Gli si avvicina. E’ lui! Un SS le si accosta e le chiede, con un sorriso: "E’ tuo padre? Vuoi salutarlo?" Basta che la ragazzina accenni col capo che sì, si tratta di suo padre, che il milite prima li fa avvicinare, indi fa inginocchiare il padre, poi gli spara alla testa sotto gli occhi di sua figlia! Sangue caldo che scorre sulla neve. Ti porti dentro quell’immagine tutta la vita.
Ci si chiesti tante volte: dov’era D-o durante la Shoah? Se lo domanda pure Simone.
Io, modestamente, mi sono sempre domandata, e mi domando, piuttosto: dov’era l’uomo, visto che l’Eterno lo ha dotato di libero arbitrio e di ragione?
Il lentissimo rientro all’esistenza; il coraggio, col coltello tra i denti, di chi deve trovare i fratellini e deve raccontare quello che ha vissuto; la solidarietà e il sostegno delle persone buone (ce n’è qualcuna!); l’amicizia con Jacqueline e il ritorno con quest’ultima a Parigi, a fine maggio 1945…
La gioia di indossare un abito bianco a pois blu, rimirarsi allo specchio….vedersi finalmente come una ragazza!
Poi….siamo nel 1972, per puro caso, in un documentario televisivo, ella riconosce Klaus Barbie, divenuto cittadino boliviano, che si gode una vita senza rimorsi in un Paese che lo ha ben accolto, grazie alla rete di complicità, superorganizzata, che ha aiutato tanti criminali nazisti.
Sono necessari ancora diversi anni prima di poter iniziare il processo, dopo l’estradizione del criminale (nel 1983), resa possibile grazie al mutato assetto politico della Bolivia.
Il processo: colei che, PRIMA, era colpevole per il solo fatto di essere nata (ebrea), ORA si trasforma in giusta accusatrice davanti ad un pubblico commosso ed attonito, sotto lo sguardo del mostro, che esibisce sicurezza, e del suo avvocato difensore, Jacques Vergès, degno compare, famoso legale di terroristi e massacratori di varia risma (Slobodan Milosevic, il celebre Carlos, il braccio destro di Pol Pot, Khieu Samphan…), che, altezzoso come tutti i complici degli assassini, tenta invano di farla cadere in contraddizione.
Le pagine dedicate allo scontro esprimono tutto il dolore, gli incubi, l’angoscia di rivivere che lei ha provato, oltre l’umiliazione di vedersi recapitare a casa volantini antisemiti.
La distanza tra, da una parte, gl’intellettualoidi che, annusando una ghiotta occasione di pubblicità, si presentano nel foro per attirare su di sé l’attenzione dei media, e, dall’altra, i testimoni, con le loro vite spezzate, cui nessuno, almeno nelle fasi iniziali, sembra prestare attenzione.
Il mostro mostra alcun segno di ravvedimento né tanto meno di pentimento; anzi: "La…bocca, atteggiata ad un ghigno che vorrebbe essere un sorriso, è così sottile che sembra una lama di coltello pronta a tagliare". Non è cambiato affatto. Nella sua arroganza lancia un’occhiata alla sala, pensando forse di riconoscere qualcuna delle sue vittime e di soggiogarle ancora, almeno psicologicamente. "Mi vide! Il suo sguardo, incrociando il mio, divenne penetrante. Si ricordava del nostro confronto….Rabbrividii, mio malgrado. Avevo ritrovato il mostro….quello che mi sorrideva colpendomi fino a farmi svenire….Nei suoi occhi si leggeva con assoluta chiarezza il desiderio di uccidermi….Poi…..distolse lo sguardo da me…come allora, quando, sazio di violenza, mi lasciava a terra in preda al male e alla paura…Così, perfino davanti a mille persone, tutto era chiaro tra noi!"
Il giorno in cui ella porta la propria testimonianza, la gabbia dell’imputato è vuota. Coincidenza?
Ascoltiamola, Simone. "Il sangue cominciava a salirmi nelle vene. Il cuore mi faceva male….Di colpo mi sono messa a parlare. Raccontavo ciò che stava nascosto nel più profondo del mio cuore, tutto ciò che avevo sepolto, tenuto lontano nel fondo della mia memoria. Le cose più orribili mi affioravano alle labbra, il vagone…..la morte di mamma…..l’assassinio di mio padre, senza pensare che anche mio fratello e mia sorella ascoltavano finalmente la verità…..Per più di mezz’ora ho parlato, non sentendo nemmeno io le parole che mi venivano alle labbra…..mi sentivo attorniata, spinta da sei milioni di morti!….Avevo la loro riconoscenza, ne ero certa. Attraverso la mia voce avevano parlato i morti. E la sala intera lo sapeva".
Klaus Barbie muore di tumore nel 1991, senza aver mai provato alcun sentimento di colpa per le sue azioni, o meglio, come dichiara lui stesso ad un giornalista, con l’unico rammarico di non aver potuto finire ciò che aveva iniziato; prega anzi l’intervistatore di riferire ciò a "quella donna", cioè a Madame Lagrange.
Nella "Conclusione" del libro Simone ci consegna alcune, rilevanti pagine sul carattere della persecuzione antiebraica, che risuonano ancor più attuali oggi, quando il mostro dell’antisemitismo, mai morto, certo, ma quiescente, almeno in superficie, ha rialzato con forza la testa; e ciò almeno dall’11 settembre 2001, in un paradosso solo apparente; utilizzando una grammatica che la nostra ossessione del politicamente corretto non sa né vuole approfondire.
E’ importante leggere con calma le sue parole, che sono un monito più che mai valido ora, a dieci anni da quando furono scritte: "Se noi, i sopravvissuti, ….abbiamo deciso di rivivere il nostro passato di dolore ogni volta che lo raccontiamo, è per cercare di mettere in guardia le presenti e le future generazioni contro l’orrore di ideologie che potrebbero di nuovo portarci al disastro. Bisogna ricuperare gli anni di silenzio e di oblio della persecuzione antiebraica….La seconda guerra mondiale che potrebbe sembrare lontana, si avvicina di colpo quando [i giovani] incontrano i testimoni di un orrore che quasi possono toccare…..Allora la vigilanza diventa necessità e la speranza rinasce nel mio cuore. So che ci sarà…qualcuno che si opporrà all’oblio. Per il bene dell’umanità. Saranno loro i testimoni dei testimoni".