Ed. La Nave di Teseo, Milano, Ottobre 2021, pp. 283, €.17,00
“Non voglio che il tempo che passa e porta via tutto mi guarisca”
“Hai ragione, sei solo un barbone ubriaco. Ma hai qualcosa che tutti gli altri non hanno. Ma che abbiamo solo noi, noi che non abbiamo niente”…..”Adesso sei il re degli stracci”
“
Alcune settimane fa, durante una delle mie scorribande in libreria, alla ricerca di scrittori e titoli avvincenti, lo sguardo mi cade su Il re degli stracci La prima indagine di un invisibile, romanzo edito da La Nave di Teseo, nata a Milano nel novembre 2015 grazie a Elisabetta Sgarbi e Umberto Eco, due garanzie.
La copertina ti regala un’insolita immagine di Roma notturna: sullo sfondo il Cupolone, poi, via via un ponte sul Tevere, il grande fiume, protagonista, e, in primo piano, una sorta di barcone un po’ malmesso. Il tutto valorizzato da una luce dorata.
L’Autore è Stefano Vicario. Romano, classe 1953, figlio d’arte, anche se lo si può definire, in primo luogo, figlio delle proprie azioni data la molteplicità d’interessi che ne caratterizzano il percorso professionale.
Il padre, Marco, è stato, nei decenni passati, produttore e regista cinematografico; ma, non me ne voglia il figliolo, mi piace pensare che Stefano abbia ereditato lo spirito di avventura in primo luogo dalla mamma, Rossana Podestà. Un nome, quest’ultimo, che alle giovani generazioni probabilmente dice poco, ma che evoca, in chi è più maturo, immagini di film storico-mitologici ambientati nell’antica Grecia o di pellicole piene di azione. Nelle vesti di Elena di Troia e di altri figure dell’antichità Rossana cercava di appagare il suo desiderio di conoscenza, di viaggi, di avventure. Ma il mondo “di celluloide”, a mio avviso, non faceva per lei, nonostante un certo talento unito alla popolarità di cui godeva sia in Italia che negli USA.
Diverso tempo dopo, alla domanda di un giornalista che le chiedeva con quale uomo le sarebbe piaciuto fuggire su un’isola deserta, dette una risposta, all’apparenza spiazzante, ma che ti dice tutto sui pensieri e il cuore di una persona. Rispose, senza un minimo di incertezza: Walter Bonatti (i due non si erano ancora incontrati di persona, credo).
Walter, nato a Bergamo nel 1930, scomparso nel 2011 (un paio d’anni prima di Rossana) è stato il più celebre e amato scalatore italiano, famoso in tutto il mondo. Ma pure oggetto di discussioni aspre: lo troviamo infatti protagonista, giovanissimo, di una storica impresa, la scalata del K2 che gli attirò, oltre a profonda estimazione, un’infamante accusa -di aver abbandonato i compagni di scalata nella memorabile spedizione per prendersene, lui solo, il merito-, accusa dalla quale fu prosciolto, a prezzo di notevoli fatiche ed amarezze, solo cinquant’anni dopo.
Dalla confessione di Rossana nacque, tra i due, un’intensa, quanto discreta, storia d’amore durata trent’anni, dal 1981 alla morte di lui; un rapporto solido costruito su momenti di intimità, viaggi fantastici, pieni di imprevisti, libri, reportages carichi di suggestione nei luoghi più remoti e difficili (dove lei, prima, mai avrebbe pensato di andare), cui Bonatti si dedicò con grande passione e competenza per il settimanale Epoca dopo aver lasciato l’alpinismo a tempo pieno. Rossana fu la sua inseparabile compagna, universo di luce, una sorta di interfaccia in grado di far scoprire a quest’uomo solitario e ruvido, le gioie della famiglia, le tavolate chiassose con i figli dapprima e i nipoti poi.
Nella loro felicità furono dunque coinvolti in pieno i figli di lei, Stefano e Francesco, per i quali Walter è stato una sorta di secondo padre, nonché di nonno per la generazione successiva.
Stefano, sceneggiatore e regista, debutta ventenne dietro la macchina da presa in qualità di aiuto del padre e di altri colleghi, come Damiano Damiani. Negli anni si specializza in produzioni televisive e cura la regia di numerose trasmissioni e fiction, oltre che di diverse edizioni del Festival di Sanremo; ha lavorato con Roberto Benigni, curandone spettacoli di grande successo; nel 2018 ha diretto Conversazioni su Tiresia (l’indovino cieco della mitologia greca) di e con Andrea Camilleri.
Da sempre, confessa, sono appassionato di racconti polizieschi, ho sempre amato il giallo, il noir… Anche se scrivere un romanzo non era nei miei programmi, inevitabile che, prima o poi, prendesse corpo il desiderio di raccontare una storia con protagonista un investigatore.
Ecco il punto principale: Quale tipo di Investigatore?
Dopo scrittori e scrittrici di romanzi del genere, che si confrontano direttamente sul campo, lasciata per un po’ la scrivania, ispettori e commissari, investigatori privati -uno per tutti, Sherlock Holmes- preti, suore, giornalisti in crisi alla ricerca di nuovi orizzonti, avvocati alla Perry Mason, perfino gatti -ricordiamo tutti FBI, Operazione Gatto, degli anni Sessanta- chi avrebbe potuto attirare l’attenzione del pubblico senza ripercorrere strade note?
L’Idea, racconta il Nostro nel simpatico accento romano, mi è arrivata addosso da dietro.
Un giorno attraversavo Ponte Sisto, il ponte pedonale che collega Trastevere a Campo dei Fiori. Ero concentrato nei miei pensieri, quando, all’improvviso…una gran pacca sulla schiena da levare il fiato.
Mi giro pensando ad uno scherzo di cattivo gusto e invece mi trovo di fronte un barbone che mi fissa con due occhi azzurrissimi carichi di angoscia e risentimento: perché non mi guardi? E’ la sua muta domanda.
Dietro di lui, una sorta di cuccia fatta da dei cartoni e una vecchia coperta. Io, come tutti gli altri che in quello stesso momento attraversavano il ponte, c’ero passato davanti senza nemmeno accorgermene. Lui si è alzato e, per la disperazione di essere invisibile al mondo, ha tirato un cazzotto al primo che gli è capitato, cioè a me. Poi si è di nuovo coricato nella sua tana, attaccandosi ad un cartone di Tavernello.
Dopo un istante di rabbia, ho capito. Ho compreso il dramma tremendo di essere invisibile, perché nessuno ti vuole vedere, perché tutti girano al largo, allontanati dal ribrezzo che suscitano queste persone, inutile negarlo. Maleodoranti di sporco e di rancido, ributtanti. Giri al largo, non c’è niente da fare. Comprensibile; inutile arrampicarsi sugli specchi alla ricerca di giustificazioni o, peggio ancora, tentar di sopire l’inevitabile disagio che questa gente suscita in te.
E loro? I barboni, cioè? Che cosa provano nel sentirsi così, nemmeno degnati di uno sguardo, anzi: rifuggiti proprio? Una tremenda sofferenza, che tentano di annegare nell’alcool. Ti sei mai chiesto perché queste persone sono per lo più alcolizzate?
Però…..se ce la fai a reggere questo strazio, il tuo essere invisibile può rivelarsi un grande potere: il potere degli stracci, che il protagonista del romanzo, Andrea, usa per investigare ed arrivare alla verità su quella notte che, due anni addietro, ha cambiato per sempre la sua vita.
Per entrare in quel mondo così lontano -ma così vicino- Vicario ha parlato con dei senzatetto, ha effettuato ricerche su internet, si è documentato. Soprattutto, confessa, ha cercato di avvicinarsi, con pudore e rispetto ad un universo fatto per lo più di patimenti, dai più banali come una giornata di pioggia, vero dramma per un homeless, ai più intensi come la totale emarginazione e la mancanza d’amore. Senza giudicare, con il solo intento di raccontare una storia.
Storia, conclude, fatta più di luci che di ombre. Come lettrice provo i medesimi sentimenti.
Una vicenda che mi ha conquistata, oltre che per l’insolita ambientazione e la scelta del protagonista, per le riflessioni che essa suscita. In quegli stracci potremmo trovarci un giorno noi, i cosiddetti normali; come in carcere, del resto. Conosco il caso di persone irreprensibili, ma trattate da criminali, finite dietro le sbarre senza una valida spiegazione, con l’unica colpa di aver avuto fiducia in gente, diciamo, disinvolta. “Catturati”, come recita la formula rituale declinata dal Giudice per le Indagini Preliminari (GIP), sbattuti al fresco senza complimenti e via!
Com’è mia abitudine, non racconterò l’intreccio, non farò opera di “spoileraggio”, come si usa dire oggi, limitandomi ad una breve introduzione. Si soffermerò piuttosto sulle diverse figure, i caratteri, le interazioni; e sull’ambiente circostante, una Roma davvero insolita, specie per me che purtroppo non la conosco a fondo.
Una breve, ma illuminante, riflessione di Annachiara Sacchi, all’inizio di un confronto tra due “giganti” del noir, Pierre Lemaitre e Massimo Carlotto, riportato su La Lettura del 3 febbraio u.s.
Scrive Sacchi: “Chiedetelo al giallo. Quando la società è in crisi profonda, quando la realtà -schizofrenica, violenta, assurda- supera ogni tipo di previsione, quando i valori cigolano o forse crollano.. Quando interpretare diventa troppo difficile, lasciatelo fare agli autori noir. Scrivono romanzi in cui compaiono pluriomicidi, manipolatori crudeli, tragedie private, scavano nel cuore nero dell’oggi, indagano non solo atroci reati, ma pulsioni e desideri….”
L’Avvocato Andrea Massimi condivide con il fratello maggiore Giorgio un prestigioso studio legale in Roma, ereditato dal padre.
I due non potrebbero essere più diversi: Giorgio è persona interamente dedita al lavoro, irreprensibile, dalla moralità a prova di bomba.
Andrea è imprevedibile, vanesio, sempre pronto a divertirsi. E’ sposato con Marzia e padre di una bambina, Lucia; ama sua moglie, certo, ma ciò non gli impedisce di guardarsi attorno e di non lasciarsi scappare ghiotte avventure. D’altra parte, ripete a se stesso, certi tradimenti, certe piccole “divagazioni” non rendono più solido un matrimonio?
Una sera, coperto dall’indulgente fratello, si reca a cena con la giovane amante; l’immancabile segretaria di studio, che lo sta puntando da mesi, in cerca di vantaggi, non solo economici, come da trito copione.
Il ritorno a casa, nel lussuoso appartamento ai Parioli, riserva al nostro avvocato una sorpresa sconvolgente: mentre se la sta spassando, la moglie e la figlia vengono trucidate in modo orribile a seguito di quella che ha tutte le carte in regola per essere archiviata come una rapina finita male.
Andrea, in preda alla disperazione e ai sensi di colpa, respinge il mondo privilegiato in cui è vissuto fino a quel momento per trascinare un’esistenza da barbone insieme ad alcuni senzatetto all’interno di un vagone abbandonato alla Stazione Termini. Nella nuova esistenza egli sembra aver trovato una sorta di (sia pur falso) equilibrio, finché un giorno -sono passati circa due anni dalla tragedia- riconosce al polso di una trans, Draga, un braccialetto, in corallo e perle di fiume, che aveva regalato qualche tempo prima alla moglie, d’accordo con la bambina. E’ quello! Ne è sicuro, senza ombra di dubbio.
Si pone mille domande; in primo luogo, come mai il braccialetto è ora al polso della trans, quando il massacro, dopo una rapida indagine chiusa in breve tempo, era stato classificato opera di una banda proveniente dall’Est Europa e senz’altro fuggita subito oltre confine? Mistero.
E se quel braccialetto, apparso all’improvviso dal nulla, fosse una sorta di segnale, magari inviatogli, per vie misteriose, da sua moglie alla quale giustizia non è stata ancor fatta?
Decide allora di fare luce su quanto è accaduto: lo deve a Marzia e a Lucia, lo deve a se stesso. Inizia allora, dopo un primo momento di incertezza, un’indagine che l’uomo porta avanti con dolore e difficoltà di ogni genere.
In questo è aiutato dagli amici clochard e da Anna Ungaro, magistrato, giovane sostituto procuratore, la quale “sente forte dentro di sé la missione di ricerca della verità, e della giustizia che dalla verità discende”; nonostante le diffidenze, le contraddizioni, l’imbarazzo che suscita in lei un uomo così insolito, ne comprende l’onestà di fondo e il coraggio. Mentre Giorgio, il fratello tutto d’un pezzo, si vergogna ancora di lui e non muove un dito in suo favore, troppo occupato a difendere la propria rispettabilità e l’onore dello studio legale. E figuriamoci….
Com’è composta la corte dei miracoli che avvolge l’esistenza del protagonista, chi sono i compagni di strada, coloro che dividono con lui il vagone abbandonato, sorta di scena principale da cui tutto promana?
Nino, il pluri protestato, che si nasconde in strada per sfuggire agli usurai. E’ terrorizzato da tutto e tutti, in particolare da certi fascistelli che trascorrono le serate nei pressi di un negozio Mc Donald (il Mac) dove i barboni vanno a raccattare i panini non venduti. Appena ne scorgono uno, gli balzano addosso, lo picchiano in modo selvaggio, poi magari, aggiunge Nino, “ti danno fuoco”.
Lillo, il pazzo, che insegue sogni impossibili di vincite alla lotteria.
Aldo, il vecchio professore d’orchestra. Ha il morbo di Parkinson e il suo sogno è rimettere le mani su un pianoforte a coda, prima che sia troppo tardi. Ma chi farebbe sedere davanti ad uno Steinway da centomila euro un barbone anziano e puzzolente?
Gigi, il polacco ubriacone: violento, attaccabrighe e falso. Tutti gli altri ne hanno paura tranne Andrea. E Andrea è l’unico che suscita timore in lui.
Totò e Peppino, due clandestini africani dai nomi improponibili, fuggiti da un centro di accoglienza, cioè da una galera. Discreti e silenziosi, dopo lo sbarco a Lampedusa, hanno seguito per giorni i binari del treno, fino ad arrivare allo scompartimento. Lì si sono fermati.
Dalle pagine del romanzo emergono storie, vicende che invito i lettori a scoprire.
Poi c’è Andrea. “Di lui gli altri sanno poco. Oltre agli stracci, su quel viso sporco brillano due occhi azzurri accesi di un dolore così vivo che toglie la voglia di fargli domande……non parla molto, ma scrive. Ha sempre con sé un pennarello e scrive……su qualunque superficie… sui muri, sulle ringhiere, sui pali della luce, sui cartelli stradali….con una calligrafia minuta, quasi incomprensibile. Frammenti di una storia che nessuno conosce”.
Scrive pure quando per la prima volta incontra Anna al commissariato di polizia a seguito di una rissa: aveva difeso con decisione Lillo dall’aggressione dei fascistelli ed era finito –lui!- nei guai grazie ai solerti agenti di polizia, Nicosia e Marra.
La donna, sulle prime, non riesce a comprendere l’ossessione di Andrea per la scrittura. Lei che, QUELLA notte, era stata tra i primi ad accorrere sul luogo del massacro ed aveva udito le urla disperate dell’avvocato.
Peraltro, impegnata in altre indagini, non si era occupata di quel truce delitto, sparito in una manciata di giorni dalle pagine di cronaca, dopo lo scalpore iniziale.
Silenzio di tomba.
“Adesso che non ho nulla mi sforzo di ricordare ogni momento in cui avevo tutto”. E spiega: “E lo scrivo….per non dimenticare…Non una ma cento volte, per tutta la città. E ogni volta…capisco l’enormità della mia colpa”.
“Ma è assurdo!” esclama Anna, di rimando “…una pena da inferno dantesco….Così non finirà mai”.
“Non deve finire mai”
Punto.
C’è una persona importante nella vita del protagonista.
Flora è una nobile figura di barbona: è l’ultima tra gli ultimi, sostenuta dalla carità degli altri mendicanti. Vive in una catapecchia, non lontano dal Testaccio, verso l’argine del Tevere, “una finta primavera di immondizia, un giardino dell’Eden dedicato ai sorci”.
Porta i lunghi capelli bianchi raccolti in una treccia che le arriva alla vita; ha un sorriso impagabile e due occhi azzurri come quelli di Andrea; con la differenza che i suoi sono ciechi.
Come molti non vedenti -pensiamo a Tiresia o allo stesso Andrea Camilleri, negli ultimi anni di vita- la donna ha un sesto senso: non solo percepisce al volo la presenza delle persone, ma sa leggere nel loro animo come in un libro aperto. Le basta un istante per capire di te cose che “tu stesso non hai mai saputo”. Un po’ sensitiva, un po’ maga….mi piace pensarla come una sorta di angelo che ti indica la via. Lei ti dà quella spinta ad agire che, da solo, chissà mai quando riusciresti in pieno a trovare.
Conosce il “dolore tossico” di colui che fu l’Avv. Massimi.
Anna, che incontra Flora in una delle scene più suggestive del romanzo, è colpita dall’affetto e dal rispetto con cui Andrea tratta la donna, a sua volta vestita di stracci. Hanno un che di alto, regale, insieme, quei due: “un’anziana regina e il suo cavaliere”, non può fare a meno di notare la stessa Anna, la quale è sorpresa e per nulla intimorita da una realtà che va via via scoprendo, così lontana da tutto ciò che ha vissuto fino a quel momento.
E sì che, per motivi professionali, si è scontrata tante volte con persone e vicende difficili….
Ma ora è tutto diverso, deve ammetterlo.
La vecchia chiama Andrea “Figlio” ed è lei che gli dona la consapevolezza di avere il potere degli…stracci, la capacità di attraversare il mondo da trasparente perché un barbone non esiste per gli altri: tutti lo evitano con cura, scappano, come un branco di acciughe inseguite da un tonno.
Così non visto potrà indagare e conoscere la verità, ma a prezzo, lei lo avverte, di profondo, inimmaginabile, dolore che però gli consentirà un giorno di ritornare a vivere, anche se adesso non lo vorrebbe.
Andrea smette, a fatica, di bere, ascolta il consiglio ed inizia il suo viaggio.
E basta scrivere in modo ossessivo su qualunque superficie gli capiti a tiro; basta…. e non perché il pennarello usato fino a quel momento ha esaurito l’inchiostro!
“Ma il barbone sa che è nella vita dell’Avv. Andrea Massimi che deve cercare. Tutto viene da lì”. Anche ripercorrendo le strade tracciate da quelle frasi scritte, talora smozzicate, talora ridotte a ghirigori incomprensibili.
Qui mi fermo e non racconto oltre della trama.
Stefano Vicario ci dona un romanzo che ti emoziona dalla prima all’ultima pagina. Lo leggi una prima volta non dico “d’un fiato” perché “d’un fiato”, per quanto mi riguarda, non riesco nemmeno a leggere la lista della spesa, ma senz’altro con una certa velocità.
Poi lo riprendi e rivivi con calma episodi, situazioni, approfondisci i caratteri dei diversi personaggi: la trama è complessa, ma ben strutturata, senza spazi vuoti, e il lettore non si perde mai, anzi è incoraggiato a continuare nel percorso.
Un libro da fare proprio: ti avvince la descrizione insolita, ma vissuta, di Roma, piena di colore e sofferenza, all’interno di una società cui non bisogna ricordare che esiste il dolore.
Una Roma fuori dei classici schemi, quasi underground, ma che esiste davvero: il greto del Tevere e i canneti, che hanno sorpreso Stefano durante le sue passeggiate…le mura aureliane coi vecchi camminamenti..vi sali e puoi vedere i palazzi lontani. Fantastico!
La prosa è ricca di suggestione, quasi musicale, nell’intrecciarsi di passato e di presente, delle figure di primo piano con quelle di contorno, nelle prospettive sempre cangianti.
Poliziotti corrotti, magnaccia assassini, ma anche persone di profonda umanità -stupendo, in proposito, è il capitolo breve, intenso intitolato “Solidarietà”-.
Un rapido schizzo del personaggio principale che, tra i tanti, ti resta dentro: “Gli stracci logori che gli svolazzano intorno al vento del tramonto lo fanno sembrare la creatura di un altro pianeta che fende una folla banale, indistinguibile. Potrebbe essere un supereroe, uno degli Avengers….[i Vendicatori]”.
Suggestivo è il suo punto di osservazione: lo sguardo -dal basso per così dire- sul mondo “normale” di uno che ne è al di fuori ora, ma che ne è stato parte, sia pure in un’era lontana anni luce.
Ti emoziona il rapporto di Andrea con bambini e ragazzi, che emerge in diverse scene: gli unici che non scappano davanti a lui, che non lo temono, nemmeno quando è sporco e lacero, simile ad un orco: gli dedicano invece un sorriso o almeno uno sguardo di affettuosa complicità. I giovanissimi gli ricordano Lucia, sia che si tratti di piccoli di pochi anni o di un’adolescente come Caterina, la giovanissima baby prostituta che egli riesce a strappare da una vita di sfruttamento e dolore.
Poi c’è Anna, personaggio dalle mille sfaccettature: un magistrato davvero fuori dagli schemi, passionale, contraddittoria e talora piena di rabbia, con Andrea, il mondo e se stessa.
In grado però di capire che la realtà vera non è popolata di “perfettini”, come il bel fidanzato Paolo o l’irreprensibile Giorgio, fratello di Andrea, ma di chi rischia e si sporca le mani.
Il romanzo ha una sorta di sottotitolo: “La prima indagine di un invisibile”.
Che significa? Il protagonista, una volta scoperta la verità, ritornerà a vivere, come gli ha predetto Flora. Sì, ma come, sotto quali spoglie?
Non sarà più, ne sono sicura, il brillante avvocato di un tempo sepolto.
Riprenderà la vita del barbone, che, forse, non aveva ancora abbandonato?
Non lo sappiamo.
Una cosa è sicura, ce lo confessa Vicario in un’intervista: Andrea è tornato a bussare alla sua porta e guarda dalla “mia parte, con i suoi occhi turchesi: allora?! Devo sbrigarmi perché lui è uno che fermo non ci sa stare”.
Aspettiamo con una certa trepidazione.