A cura di Wlodek Goldkorn
(Titolo originale Getto walczy. Udzial Bundu w obronie getta warszawskiego, Nakladem C.K. Bundu, Warszawa, 1945; Casa Editrice Giuntina, Firenze, collana Schulim Vogelmann, 2012, pp. 114, €.12,00)
“Il buon bundista ha…il dovere di chiedersi sempre se il partito sia sulla giusta strada”
“Gli scheletri, ossuti, sono accatastati uno sopra l’altro, e sull’acciottolato le teste rimbalzano, battono l’una contro l’altra e contro le assi dei carri”
Meritoria iniziativa della Casa Editrice Giuntina. Nelle scorse settimane è infatti uscito, con la collana Schulim Vogelmann, Il ghetto di Varsavia lotta, di Marek Edelman (nato a Homel, Polonia, l’1 gennaio 1919, morto a Varsavia il 2 ottobre 2009), il leggendario vicecomandante del gruppo di insorti -poco più di 200 giovani e ragazze ebrei, tutti all’incirca sui vent’anni- i quali, dal 19 aprile al 9 maggio 1943, primi in Europa, seppero tener testa per tre settimane ai Tedeschi che avevano invaso il loro Paese. Il breve testo, scritto a guerra appena conclusa -la diffusione del quale in Occidente è stata, almeno per i primi tempi, abbastanza travagliata-, nasce da chi aveva vissuto in prima persona quell’eroica epopea, impegnato, anche a costo della vita, per salvare l’onore e la dignità di una città e di un popolo dai nazisti decisi ad attuare il loro programma di sterminio.
Nell’ampia introduzione -un autentico saggio storico politico, ma pure il racconto di una vicenda umana- lo scrittore e giornalista Wlodek Goldkorn, amico di Edelman, rileva come l’opera debba essere, più che mai, letta tenendo conto del contesto in cui è stata scritta. La guerra era appena terminata ed era stata uccisa la maggior parte dei militanti del Bund (cioè, in tedesco e in yiddish: federazione, unione), il mitico partito socialista dei lavoratori ebrei, non sionista, vittima pure del totalitarismo sovietico. Due parole su questa organizzazione. Chiamata in modo completo Unione generale dei lavoratori della Lituania, Polonia e Russia (in lingua yiddish: Algemeyner Yidisher Arbeter Bund in Lite, Poyln un Rusland) era stata costituita a Vilnius nell’ottobre 1897 (stessa data del Primo Congresso Sionista, coincidenze della storia), con lo scopo di unire sotto un’unica bandiera socialista tutti i lavoratori ebrei dell’Impero russo. Il Bund avrà una storia assai travagliata, già fin dall’epoca di Lenin, dal quale è dichiarato fuori legge. I suoi aderenti sono stati tra i protagonisti dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia, grazie al gruppo, di cui lo stesso Edelman è stato cofondatore, denominato ZOB (Zydowska Organizacja Bojowa).
Nel 1945 Marek (ventiseienne all’epoca) sente forte la necessità di far conoscere ciò che è accaduto, in primo luogo per riscattare la memoria dei suoi eroici compagni –tra i quali il celebre Mordechai Anielewicz, il capo della rivolta e militante sionista, suicidatosi l’8 maggio 1943 nel bunker del comando in Via Mila n. 18, per non cadere nelle mani dei tedeschi- e per costruire una sorta di programma per il futuro.
Il primo problema da affrontare è quello della PAROLA. All’epoca, infatti, come sottolinea Goldkorn, non esisteva alcun canone, alcuna…regola per narrare l’inenarrabile; non esisteva infatti il termine “Olocausto”, né, meno che mai, quello, più appropriato, di Shoah.
Il giovane (ex) vice-comandante è tra i primi ad avventurarsi in quel tragico deserto. La narrazione che ci consegna è in presa diretta, una testimonianza scabra, talora durissima, ricca di spunti e di notizie.
Per preparare il lettore Goldkorn inquadra e racconta in modo efficace ed esaustivo la vicenda esistenziale e politica del suo eroe, sopravvissuto dopo tremende peripezie alla tragedia del Ghetto, indi unitosi alla Resistenza polacca. Dopo la guerra egli diviene uno stimato medico, grazie, in primo luogo, ad Alina Margolis (divenuta poi sua moglie), conosciuta nei giorni più difficili, figlia di un medico illustre e studentessa in medicina, che lo persuade ad intraprendere, a sua volta, tale strada [1].
Egli è sempre rimasto, forte e deciso, nella sua Polonia, unica Patria; nonostante quanto era successo, in barba all’antisemitismo feroce che vi ha sempre regnato e al totalitarismo comunista. E poi la militanza in Solidarnosc; i rapporti, per così dire, sempre problematici con lo Stato di Israele, eco dei contrasti politici -che tuttavia non offuscarono la profonda amicizia che legò queste persone- tra il bundista Edelman e i compagni di lotta sionisti, come Mordechai Anielewicz, nonché i due coniugi Icchak Cukierman (“Antek”) e Zivia Lubetkin (“Celina”) [2].
E non vengono sottaciuti alcuni episodi scabrosi di quell’esperienza vissuta nella primavera 1943, inevitabili in un contesto da inferno dantesco, come il non aver accolto, il fatidico 9 maggio, nel suo gruppo in fuga, alcune ragazze che, nel ghetto, facevano le prostitute, ma pure assistevano i giovani ribelli feriti. Una decisione, quella di Marek, dovuta a malsano moralismo? No, com’egli confesserà a Wlodek pochi anni prima di morire: “Sai…era una situazione strana. Io non me la sono sentita di portare con me persone che non conoscevo da sempre, persone che in fondo erano delle estranee. Loro con non noi non c’entravano niente”.
Il racconto del protagonista è fatto in terza persona, particolare che dona alla narrazione una forte intensità epica. Il “Guardiano delle tombe” , così amava definirsi.
Egli ci introduce in una Varsavia abbandonata dalla classe dirigente dopo l’invasione tedesca (settembre 1939). In particolare i 300.000 abitanti Ebrei si trovano senza un punto di riferimento, senza una guida. Riesce quindi facile ai nazisti mettere in opera il loro piano di conquista e distruzione.
Nel novembre 1940 è istituito dai Tedeschi il Ghetto, dove viene rinchiusa non solo tutta la popolazione ebraica della capitale, ma pure migliaia di correligionari ivi concentrate da altri luoghi.
In breve la fanno da padroni la fame, i maltrattamenti, le malattie -a cominciare dal tifo petecchiale, ma non solo- la morte, in altissima percentuale; al punto che, alla vigilia dell’estate 1941, si registra una media di 2.000 decessi al mese. E siamo a ridosso di quanto, poco dopo, nel gennaio 1942 (Conferenza di Wannsee), verrà definitivamente pianificato: le modalità operative dello Sterminio degli Ebrei d’Europa.
La comune popolazione ebraica non si rende conto all’inizio di ciò che si sta preparando per lei. Tuttavia: il Bund, ben presente, svolge la sua instancabile attività clandestina, incredibile a pensarci; i suoi militanti danno vita ad un’organizzazione comune di lotta con i gruppo filosionisti; mentre le condizioni nel ghetto peggiorano di giorno in giorno. Fucilazioni, deportazioni e un inesorabile nodo scorsoio che si stringe sempre più attorno alla popolazione.
L’Autore, nello stile sincero di chi non nasconde nulla, rivolge gravi accuse di complicità alla “Polizia ebraica”, incaricata dai nazisti di mantenere “l’ordine”; ma ci dona pure intensi ritratti dei compagni caduti, ai quali, al termine del libro rende omaggio.
E’ citato pure Janusz Korczak. Nato a Varsavia il 22 luglio 1878 da famiglia ebraica, ucciso a Treblinka il 6 agosto 1942, è stato uno dei fondatori della moderna Pedagogia [3].
Medico, scrittore, studioso e uomo di altissima spiritualità (il suo vero nome era Henrik Goldzmit), portatore di una visione pedagogica avanzatissima, nonostante i solleciti dei suoi conoscenti ed estimatori “gentili”, non volle abbandonare i duecento bambini ebrei ospiti della Casa dell’Orfano che egli dirigeva a Varsavia da trent’anni e li seguì nel destino di morte a Treblinka.
In un recente articolo di Laura Quercioli Mincer, apparso su L’Unione Informa del 27 luglio u.s., leggo che Korczak, a partire dagli anni Trenta, sognava di trasferirsi in Palestina, almeno sei mesi all’anno per potere, da laggiù, “aver nostalgia della Polonia” (!). In preparazione del viaggio egli scrive ad un ex allievo queste perspicue (e profetiche) parole: “Caro Jozef, intorno al bambino si dipanano le maggiori menzogne della nostra vita. Gli uomini oggi vaneggiano di eterna giovinezza, se non perfino di immortalità. Ciò è già parte della nostra psiche. E perciò il bambino/intruso sembra infastidire, sospingere verso la vecchiaia e la tomba. Come altrimenti spiegare le ingiustizie che gli si fanno? Se c’è un Paese dove il bambino può confidare con sincerità i propri sogni ed inquietudini, le nostalgie e le pene, questo è forse la Palestina. E’ qui che dovrebbe sorgere il monumento all’Orfano Ignoto”.
L’eroica resistenza del Combattenti del Ghetto mette i Tedeschi in seria difficoltà. Non era mai successo che questi ultimi si ritirassero: attaccano casa per casa, certo, ma i cecchini ebrei sanno rispondere. Anzi, ad un certo punto, gl’invasori giungono addirittura -quale onta!- a sventolare bandiera bianca per poter evacuare i feriti. I duri scontri avvengono nel buio della notte, poiché di giorno il Ghetto è un autentico deserto.
La battaglia dura fino all’8 maggio quando le forze soverchianti tedesche hanno la meglio, il Ghetto è dato alle fiamme ed una quarantina di superstiti, tra cui Marek, fuggono, con immenso sforzo e rischio, attraverso le fogne della città.
Le immagini che ho riportato sopra -la fucilazione di alcuni abitanti e le rovine del Ghetto, con la Chiesa di S. Agostino sullo sfondo- sono opera dell’immortale Robert Capa, grande testimone del ‘900, non un semplice, pur abile, fotografo.Consiglio a chiunque abbia sensibilità umana e storica la lettura di questa testimonianza viva e coraggiosa: un testo definito dal suo Autore privo di “alcun valore letterario”, ma in realtà, come afferma all’inizio la scrittrice polacca Zofia Nalkowska (che lo ebbe a disposizione di prima mano), un “documento autentico che ha come tema la forza collettiva dello spirito”.
[1] Vedi, a questo proposito, l’emozionante Arrivare prima del Signore Iddio, di Hanna KRALL, uscito nel 1977 nell’originale polacco e pubblicato da Giuntina nel 2010.
[2] Cukierman e Lubetkin, dopo il conflitto, si trasferirono in Israele dove fondarono (1949) il kibbutz Lohamei Hagetaot, cioè il kibbutz dei Combattenti del Ghetto, che ha un notevole centro studi sulla Shoah, secondo per rilevanza solo allo Yad Vashem di Gerusalemme. Va sottolineato che il centro è stato la prima istituzione consacrata alla memoria della Shoah e della Resistenza ebraica.
La coppia, poi, rese una vibrante testimonianza nel 1961 in occasione del processo Eichmann.
Una rilevante nota di vita: una loro nipote, Roni, ha onorato la memoria dei nonni divenendo, nel 2001 a 23 anni, la prima donna top gun dell’aviazione israeliana.
[3] V. mio Diario di Viaggio (in Israele) 2010, Decima Puntata.