(Titolo originale Tashach 5708; Miskal – Yedioth Ahronoth Books and Chemed Books, Tel Aviv, 2010)
Trad. Elena Loewenthal, Ed. Giuntina, collana Israeliana, Maggio 2012, pp. 180, €.15,00
“..e sentivo lo schianto e il dolore e sentivo la morte. Stavo male e pensavo che gli ebrei….insomma non era possibile che non avessero una casa” “Noi…eravamo delle battute di spirito ambulanti, pieni di noi stessi…Per loro ..la guerra era Wehrmacht, nazisti, Gestapo….andare da Dio passando per i camini dei forni crematori..”
Yoram Kaniuk, scrittore, critico teatrale, giornalista, nonché pittore, è nato a Tel Aviv nel 1930. Suo padre, Moshe, originario di Ternopil’, in Galizia, era immigrato nella Palestina ottomana nel 1909; la madre, nativa di Odessa, quando, l’anno successivo, compì, a sua volta, l’aliyah, passò coi genitori da Trieste. Il figlio, in una recente intervista, ha raccontato che, pur essendo lei allora molto piccola (aveva sei o sette anni), il ricordo di quel viaggio e di quel luogo le rimasero dentro per tutta la vita.
Le famiglie, giunte in Terra di Israele proprio quando Tel Aviv veniva fondata, si sistemarono nel quartiere di Neve Tzedek, allora, come ora, sede preferita di artisti e persone di cultura. In seguito Moshe Kaniuk diventò il primo curatore del Museo d’Arte di Tel Aviv.
A 17 anni, Yoram si arruola nelle truppe scelte del Palmach e partecipa alla Guerra d’Indipendenza del 1948, dov’è gravemente ferito ad una gamba.
Viene curato in un ospedale di New York, città nella quale rimane fino al 1961, allorché ritorna in Patria.
Considerato tra i più illustri scrittori israeliani, tradotto in ben 25 lingue, insignito di numerosi premi, è autore di libri per ragazzi, saggi, racconti, romanzi. Tra questi ultimi: Post mortem, Tigerhill, Il comandante dell’Exodus, ma, soprattutto, nel 1968, l’indimenticabile Adamo risorto (dal quale, alcuni anni fa, il regista Paul Schrader ha tratto l’omonimo film con Jeff Goldblum, Willem Dafoe e Derek Jacobi, visibile -in buona sostanza- nel nostro Paese solo in DVD).
Sono noti i suoi atteggiamenti polemici. Uno fra i tanti: nel maggio 2011 ha chiesto al tribunale distrettuale di Tel Aviv la cancellazione, sul proprio documento di identità, di ogni affiliazione religiosa (obbligatoria sui documenti dello Stato di Israele). E ciò non perché egli non si senta “profondamente ebreo”, anzi; ma per desiderio che Stato e Religione restino separati.
Tuttavia sulla necessità di uno Stato ebraico non ha dubbi; c’è nel mondo ancora troppo antisemitismo, fa notare, e Israele è circondato da nemici. “Vorremmo essere Atene, non Sparta, ma abbiamo ancora bisogno di essere forti, altrimenti non sopravvivremo”.
1948 -uscito or ora in Italia con Giuntina – prende l’avvio nei giorni lontani della Guerra d’Indipendenza di Israele allorché Yoram viene ricoverato in un convento adibito ad ospedale da campo, con una gamba a rischio di amputazione.
Ma è proprio in quei momenti di dolore, che comincia ad affiorare in lui il flusso dei ricordi sulla drammatica esperienza vissuta. Ricordi che debbono, come l’Autore afferma, fare i conti con la memoria e le sua astuzie selettive -che cosa conta davvero nella ricerca di ciò che si è vissuto?-.
In una recente intervista ha confessato che gli ci “sono voluti 60 anni” per scrivere questo romanzo. Un primo tentativo data del 1959, allorché era imbarcato come marinaio sulla Pan York, una delle navi che trasportavano in Israele dall’Europa i superstiti della Shoah: il testo s’intitolava Uno degli amici di Benny Marshak [dal nome di uno dei commilitoni], ma fu inopinatamente rifiutato degli editori. Negli anni successivi Kaniuk si è cimentato a più riprese nel tentativo di dar corpo ai suoi pensieri; senza peraltro uscirne mai soddisfatto. Finché, qualche tempo fa, a seguito di una grave malattia che lo ha portato in punto di morte, ha deciso che questa era la sua ultima occasione: doveva scrivere, altrimenti sarebbe stato troppo tardi. Ora o mai più.
Questo è il suo testamento spirituale: la drammatica storia di quella guerra vista attraverso gli occhi e la sensibilità di un giovanissimo. Il libro è stato insignito, nel 2011, del Sapir Prize for Literature. Come ci dice in una recente intervista, con soddisfazione, ma senza iattanza: “Un importante ministro mi ha detto di recente di aver capito solo dopo averlo letto quanto sia stato difficile combattere quella guerra, senza riserve e con grande scarsità d’armi [e, in buona sostanza, senza appoggio internazionale]. Credo di aver toccato l’argomento giusto nel momento giusto”.
Ne è uscita un’opera avvincente, dallo stile essenziale, la cifra espressiva asciutta, incalzante, una narrazione concitata, talora paradossale, ironica, spesso cruda e dura come ogni racconto di guerra, specie se si tratta di una guerra disperata per la vita. Un racconto epico, tragico, solo all’apparenza contraddittorio, senza un briciolo di retorica. Talvolta certe frasi sembrano quasi sgrammaticate, ma la “presa diretta” è garantita: indubbio merito della traduttrice, Elena Loewenthal. Da leggere in fretta, per non perderne il ritmo -un po’ come quando ti capita di ascoltare la confessione di un testimone ad un processo-; ma devi prestare attenzione per serbarne tutta l’intensità epica.
Di norma dal presente emerge il passato; qui accade spesso il contrario. Come quando, dopo aver accennato alla paradossale vicenda (conosciuta a bordo della Pan York) del dodicenne che, ad Auschwitz, era andato a cercare i diamanti nel retto dei genitori morti per venderli alle SS, nel paragrafo successivo, ci racconta dell’incontro casuale, avvenuto molti anni dopo a Tel Aviv, con quel ragazzo, ora un uomo anziano, magrissimo e brizzolato, che lo riconosce subito. I due si scambiano poche frasi di circostanza, ma ben presto il silenzio ha la meglio: “…ci siamo salutati perché non avevamo nulla da dirci, i ricordi si erano rivolti qualche sguardo…ma non avevamo parole con le quali parlare”.
Il carattere irripetibile della Shoah, nella poetica dello scrittore, è un tema forte: un trauma silenzioso, com’egli lo definisce, che persiste ostinato ed aleggia nell’aria. “La città si andava riempiendo di scarti d’uomo” osserva di fronte ai sopravvissuti giunti nella Terra dei Padri .
Una presenza forte; al punto che egli sostiene che la nascita di Israele si deve in gran parte alla Shoah. A tale proposito occorre tener presente che la prospettiva di uno scrittore non è quella distaccata e, per così dire, documentale di uno storico. Quest’ultimo sa alla perfezione che lo Stato non è affatto (ri)sorto a seguito della Shoah, quasi a titolo di risarcimento concesso agli Ebrei da parte dell’Europa (che li aveva sterminati), ma che vanta radici assai più lontane nel tempo. Kaniuk, al contrario, rivive il dramma suo e dei coetanei: poco più che adolescenti, inesperti, talora disorientati, catapultati in una guerra per tanti incomprensibile, la più difficile tra quelle cui Israele è stato finora costretto a combattere.
Ben radicato e cosciente è l’attaccamento dell’Autore al suo Paese: egli, in un colloquio con Susanna Nirenstein di alcune settimane fa, definisce “gente cattiva” i c.d. “nuovi storici”, persone con un ostinato odio di sé. “I fatti sono semplici” conclude “gli arabi non ci volevano, ci attaccarono e noi abbiamo combattuto”.
Il sangue è uno dei motivi conduttori del libro. Nell’edizione italiana, il titolo (“1948″) è posto su uno strano sfondo, costituito, a me pare, da un miscuglio tra terra e sangue rappreso. E poi la Morte, che non lascia mai quei giovanissimi e pare divertirsi alle loro spalle giocando a rimpiattino: “..le pallottole mi fischiavano addosso…Provai a fare conoscenza con la morte, ma quella rideva di me e decise di soprassedere”.
Da parte dei responsabili sionisti era stato chiesto a quei giovani di essere degli eroi, fondatori di uno Stato, ma essi erano solo ragazzi che rischiavano la vita per la propria sopravvivenza e per dare una casa a quegli Ebrei rifiutati dal mondo, passati attraverso la “Grande Tribolazione”. In un’intervista recente Kaniuk si sofferma su un concetto, un punto essenziale mai abbastanza meditato, dal quale scaturiscono rilevanti conseguenze: “…si deve capire che noi combattevamo per sopravvivere. E comunque la loro [degli Arabi] era la guerra dei leader [contriaramente agli Ebrei], dei governanti dell’Egitto, del Libano o dell’Iraq che non avevano accettato la partizione. Non era certo la guerra dell’arabo di Jaffa o della donna del villaggio”.
L’opera è un breve, affascinante affresco, dipinto a tinte forti, della storia di Israele agli albori dell’Indipendenza, un mondo guardato con occhio e animo disincantati, ma, forse un po’ al di là delle intenzioni, ruvidamente affettuoso: “Non ho conosciuto il Palmach ai tempi d’oro…al principio degli anni ’40, quando i suoi membri lavoravano nei kibbutz…Il Palmach che ho conosciuto io in guerra… erano bande di combattenti. Non era simpatico. Era uno strumento geniale e spietato che stava -senza neanche saperlo- fondando uno Stato per il Popolo d’Israele”.
Bellissimo è l’alternarsi, nel testo, del differente atteggiamento -nei confronti del dolore (fisico e psicologico) e della morte- per un verso, del giovane poco più che adolescente (Kaniuk all’epoca dei fatti) e, per altro verso, dell’uomo anziano, ancora vigile, ma duramente colpito dalla malattia e quasi giunto al termine del cammino terreno (lo scrittore, oggi).
Di grande impatto, verrebbe da definirlo “omerico”, le scene dei combattimenti, comprese quelle i cui protagonisti sono i nemici, come la morte di Abdel Khader al Husseini, il mitico comandante delle forze arabe nella regione (sì, il cugino del famigerato Gran Muftì), ucciso nella decisiva battaglia di Qastel, sulla strada per Gerusalemme, a inizio aprile 1948, vittoria di notevole importanza strategica per le forze ebraiche. Il leader è accompagnato al riposo eterno dai suoi uomini, che sospendono momentaneamente la lotta, rinunciando ad un pressoché scontato successo, per condurre il venerato capo all’ultima dimora, riservandogli un “funerale da re”.
E poi i tipi umani con i quali condividere l’esperienza, sovente in un rapporto dialettico: Ari Pseudonimo, il migliore amico di Yoram, il quale sosteneva che la guerra era “la cosa più meravigliosa capitatagli in tutta la vita”, ma che morirà in modo assurdo, per colpa di un’ultima pallottola; o Yashka, il partigiano, alto e biondo (forse nemmeno ebreo), la cui uccisione è descritta con parole di lirica intensità; o la misteriosa ragazza, piccola e magra, della banda Lehi, scomparsa, da un giorno all’altro, nel nulla.
La Pietà verso i vinti e il rimorso per le inevitabili atrocità che sporcano ogni guerra. Il pensiero agli sconfitti, in primo luogo i civili, come a Ramle: “Bambini. Anziane distese sui rovi a strillare. Uomini in giacca e cravatta, ma senza scarpe, che supplicavano. Dolore. Nostalgia. Umiliazione. Mi sentii complice di un abuso….” Uno scrittore dà vita a diversi stati d’animo, senza far questione di appartenenza; può permettersi una libertà che non è concessa allo storico, il quale, impegnato ad indagare le cause profonde di quel dramma, sa bene, tra l’altro, quanto la pietas e gli alti sentimenti espressi da Kaniuk siano sempre stati sconosciuti (allora, come ora) alla controparte, o almeno ai suoi dirigenti politici .
E le pagine intense, rabbiose, aliene da qualsivoglia sentimentalismo, dove ci presenta quegli Ebrei i quali, nella torrida estate mediorientale, ancora indossano indumenti invernali e parlano, anzi urlano, in svariate lingue, mescolate tra loro…yiddish, greco, russo, bulgaro, polacco…Essi entrano come belve fameliche nelle case abbandonate dagli Arabi. Sono assai più forti dei giovani sabra. “Presero. Rimasero”. Quanta strada percorsa, quanta sofferenza ci sono dentro quei due verbi. Quanto amore.
Amore vissuto poi durante i viaggi sulla Pan York: “…Poi m’innamorai di loro. Capii che erano loro i grandi eroi…Parlai con loro…”.