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Nardini Editore, Collana Iena Reader / Fiction, Firenze, Giugno 2022,  pp. 536,    €.25

 

“Ho scritto questo libro con l’intento di raccontare il tipo di storia che piace a me…un romanzo / mondo nel quale il lettore possa perdersi e magari desiderare di rimanervi più a lungo possibile…”

 

Si è fatto aspettare il secondo romanzo di Gabriele Rubini, circa undici anni, anni intensi, lieti e dolorosi, come spesso accade nelle nostre esistenze; ma, alla fine, Attraverso il fuoco premia l’attesa di chi desiderava ritrovarsi con i protagonisti della prima saga, Generazioni: 1881 / 1907 [1]. Non è necessario aver letto quest’ultimo testo per apprezzare appieno la creatura nata a  giugno; tuttavia, per quanto mi riguarda, ho preferito riprendere il filo dagli eventi che giungono fino al 1907 regolandomi sulla scansione temporale della seconda opera.

Mi sono riaccostata alla narrazione dell’Autore, non per svelare vicende -anzi, lascerò che sia proprio chi legge a ricercare, indagare, ritornare al punto di partenza- ma perché mi coinvolge nel profondo il modo con cui egli vi s’immerge prendendoti per mano.

Sappiamo che le nostre storie riguardano cinque famiglie ebraiche che vivono in altrettanti Stati, posti in tre continenti. Tanti modi differenti per declinare un valore condiviso: l’essere Ebrei.

C’è la famiglia italiana, ci sono due famiglie francesi, non mancano i Russi, un ramo dei quali emigra nella Goldene Medine, cioè negli USA, e, va da sé, abbiamo una rilevante deviazione nella Terra dei Padri, la Palestina, dapprima  sotto il tallone dell’Impero Ottomano, poi oggetto del Mandato britannico .

Al centro: le vicende della Prima Guerra Mondiale -il Fuoco cui si riferisce il titolo, il sesto protagonista; il settimo è la Terra di Israele, sempre presente, consapevoli o meno che ne siano le diverse figure che si incontrano-, con un anticipo nel 1912 e una coda che vede le rivolte precedenti l’avvento del fascismo.

I diversi personaggi nascono dalla mente e dal cuore di Rubini, ma, come in precedenza, interagiscono con figure realmente esistite; una sintesi perfetta, facile a dirsi, ma non così scontata.

 

Mi permetto di presentarli, questi personaggi, di seguirne in modo  sintetico le vicende,  in primo luogo per facilitare la lettura a chi non ha confidenza né con i contesti storici nei quali si svolgono le vicende che li vedono protagonisti, né con l’universo ebraico, molto variegato nelle sue articolazioni. A cominciare dalla genesi e dalla (ri)nascita dello Stato di Israele, visto sovente, nelle interpretazioni più benevole, come una sorta di risarcimento al Popolo Ebraico per le sofferenze patite durante la Shoah, dimenticando che, sia pure in nuce, uno Stato ebraico esisteva già ben prima del Genocidio: basti pensare che nel 1911 fu creato il Servizio Sanitario Nazionale e nel 1918 venne posata la prima pietra dell’Università Ebraica di Gerusalemme (anno di inaugurazione: 1925).

Senza contare che Gerusalemme, come Safed, è città con maggioranza ebraica da tempo immemorabile. Questo a prescindere dal significato -non solo religioso- che essa ha per il popolo Ebraico.

La scena si apre sulla famiglia italiana, i Morpurgo di Bologna. Famiglia cresciuta negli anni, tra madri, padri, figli, nipoti, nonni….un gruppo composito, insomma.

Aronne, il primogenito di Samuele e Elda, lasciata la drogheria in centro città ereditata dal padre, si è dato con successo alla professione di investitore in Borsa.

Con un certo savoir faire da persona di mondo unito all’immancabile saccenteria di stampo petroniano, dispensa i suoi apprezzati consigli agli avventori del noto Caffè San Pietro, vicino all’omonima Cattedrale, per breve tempo quartier generale bolognese dei futuristi.

Aronne siede insieme ai vecchi amici e al fratello minore, quel Daniele che, come sappiamo da Generazioni, era stato allievo di Giosuè Carducci, nonché prestigiosa firma del quotidiano locale Il Resto del Carlino.

Ma al zurnalesta, per dirla nel saporoso dialetto locale, si è ritirato diversi anni prima dalla professione; anzi un osservatore lo dipingerebbe ora rassegnato e melanconico; come sua moglie Zita, del resto: purtroppo è scomparsa la trepida giovane donna di un tempo. La vita a volte ci riserva simili  amarezze.

I due fratelli, pur così diversi di temperamento e carattere, hanno in comune un acceso nazionalismo. Aronne vede, nell’affermazione dell’Italia nel mondo, una ghiotta occasione per proficui investimenti; Daniele invece prova per il suo Paese una profonda gratitudine: grazie all’Unità sono finite le discriminazioni e gli Ebrei sono divenuti cittadini a pieno titolo. Egli ha il nitido ricordo delle angherie subite e non dimenticherà mai quel tragico episodio accaduto nel lontano 1858, allorché i vicini  di casa, i Mortara……

Ma non  tutti, a casa Morpurgo, la pensano allo stesso modo.

Italo, figlio maggiore di Daniele e Zita, valente medico presso l’Istituto Ortopedico Rizzoli, già famoso all’epoca, è un inguaribile pacifista a tutto campo e convinto socialista. Non esista a mettersi nei guai per le proprie idee, pagando di persona (contrariamente a certi pacivendoli attuali) e scavando una profonda fossa tra sé e il resto della famiglia.

Fosse, trincee, atti di eroismo…..

Ne sa qualcosa Filippo, fratello minore di Italo. Lo abbiamo conosciuto in Generazioni: giornalista, come lo fu il padre -dapprima per Il Resto del Carlino, poi per Il Corriere della Sera- ne condivide le posizioni nazionalistiche e ha girato mezzo mondo come inviato speciale.

Allo scoppio del conflitto, nonostante la non verde età, ma proprio in ottemperanza al sentimento di gratitudine verso la Patria in quanto ebreo, si arruola volontario e si batte con coraggio, nonostante la diffidenza iniziale dei superiori: viene soprannominato da alcuni di loro il “tenente per burla”, data la sua professione di inviato, aduso a non rischiare troppo. Ma non è il suo caso.

Molte efficaci le pagine che raccontano il conflitto: il fango; l’orrore; la paura; la modernità più spietata che entra in gioco, quella della guerra, delle mitragliatrici, dei primi aerei da combattimento, delle bombe; il coraggio dei soldati, la viltà di certi ufficiali e comandanti, non tutti certo, le pennellate che ritraggono figure come il cuoco Viterbo Comparone, da Giugliano (Napoli), biondo, voce da tenore mancato, impagabile spirito partenopeo. Pennellate da artista.

Anche nel composito gruppo francese ritroviamo tante figure che Generazioni ci ha fatto conoscere ed amare.

Dal patriarca Bénoit Lanzmann, padre di Antoine (morto come sappiamo  in duello per salvare l’onore ebraico), a Nathan Sylberstein, il primo personaggio della saga di cui facciamo conoscenza, il tredicenne Natke. A Zhithomir (Ucraina) il ragazzo scampa per miracolo alla furia antisemita dei cosacchi che gli hanno massacrato i genitori e la sorellina. Viene accolto dal premuroso zio materno Benyamin Jacobi…….

Ora Nathan è un affermato pittore parigino, sponsorizzato da Bénoit, vero intenditore d’arte. Sappiamo del suo felice matrimonio con Gisela (Shapiro), coronato dalla nascita di due gemelli, Jacob e Philippe.

E che dire di Catherine, la giovane figlia di Antoine e Pauline? Allo scoppio del conflitto è studentessa universitaria, ma non ha precise idee sul proprio futuro, tranne il sogno del “grande amore”.

Intanto, sia pure con varie traversie talvolta comiche, si realizza il sogno che vede protagonisti Laurent Dupain,  figlio di Henri, amico dei Lanzmann e la bellissima Vera Geller, figlia di Ruben e Minna Horovitz, nonché cugina di Mendel Jacobi. Sì proprio quel Mendel, lo ricordiamo bene, il quale, pur combattendo con valore nella guerra russo giapponese dell’ormai lontano 1905, era finito sotto processo per diserzione (!).

Ma Laurent, giornalista de L’Aurore, inviato in Russia nel 1906, aveva contribuito a salvare l’imputato grazie ai propri appassionati articoli e con l’aiuto del collega italiano Filippo Morpurgo -toh chi si vede!-.

Quando la guerra batte alle porte, che fa Laurent? Leggete e lo scoprirete.

 

Dall’altra parte dell’Oceano, negli U.S.A, precisamente a New York, gli Jacobi di Berdichev sanno farsi valere.

E’ noto come la massiccia emigrazione ebraica che si verifica a fine Ottocento per lo più dall’Est Europa, è diretta in prevalenza verso il Nord America: là ci sono comunità più vaste e variegate cui riferirsi, condizioni di vita, per quanto dure, non certo proibitive quanto quelle incontrate dai pionieri in Terra di Israele.

Samuel Jacobi è il facoltoso proprietario di un’industria di abbigliamento; ma i suoi campi di interesse spaziano in diverse direzioni.

Ha lasciato il paese natio dopo che il padre (Benyamin, combattente da giovane, nella guerra di Crimea, lo ricorderete), rimasto vedovo di Dvorah (Pollack), aveva contratto un nuovo matrimonio.

Dopo l’immancabile dura gavetta, durante la quale incontra la sua anima gemella, Hadassa (Shapiro), sorella di Gisela, Samuel è divenuto nel tempo un uomo ricco e rispettato.

La coppia ha due figli -Moses e Simon- dei quali è orgogliosissima. Sono entrambi laureati ad Harvard; i genitori sognano per loro una brillante carriera di avvocato (e magari un…cospicuo matrimonio). Ma i ragazzi hanno in mente tutt’altro.

Come se non bastasse, poi, c’è quel cugino strambo  di Chicago, futuro medico, figlio dell’altra sorella della madre, Chana, il quale pare impegnarsi di “buzzo buono”, cioè con metodo, a cacciar loro in testa idee a dir poco balorde.

Capitolo breve, ma succoso, dove ti imbatti in persone realmente vissute che hanno lasciato tracce indelebili nel tempo e in eventi, anche tragici, dei quali, confesso, avevo quasi perduto la memoria. Un regista cinematografico in grado di esprimere sfumature dal drammatico all’ironico, passando per il comico, sarebbe felice di immergersi in quella parte di mondo dal quale, ci piaccia o meno, non possiamo prescindere.

Tra le pagine più esilaranti di Generazioni 1881 – 1907 ci sono quelle dedicate a Ruben The Mole (cioè la Talpa) Laniado.

Membro di una delle più antiche famiglie ebraiche inglesi, di lontana origine spagnola, Ruben, minatore, è cresciuto nell’East End di Londra.

Primo Laniado a non fabbricare navi nel Pool of London (tratto del fiume Tamigi dal London Bridge fino a poco sotto il Tower Bridge, se non sbaglio), egli viene assunto, grazie a due figuri cui il nostro Rubini affibbia i soprannomi irresistibili di Brutta Faccia e Ghigno Storto (quest’ultimo è il classico bottegaio bolognese, verrebbe da ironizzare!), per andare a scavare in Palestina (ancora ottomana) le cantine -destinate a conservare il vino- di Shoshanat Yerico, il villaggio di pionieri in Galilea dove, come sappiamo, nasce e trascorre i primi anni Nathan Sylberstein.

La scelta cade su Ruben data la sua esperienza con le gallerie:  nella fattispecie egli aveva costruito le budella, cioè le fognature,  della capitale britannica “le aveva costruite con le sue mani, quelle budella”.

Figlio di Ruben e Mira è Avram, che riprende la tradizione di famiglia e lavora come maestro d’ascia presso i cantieri navali.

Dal matrimonio di Avram con Leah nascono tre figli: Jonathan, Jeremy e Paula.

Paula saprà un appoggio per i genitori allorché i fratelli andranno in guerra.

Jonathan non si può certo definire uno stinco di santo: ladro, organizzatore di incontri di boxe tra gli operai dei cantieri navali (e ogni tanto vi partecipa direttamente), arrotonda i guadagni grazie ad un lucroso commercio di prostitute. Tuttavia non riesci a detestarlo come meriterebbe, perché, dalla sua, possiede un’irresistibile simpatia, oltre che profonda umanità.

Il fratello minore, Jeremy, va da sé, ne vorrebbe seguire le orme.

Allo scoppio della guerra Jonathan si arruola, e non per amor di patria.

Saprà comportarsi con coraggio e vivrà esperienze tragiche, ma formative: di dolore per la sua persona, certo, allorché verrà gravemente ferito, e pure quando si troverà, a Porto Said, di fronte alle centinaia di profughi armeni, sopravissuti al Genocidio operato dai turchi. “Una massa dolente e stremata, uomini e donne di tutte le età e bambini, tanti bambini. Non possedevano nulla, tranne gli stracci che indossavano…..gli occhi gli si erano fatti liquidi. Era un duro, ma c’era qualcosa in quei poveracci..che lo aveva toccato in un punto che non sapeva nemmeno di possedere.”

E Jonathan farà, a sua volta, un incontro importante: ritroverà quella certa persona che abbiamo conosciuto nelle pagine precedenti; sorta di filo rosso che lega tutto il romanzo.

Torniamo agli Jacobi di Berdichev, a Benyamin Jacobi, in primo luogo.

Ricco proprietario di tre distillerie di vodka (fornitori anche delle forze armate zariste, per l’esattezza delle guarnigioni stanziate in Ucraina) ha valido aiuto nel secondogenito Mendel che conosciamo bene dal primo romanzo.

Il capitolo si apre con le vicende che precedono la Rivoluzione: dalle immense manifestazioni di operaie (furono loro a dare l’inizio) e operai a S. Pietroburgo il 23 febbraio 1917, all’abdicazione dello Zar Nicola II in favore del fratello Michele. Per pochissimi giorni però: con la formazione del governo provvisorio, il successivo 2 marzo, la monarchia è abolita. Dopo poco più di trecento anni la dinastia Romanov esce dal palcoscenico della Storia, dapprima ingloriosamente e poi tragicamente, nella cantina di casa Ipatiev a Ekaterinburg, in una notte di luglio 1918.

La Russia è ora una repubblica: incredibile!

Questi fatti dapprima sembrano suscitare interesse positivo nei nostri protagonisti: abolita la famigerata Zona di Residenza, nulla avrebbe potuto impedire ad un ebreo si stabilirsi in qualunque località della Russia; via la pena di morte. E, forse, quel governo liberale avrebbe potuto dare impulso alle riforme di cui il grande Paese aveva urgente necessità, ma……ma, ai nostri, e, in particolare agli occhi di Mendel, quell’apparente libertà assomiglia come non mai al caos e si sa che gli Ebrei hanno sempre da rimetterci col caos.

In più, le distillerie Jacobi danno lavoro a duecento dipendenti. Che ne sarebbe di loro se la situazione si facesse drammatica?

Preoccupazione si legge tra le righe, ma percepisci pure una forte unità familiare, in particolare tra Mendel, la moglie bella e dal forte carattere, Judith (vi ricordate il loro primo incontro?), i quattro figli.

Ci sono pure, insieme agli altri, i parenti di lei: il padre, Lazar Schuler, il contrabbandiere, e suo figlio Meir, che segue le orme paterne. Due filibustieri, d’accordo, ma piuttosto simpatici.

Un giorno, alcuni anni prima dello scoppio del conflitto, qualcuno bussa a casa Jacobi e Mendel, dopo un momento di incertezza, riconosce un personaggio noto, incontrato diverso tempo prima, nel 1905 : si tratta di………che ha molto da raccontare e proporre.

Mendel rifiuta l’invito che il visitatore gli fa, anche se con una certa riluttanza.

A proposito di caos e di guerra, ti colpiscono le pagine dedicate alla Russia e al suo esercito, terribilmente profetiche, pur tenendo conto delle differenze storiche: “Lo stato maggiore russo..non si era accorto di quanto il progresso scientifico avesse cambiato il volto della guerra…La Russia usava in modo antiquato e inefficiente la propria forza lavoro e nello stesso modo usava il proprio esercito”. Il richiamo ai tragici eventi di oggi è spontaneo.

C’è una figura chiave in tutta la vicenda, il filo rosso come lo chiamo, che riunisce con sapienza, nell’ultima parte del romanzo, i protagonisti. Un affresco perfetto, una trama composita che l’A. riesce a rendere semplice e fluida, un tessuto prezioso dai mille colori e faccettature.

Si tratta di Joshua (Josh) Morgenthau. Statunitense di nascita, primo cugino di Simon e Mose Jacobi, non sogna una brillante carriera in patria, ma conseguita la laurea in Medicina, parte per la Terra dei Padri con l’obiettivo di curare, insieme a tanti “matti come lui”, così l’Autore durante in un’intervista, ebrei e arabi. L’amore di Josh per quella Terra è totale; in particolare per Gerusalemme. Sono pagine dense di emozioni quelle dedicate a questa città, che non è solo e tanto una città, è qualcosa che è difficile, se non impossibile esprimere. Sono i medesimi sentimenti che l’A. ha provato quando vi è arrivato per la prima volta, come del resto chiunque vi si rechi con cuore aperto.

Il cielo è ciò che lo colpisce in primo luogo. A me succede lo stesso ogni volta.

Leggetevi le pagine, ne vale davvero la pena.

“Il lembo di blu che si lasciava vedere tra le pietre [del Kotel, il cd. Muro del Pianto] era sgombro dalle nuvole e virava al viola scuro. Quello non era lo stesso cielo di Chicago. Il cielo di Gerusalemme non poteva accettare di essere il cielo di nessun altro posto al mondo.. Era stato creato per essere solo quello che era e nient’altro. E sotto quel cielo lui sarebbe rimasto, per sempre….”

Non è un caso che la copertina del romanzo riporti l’immagine dell’entrata in Gerusalemme l’11 dicembre 1917 delle truppe britanniche, guidate dal Generale Edmund Allenby; ingresso a piedi per rispetto della Città Santa.

Così annota il Generale:“…Entrai nella città ufficialmente a mezzogiorno, l’11 dicembre, con alcuni uomini del mio staff, i comandanti del distaccamento francese e italiano, i capi delle missioni politiche, gli attachés militari in Francia, Italia ed America… La processione era tutta quanta a piedi, ed alla porta di Jaffa venni ricevuto dalle guardie in rappresentanza di Inghilterra, Scozia, Irlanda, Galles, Australia, Nuova Zelanda, India, Francia e Italia. La popolazione mi ricevette con gioia”.

Tra parentesi, l’ho imparato dall’Autore: al tempo dell’impero ottomano la città principale della Palestina non era Gerusalemme, bensì Jaffa. Gerusalemme era un borgo negletto, non amato certo dai dominatori.

 

Trama avvincente, articolata: non puoi distrarti; del resto, per nulla al mondo lo faresti.

Un romanzo mondo, come afferma Rubini, in cui immergerti, dopo una sorta di iniziale ubriacatura, una gioia dalla quale non vuoi più uscire.

Tante vicende; figure che sembrerebbero di second’ordine, ma capaci di entrarti nel cuore: ne trovi a volontà..Particolari profondamente umani, come quello della famiglia di Berdichev che si sforza in tempo di guerra di condurre un’esistenza normale, anche nei minimi particolari, insomma di non smarrire per strada il quotidiano, prezioso.

L’angoscia terribile per il conflitto non lascia mai gli adulti, ma non se ne parla, si fa di tutto per nasconderla, specie ai bambini.

Se ben ricordo, l’A., in un’intervista, aveva confessato che il suo progetto iniziale era assai diverso da quello realizzato in seguito e che  sta via via prendendo vita: i personaggi e le loro storie gli hanno, in qualche modo preso  la mano.

Quando ti trovi a tu per tu con vicende palpitanti come queste narrate e conosci di persona il loro creatore, ti emozioni.

E poi c’è il rigore storico, espressione di uno studio costato, immagino, durissima fatica allo scrittore; un sacrificio peraltro del quale è valsa la pena.

Sull’altro versante, chi legge desidera approfondire le diverse tematiche andando alla ricerca di testi che le trattino in modo  serio e competente.

Come ho scritto sopra, i personaggi di fantasia -ma quanto mai realistici e verosimili- interagiscono con figure reali. Puoi imbatterti in Aaron Aaronsohn, come in Joseph Trumpeldor o in Zeev Jabotinski…..

Pagine ricche di fascino sono dedicate a Ernest….E chi sarà mai questo Ernest, che si trova a combattere sul Piave?

Ognuno di costoro è un universo ricco di sfaccettature.

Quando, ahimé, arrivi all’ultima pagina, deponi il testo sullo scaffale della libreria, sia pure con notevole riluttanza. Ti dedichi ad altre letture.

Ma riprenderai il romanzo tra qualche tempo, con rinnovato entusiasmo.

Questo mi sono ripromessa.

Dati i contesti e l’epoca storica in cui si svolgono i fatti, attendo con una certa impazienza l’uscita della “terza parte”, cui Gabriele Rubini sta lavorando da tempo; e che non sarà, lo sappiamo per certo, l’ultima. Coraggio, amici lettori!

Ecco un’istantanea dell’Autore, scatta in occasione di una delle numerose presentazioni.

 

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Piccola annotazione. Se qualcuno, rispettandone l’anima, traesse da Attraverso il fuoco una sceneggiatura, per il cinema o magari la televisione, avremmo un gioiello letterario da far conoscere al grande pubblico.

D’altronde, a cominciare dai decenni passati, il piccolo schermo ci ha fatto conoscere autentici capolavori

 

Vale la pena concludere questo commento con le riflessioni di Leon Tolstoj nel 1891

“Che cosa è un ebreo?

Questa domanda non è così strana come può sembrare a prima vista. Osserviamo questa creatura libera che è stata isolata e oppressa, calpestata,bruciata ed annegata da tutti i leader e da tutte le nazioni, ma che è comunque viva e vegeta a dispetto di tutti.

Che cosa rappresenta l’Ebreo, colui che non ha mai ceduto alle tentazioni offertegli sia dai suoi oppressori che dai suoi persecutori, con l’obiettivo che rinunciasse alla propria religione ed abbandonasse la fede dei suoi padri? Un Ebreo è un essere sacro. Un essere che possiede il fuoco eterno del cielo e con esso illumina la terra e coloro che ci vivono. E’ la primavera e la fonte da cui il resto delle nazioni hanno tratto le loro religioni e credenze”.

 

[1] Edizioni World Hub Press, Bologna, Collana High Concept Novel, Luglio 2011, pp. 650; v. mio commento su questo sito, Febbraio 2012.

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