16 giugno 2012: Incontro con David Grossman
“No, non faccio distinzione tra quando scrivo i miei romanzi e quando intervengo sui quotidiani [come la Repubblica o Ha’aretz], a proposito di questa o quella questione politica. La lingua è la stessa; importanti sono le sfumature, lo sforzo per evitare quegli stereotipi espressivi che finiscono giocoforza per allontanare un autore dal suo pubblico. E’ indispensabile cercare, e trovare, angolazioni diverse, strade per sorprendere il lettore ed indurlo a ripensare la realtà. Purtroppo la nostra vita è condizionata dai mass media. Ma quale rischio è nascosto dietro questa espressione? Il rischio è che il ‘mezzo’ trasformi pian piano le persone in…massa, che la loro vita interiore venga annichilita da consumismo e superficialità”.
Davanti ad una folta platea, riunita nella prestigiosa cornice del Salone del Podestà a Bologna, nel tardo pomeriggio di sabato 16 giugno, David Grossman, scrittore israeliano tra i più amati nel nostro Paese, espone il suo pensiero su “Letteratura” e “Politica” rispondendo a domande e sollecitazioni di Alberto Stabile e Gad Lerner.
L’incontro si inserisce nel quadro di “La Repubblica delle Idee”, l’ambizioso “Festival” politico/culturale, pensato ed organizzato a Bologna dal noto quotidiano. Da Giovedì 14 a Domenica 17 giugno, nei luoghi più rappresentativi del centro cittadino, si sono alternati politici (non ha fatto mancare la sua presenza nemmeno il Presidente del Consiglio, Mario Monti, intervistato presso il Teatro Arena del Sole da Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro), storici, artisti, Premi Nobel, scienziati, scrittori; con esposizioni sulla storia del giornale e mostre sulle sue “matite” più incisive, come Altan, Ellekappa, Pericoli. Un’iniziativa di largo respiro, tutto sommato rilevante, anche sul piano di un rilancio della città, dove tuttavia, accanto alla solita aura modaiola di circostanza -in linea, del resto, con una (pur pervicace ma, grazie al cielo, non l’unica!) certa anima bolognese-, non sono mancate alcune, prevedibilissime, discrasie, circa le modalità di accesso del pubblico agli eventi, che hanno trovato il loro terreno ideale allorquando i diversi appuntamenti si svolgevano non nelle ampie piazze, aperte senza problemi a tutti gl’interessati, bensì in luoghi chiusi. Un po’ di trasparenza organizzativa non avrebbe guastato.
Ma Grossman è davvero di un altro pianeta rispetto a queste umane miserie. Come del resto, ritengo, i suoi interlocutori sul palco.
Ha ragione Alberto Stabile allorché sostiene che David, nel suo costante tentativo di uscire, attraverso la propria opera, dalla posizione drammatica e difficile nella quale si trova Israele da troppi decenni -da quella cioè che tutti, nel Paese, chiamano, con una sorta di censura linguistica, hamatzav, cioè la Situazione- si appoggia ad un preciso, saldo sistema di valori, una “Grammatica interiore” della Scrittura, per parafrasare il celebre romanzo datato 1991, che lo porta, in primo luogo, ad esprimere l’urgenza di dare alle parole il loro vero, autentico significato. Qui grande è la responsabilità dei giornalisti. Prendiamo il vocabolo “occupazione”, ad esempio, che, da oltre quarant’anni, è entrato nel lessico quotidiano, venendo in qualche modo sterilizzato, privato della sua natura intrinsecamente anomala, soggetto a quella “Lavanderia delle parole”di cui si parla in Il Vento Giallo (uscito in Patria nel 1987 e pubblicato da noi nel 1991), una delle sue prime opere.
Una necessaria precisazione da parte mia.
Premesso che sono un’appassionata lettrice dei romanzi di David Grossman[1], che ogni incontro con lui, anche se breve e limitato ad un veloce scambio di saluti, un abbraccio e un sorriso, per me è una festa perché sento, al di là di tutto, una profonda empatia umana nei suoi confronti, in parole povere affetto, tuttavia non posso concordare con la sua visione irenista della realtà (esposta anche nella presente circostanza), quel suo, mi si passi la frase, non -voler- vedere la trave nell’occhio dell’altro e concentrarsi sempre solo sulla pagliuzza posta nel proprio. La virtù ebraica dell’autocritica ha un limite, perbacco! Mi sembrerebbe arduo o, se preferite, offensivo, come parrebbe volere il mio amico scrittore (che pure ama il suo Paese, ne conosce la fragilità, l’insicurezza, il non essere -ancora- quella casa degli Ebrei che era stata sognata; lo senti, lo percepisci dalla voce, dallo sguardo, da ciò che scrive), dar corpo all’immedesimazione pure in coloro che sono considerati il NEMICO, mettermi cioè nei panni (com’egli, a più riprese, afferma) di chi mi odia fin dalla nascita senza un plausibile motivo -ciò anche quando non c’erano né la cosiddetta occupazione, né lo Stato di Israele-; che predica il Jihad contro gli Ebrei ai propri figli, mandandoli nei campi estivi dove non si impara a giocare a calcio o a conoscere la natura, bensì a sgozzare un…sionista nel modo più efficace, con sottofondo di canzoncine e balletti vari sul tema; che è tutto felice se è riuscito a fare a pezzi all’interno di una pizzeria, in una tranquilla giornata d’agosto, ben otto bambini israeliani anziché quattro…tutto ciò pur avendo sempre goduto (o forse grazie a ciò, chissà) dell’unanime simpatia dell’Occidente, compresa una larga fetta di Ebrei per lo più diasporici; per l’esattezza, più che simpatia, amore cieco verso i “poveri palestinesi”, accompagnato da finanziamenti, aiuti, come nessun altro popolo al mondo si sognerebbe, ecc., ecc.
Beh, questo non posso concepirlo. E nemmeno David, ne sono sicura (tra l'altro, in merito alla possibilità di democrazia nei Paesi arabi, egli ritiene che ciò si potrà forse concretizzare, ma solo tra alcune…generazioni; altro che luminosa Primavera araba, rivelatasi buio Inverno islamista!), al di là di certe frasi tanto applaudite dagli pseudo progressisti di casa nostra, a proposito dei quali mi domando quanti tra loro abbiano davvero letto i suoi romanzi, anziché limitarsi ad annusare i discutibili articoli pubblicati su La Repubblica; romanzi difficili perché scavano senza pietà nell’anima, ma che ti restano dentro per sempre.
A proposito, poi, di "Lavanderia delle parole", nessuno può battere, quanto a…Dis-Informazione S-Corretta, l'Autorità Palestinese, cioè il soggetto moderato con cui Israele dovrebbe trattare la pace. In un volume diffuso dal Ministero della (Dis)Informazione viene insegnato ai Palestinesi come manipolare il linguaggio in senso antiisraeliano: "Resistenza" al posto di "Terrorismo"; "Colonialismo" al posto di "Israele"; "Martiri" al posto di " Attentatori suicidi", ecc., fino al "Territori occupati" , espressione, come sappiamo, assai diffusa in Europa e non solo, al posto di "Territori contesi" (termine che esprime l'esatta situazione dal punto di vista storico) . Tutto questo lo si può leggere nel sito benemerito Palestinian Media Watch (PMW) del 19 giugno u.s., come riportato da www.israele.net.
A proposito, poi, di "Lavanderia delle parole", nessuno può battere, quanto a…Dis-Informazione S-Corretta, l'Autorità Palestinese, cioè il soggetto moderato con cui Israele dovrebbe trattare la pace. In un volume diffuso dal Ministero della (Dis)Informazione viene insegnato ai Palestinesi come manipolare il linguaggio in senso antiisraeliano: "Resistenza" al posto di "Terrorismo"; "Colonialismo" al posto di "Israele"; "Martiri" al posto di " Attentatori suicidi", ecc., fino al "Territori occupati" , espressione, come sappiamo, assai diffusa in Europa e non solo, al posto di "Territori contesi" (termine che esprime l'esatta situazione dal punto di vista storico) . Tutto questo lo si può leggere nel sito benemerito Palestinian Media Watch (PMW) del 19 giugno u.s., come riportato da www.israele.net.
Caduto fuori del tempo (Nofel Mihutz Lazman) è il titolo dell’ultima opera di Grossman in ordine di data: riprende, da diverse angolazioni, le tematiche del “Cerbiatto”. Uscirà da noi in autunno, con Mondadori.
Quanti temi, strade, viaggi..Proviamo a soffermarci su alcuni. Solo alcuni perché il mondo dell'Autore israeliano è davvero una Trama Fittissima, un Sogno Infinito.
Anzitutto il dibattuto argomento di che cosa s’intenda per LETTERATURA EBRAICA, nel caso in cui questo termine abbia un significato, considerato che gli scrittori ebrei (tali per cultura, esperienze, formazione, fede) hanno scritto, e scrivono, in diverse lingue . “Esiste un denominatore comune?” gli chiede -e si chiede- Gad Lerner.
David ritiene che, pur della diversità dei contesti, vi sia un elemento in comune (perfino con Kafka, forse il più grande) ed è quella qual certa FRAGILITA’ di vita che contraddistingue il Popolo Ebraico, quel senso di provvisorio, elemento fisso nella sua storia, che è gli entrato nel DNA. Egli stesso, nato in Israele, cittadino di quello Stato, partecipa di tale modo di essere e sentimento, anche se “scrivo in una lingua, l’EBRAICO [il tema della LINGUA gli è molto caro] nata 3000 anni fa, la lingua della Bibbia, stratificatasi nei secoli, rinata nell’800, la quale non solo ha inventato nuove parole, ma non teme di ‘contaminarsi’ con lo slang; anzi pure nel gergo si possono rivenire echi della Bibbia. In tutto questo “differisco dai miei colleghi americani (come Jonathan Safran Foer, Nicole Krauss e altri)”. I temi che “ ‘ossessionano’ me non sono gli stessi che appassionano loro. Tuttavia sono influenzato da questi scrittori perché non resto chiuso nella realtà del mio Paese”.
Altro percorso fortemente simbolico è il VIAGGIO. Il viaggio al nord di Israele, compiuto a piedi, alla riscoperta di se stessi e dell’essere Madre e Padre, dai protagonisti di A un cerbiatto somiglia il mio amore, Orah e Avram, i genitori di Ofer (il Cerbiatto, nel senso etimologico e metaforico), il giovane attorno al quale ruota tutta la storia: ogni lettore sensibile dà a Ofer il volto dei propri figli. E pure l’ultima creatura di carta e carne di David, che aspettiamo con trepidazione, parla di un viaggio; il viaggio di un Uomo, che ha perduto un figlio cinque anni prima e che si mette in cammino per andare ad incontrarlo “laggiù”. I riferimenti autobiografici sono evidenti.
Ad una sollecitazione di Stabile l’Autore confessa che, dopo un’iniziale difficoltà, per lui è stata una gioia immedesimarsi nell’animo, nel corpo (e nelle scarpe!) di una DONNA. Orah, afferma limitandosi a trattare questa figura, è una sorpresa: è stata una gioia per lui arrendersi a lei, ci si è distaccato a fatica, dopo aver terminato il libro. A chi lo dice…..
Che c’è di più affascinante che lasciare i propri confini? Ogni persona è sì un’individualità, ma, prosegue, dovrebbe cercare di contenere in sé, se uomo, una donna, o quel bambino che è stato in anni lontani, oppure il vecchio che diventerà nel prosieguo del tempo.
Gad Lerner legge un brano lungo, ma assai significativo (p. 109), di Vedi alla voce Amore (1986, Hakibbutz Hameukhad, Tel Aviv; da noi in Einaudi Tascabili, 1999), tratto dalla parte in cui il protagonista è Bruno Schulz, il grande, tragico autore polacco, una sorta di padre spirituale di David: “Dal momento in cui Bruno aveva visto il quadro Il grido nella galleria Artus Hop, aveva capito cos’era successo là sulla tela: la mano del pittore era scivolata. Munch non avrebbe mai osato progettare di creare una tale completezza. Avrebbe potuto solo indovinarla. Averne paura o esserne attratto. Non crearla, però, intenzionalmente. Bruno, che dipingeva e scriveva lui stesso, lo sapeva bene, purtroppo: e infatti anelava da sempre di arrivare a un giorno in cui il mondo avrebbe cambiato pelle, sarebbe sgusciato fuori dalle sue squame come una meravigliosa lucertola. ‘La superba epoca geniale’, così Bruno chiamava quel giorno avvenire. E fino ad allora, avvertiva, fino ad allora non dobbiamo mai dimenticare che le parole con cui scriviamo non sono che miseri brani di storie antichissime ed eterne; che noi tutti costruiamo case -a somiglianza di barbari- con pezzi di statue ed effigi di antichi dei, con briciole di immense mitologie. E, naturalmente ci si chiede: si è mai verificato un avvento dell’epoca superba e geniale? E a questa domanda è difficile rispondere. Anche Bruno esita. Perché ci sono cose che non possono avvenire del tutto, fino in fondo. Sono troppo grandi per poter trovare un luogo dove avvenire. E solo provano ad avvenire, provano il terreno della realtà per vedere se le può sopportare. E subito arretrano, timorose di perdere la propria completezza in un realizzarsi incompleto. E poi restano le nostre biografie, quelle macchie bianche, segni odorosi, quelle impronte d’argento perdute dei piedi scalzi degli angeli, sparse in passi giganteschi sui nostri giorni e sulle nostre notti...”.
Quelle “macchie bianche” sublimi che Grossman continua a cercare e che trova, magari senza accorgersene lì per lì, di colpo, mentre scrive; allorché sente che è successo…qualcosa. In quei momenti lo scrittore non deve fare nulla, solo lasciare che “le parole scorrano e lo attraversino”.
Sono istanti che non si possono, diciamo, “produrre”, poiché sono una GRAZIA -usa proprio questo termine- che giunge in modo subitaneo, una magia che appare magari dopo tanto tempo di duro, e all’apparenza sterile, lavoro.
Riprende le parole di Schulz mentre si riferisce a chi è stato toccato da simile privilegio: si tratta di una persona su cui “D-o ha passato una mano sulla fronte mentre dormiva”.
[1] Vedi, su questo sito, Il colombo viaggiatore, scritto in occasione del conferimento a Grossman della Laurea ad honorem da parte dell’Università di Firenze nel Giorno della Memoria 2008 (Febbraio 2008); due brani, sempre sullo scrittore israeliano e la sua opera, leggibili a Novembre dello stesso anno; e il commento a Bruno SCHULZ, L’epoca geniale e altri racconti, con un saggio di David Grossman, Ed. Einaudi, 2009 (Luglio 2009); nonché a David GROSSMAN, L’abbraccio, Ed. Mondadori, Dicembre 2010 (Gennaio 2011).