(Titolo originale: BIN CHAVERIM ; BETWEEN FRIENDS, 2012)
Trad. Elena Loewenthal, Ed. Feltrinelli, collana I narratori, Milano, Giugno 2012, pp. 131, €. 14,00
“Il kibbutz, pensava, cambia forse un po’ le regole sociali, ma la natura umana non la cambia, e questa natura non è affatto semplice” “Un aroma fresco di terra bagnata e di foglie dilavate dalla polvere ha saturato l’aria. La pioggia ha sciacquato i tetti rossi…”
Due mani maschili, consumate dall’età e dal lavoro, che parlano di vita vissuta, reggono una tazza variopinta, colma di una bevanda, forse caffè.
E’ l’immagine posta in copertina dell’edizione italiana di Tra amici, l’ultimo libro di Amos Oz, or ora pubblicato da Feltrinelli; immagine che bene interpreta il contenuto dell’opera.
Il contesto è un kibbutz dal nome di fantasia, Yekhat, durante gli anni Cinquanta del Novecento. Siamo ai primordi dalla (ri)costituzione dello Stato, l’ambiente primigenio che ritrovi nei filmati dell’epoca, con istantanee talora colorate, talora in bianco e nero.
La narrazione è scandita da otto racconti, brevi e intensi; tracciati con la precisione di chi ha vissuto in quell’ambiente per tanti anni, ne ha condivide gli ideali e può quindi permettersi di fornire preziosi consigli per il futuro. In una recente intervista ad Antonella Barina, apparsa su La Repubblica[1] lo scrittore osserva che “Se mi guardo intorno, in Israele come in Italia, mi sento circondato da gente che lavora oltre il necessario, per accumulare più denaro di quel che serve, acquistare cose che non desidera davvero…” E peraltro aggiunge, con il consueto, intrigante filo di ironia: “L’attuale crisi economica pare mettere in crisi questo modello fatto di danaro, competizione, arrivismo”. In riferimento al suo Paese, egli propone di ritornare alla formula del kibbutz, in una versione più soft e tollerante rispetto al passato: piccole cellule sociali improntate alla solidarietà, così come io stessa le vidi realizzate nel mio viaggio della Primavera 2010. [2]
“Il kibbutz è una sorta di laboratorio dove tutto è concentrato: amore, morte solitudine, nostalgia, desiderio, desolazione. E mi dà spunto per raccontare l’umanità: quel continuo tendere gli uni verso gli altri…senza mai riuscire a toccarsi. E’ dal kibbutz che attinge la mia scrittura”.
Oz critica con animo sereno quell’ambiente talora soffocante, poiché i padri fondatori avevano ambizioni irrealistiche; un sogno meraviglioso tentato peraltro senza gulag e polizia.
Sogno che venne meno perché “ il loro sguardo [dei padri fondatori] fissava solo le stelle”.
Brevi tratti di penna, essenziali ed efficaci. Forse questa breve opera -come altre minori, nate negli ultimi anni- ha carattere preparatorio di un lavoro più impegnativo. Tempo fa, tra le righe di un articolo a lui dedicato, mi parve di cogliere un accenno ad un seguito di Una storia di amore e di tenebra. Chissà…
A somiglianza di Scene dalle vita di un villaggio, [3] i protagonisti di un racconto li ritrovi come figure di secondo piano in un altro. Tuttavia qui il clima è più disteso, tranquillo; non rinvieni, al contrario di quanto accade a Tel Ilan, quell’inquietudine rafforzata dal fatto che non è facile incontrare per strada gli abitanti del villaggio. Non vi sono segreti sepolti in cantina o nell’anima, né enigmi mai chiariti, manca la dimensione tragica dell’opera precedente, pur occhieggiando dietro l’angolo il dramma.
Siamo in un kibbutz dove una certa solidarietà è comunque assicurata.
Qua e là accenti colmi di tenerezza, come il gesto affettuoso di un ragazzo sedicenne verso un cagnolino che muore investito da un autobus: “Moshe si è alzato, ha preso in braccio quel cadaverino ancora caldo e, per evitare che altre macchine lo calpestassero, lo ha deposto ai piedi di un eucalipto…nei pressi dell’incrocio”.
Una preziosità linguistica che si esprime in certe descrizioni per così dire “taglienti”, come nella scena, fulminante nella sua sintetica efficacia: “Le vedove hanno continuato a sbucciare e tagliare in perfetto silenzio, i due coltelli luccicavano”.
Vediamo alcuni personaggi e motivi dominanti.
Zvi Provizor è uno scapolo sui 55 anni (“basso di statura e con un tic agli occhi”), scrupoloso ed esperto giardiniere la cui passione è dare al prossimo brutte notizie: aerei precipitati, incidenti in miniere, traghetti rovesciati e via catastrofizzando. E’ soprannominato “L’Angelo della Morte” e tenuto alla larga da tutti. L’unica persona che, per qualche tempo, gli sta vicina è un altro cuore solitario: Luna Blank, vedova di un riservista, insegnante; anzi il “buffone” del kibbutz, il tipo immancabile, sempre pronto nel coniare battute a proposito e a sproposito (cioè Roni Shindlin), sentenzia che “L’Angelo della Morte era calato sulla….Vedova Nera”. Ma la tenue amicizia tra Zvi e Luna non è destinata a durare.
Curioso è lo strano rapporto tra due donne, Ariela e Osnat, la prima delle quali ha soffiato il marito all’altra, ma vorrebbe esserne perdonata.
Ci sono poi i tormenti paterni sofferti dal protagonista del brano che dà il titolo al libro, Tra Amici. Nahum Asherov, elettricista, vedovo, non riesce a farsi una ragione della storia d’amore intrecciata tra la figlia diciottenne Edna e il suo insegnante di storia, il carismatico David Dagan, uomo di mezza età, non nuovo ad avventure femminili: “David Dagan era tra i fondatori del kibbutz….sempre ironico…marxista convinto…ma amava la musica sinagogale…” Sulla figura di Dagan l’Autore non risparmia un certo sarcasmo.
Il sedicenne Moshe Yashar, orfano di madre, malinconico ed occhialuto, va a trovare spesso il padre ricoverato in un ospedale di città. Pur tentato di ribellarsi all’ambiente un po’ costrittivo del kibbutz, finisce per trovarvi la sua vera casa.
Le problematiche familiari di Roni, il buffone (apparente) della compagnia, e di sua moglie Leah (tipica militante sionista, mai sfiorata da dubbi di sorta) riguardano il loro piccolo Yuval, 5 anni; un bambino timido, spesso vessato dai coetanei, con problemi di adattamento soprattutto per quanto concerne le notti da trascorrere, anziché con la rassicurante compagnia dei genitori, nella cosiddetta “Casa dei Bambini”; istituzione, cara alla mistica sionista più “dura e pura”, applicata, a suo tempo, in diverse realtà kibbutzistiche (ma non in tutte). Si tratta del luogo dove i figli dei membri della comunità venivano allevati fin dai primi mesi di vita e in cui abitavano fino all’adolescenza; nella Casa i ragazzi non solo andavano a scuola e trascorrevano il tempo studiando e giocando, ma vi dormivano e consumavano i pasti tutti insieme. Questa utopistica esperienza, una sorta di versione moderna dell’educazione di infanzia e gioventù nell’antica Sparta, per formare le nuove generazioni verso valori comunitari, ritengo si sia da tempo conclusa, almeno secondo le modalità e prospettive elaborate all’inizio.
In compenso non fatico a pensare che, per tanti ragazzi -e magari genitori-, in definitiva spesso detta situazione si rivelasse una sorta di…incubo.
Yoav Carni, il segretario, oculato e discreto, padre di due gemelli, è sempre disponibile ad ogni richiesta, dopo un’iniziale atteggiamento di ligia conformità alle “regole”; sua moglie Dana non gradisce affatto quella vita e vorrebbe trasferirsi altrove. Yoav è attratto dalla bella Nina Serota, capelli corti, occhi verdi, spirito ribelle e…..un marito insopportabile.
Grazie a Yoav emerge un altro tema, la femminilità. Egli infatti, non senza fatica, ammette tra sé e sé che “il sistema del kibbutz per sua stessa natura faceva alle donne un torto irreparabile: parità assoluta a patto di rinunciare alla propria femminilità: guai truccarsi o mettersi il rossetto!”
Il giovane Yotam, figlio della vedova Helena, non ne può più dell’ambiente in cui è cresciuto. Vorrebbe raggiungere in Italia uno zio materno e studiare là, ma si scontra con la ferrea logica del kibbutz -fondata in primo luogo sulle esigenze della comunità- e con….le proprie indecisioni.
Cerca allora di leggere in se stesso rifugiandosi in un villaggio arabo abbandonato durante la Guerra del 1948 e diroccato, Dir Ajlun.
Cerca allora di leggere in se stesso rifugiandosi in un villaggio arabo abbandonato durante la Guerra del 1948 e diroccato, Dir Ajlun.
Con delicato affetto Amos Oz ci racconta gli ultimi giorni di un calzolaio idealista e anarchico, Martin Wandberg, olandese d’origine, amante dell’esperanto, lingua nella quale l’uomo vede la chiave di volta per una pace universale.
Martin vorrebbe cambiare il mondo: è infatti un convinto sostenitore dell’abolizione degli Stati nazionali, in favore di un unico mondo unito, parlante la medesima lingua, appunto l’esperanto. “Se tutti i governi sono superflui, il nostro lo è doppiamente….”, argomenta ad un certo punto poiché, a ben leggere la storia del Popolo Ebraico, esso ha vissuto per secoli senza alcuna Autorità centrale. E un governo, qualunque governo, è in grado solo di sciupare la natura buona di cui è dotata ogni persona allorché viene al mondo. Un particolare, che ho conosciuto leggendo un articolo di David Meghnagi: Ludwik Zamenhof (1859/1917), ebreo polacco di origine lituana, il “padre” dell’esperanto, fu un militante sionista e, non a caso, scelse, come denominazione della lingua da lui ideata per unire i popoli, un termine ispirato all’inno nazionale di Israele, la Hatikvah (Speranza).
Gli altri abitanti del kibbutz considerano Martin un eccentrico, ma nutrono per lui una certa simpatia.
Sopra ogni sentimento si percepisce il sottile rimpianto per un’epoca d’oro, forse esistita davvero, comunque mitizzata: quando, pur non mancando i dissidi, tuttavia “ogni sera ci sedevamo…a cantare canzoni entusiastiche e…nostalgiche sino a notte fonda. La notte andavamo a dormire sotto la stessa tenda e se qualcuno parlava nel sonno lo sentivamo tutti. Oggi tutti abitano in case private e si piantano le unghie addosso” riflette un personaggio, per concludere più avanti, con amarezza: “….L’aria è piena di cattiveria”.
Al di là dei sogni, emergono venature di malinconia, lucida consapevolezza della natura umana, pensieri e sentimenti contraddittori; compresa, tuttavia, a consolare la solitudine palpabile e le tristi considerazioni, una certa, composta, solidarietà.