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(Titolo originale L’homme à la bauta – Une enquête du rabbin Fix, Albin Michel Ed., 2002)
Trad. Vanna Lucattini Vogelmann, Ed. Giuntina, collana Diaspora, 2012, pp. 224, €.15,00
“L’Ebraismo è un sistema di libero pensiero e ognuno può pensare quello che vuole purché obbedisca alla Legge. Aggiungerei: purché studi la Legge”
Felici coincidenze. Quale città capofila della XIII Giornata Europea della Cultura Ebraica, in programma per il  2 settembre, è stata scelta Venezia.
E l’argomento è “L’umorismo ebraico”, un fenomeno culturale universale, non certo ristretto all’ambito in cui nasce.
L’ultima opera che la Casa Editrice Giuntina ci ha donato prima della pausa estiva è perfettamente in linea con la città e il tema.
Ne è autore Jacquot Grunewald. Nato a Strasburgo nel 1934, diplomatosi al Seminario Rabbinico di Parigi, è un apprezzato studioso del Talmud, giornalista e scrittore. Nel 1985 si è trasferito in Israele. Tra le numerose pubblicazioni (in francese) ricordiamo anzitutto i saggi:
 Sono pazzi questi Ebrei (1993); Shalom Gesù, lettera di un Rabbino di oggi al Rabbi di Nazareth (2000); La fortuna di vivere a Gerusalemme (2007); nonché Il Talmud Steinsalz, in otto volumi (1994/1997) . E non mancano i romanzi.
Il fantasma del ghetto (datato 2002) è un insolito “giallo” in cui sono coniugate con ironia e sapienza: suspence, indispensabile ingrediente del genere, e cultura (ebraica, nella fattispecie); storia e studio dei caratteri e delle reazioni riservateci dai vari personaggi davanti a sorprendenti vicende in cui essi si trovano coinvolti, talora senza volerlo.
Ecco un riassunto della trama; una breve sintesi per lasciare al lettore il piacere della scoperta.
Febbraio 2001. Siamo, come detto, a Venezia, nella trattoria del Ghetto (gestita dai discepoli del Rebbe di Lubavitch) un venerdì sera, dunque all’entrata di Shabbat. All’esterno impazza il Carnevale.
All’improvviso una figura umana claudicante e dall’aspetto sinistro appare sulla soglia del locale suscitando terrore nei presenti, occupati a discutere di Torah tra “la frutta e lo strudel”; l’insolito personaggio indossa una bauta. Che cos’è la bauta? Si tratta di un travestimento, usato -sia da uomini che da donne- nei giorni di carnevale (ma utilizzato dai Veneziani pure in altre circostanze), costituito da: un velo nero o tabarro; un tricorno pure nero e una maschera, di solito bianca; nel nostro caso è di color giallo. Detta maschera ha il labbro superiore allargato e sporgente sotto un naso minuto, tale da cambiare il timbro della voce, rendendo quindi irriconoscibile chi la indossa.
Lo strano visitatore si allontana poco dopo nell’oscurità, lasciando dietro di sé domande e fantasiose ipotesi. Si tratta forse di un fantasma?
Il mattino dopo, su un bassorilievo (raffigurante scene di deportazione) posto accanto alla Sinagoga, qualcuno lascia un misterioso messaggio: certo Beniamino, figlio di Reuveni da Costa, afferma di essere  tornato al fine di  vendicarsi per le persecuzioni subite dalla sua famiglia.
E non è finita. Il mattino dopo, in una Piazza S. Marco gremita all’inverosimile da turisti e persone mascherate, un nobile francese travestito da cardinale, Alexander de Feltes (discendente del tristemente famoso inquisitore quattrocentesco Fra Bernardino da Feltre), viene assassinato con un pugnale. Pure in tale circostanza appare la misteriosa figura con la bauta.
Particolare indicativo: sul petto dell’ucciso, traforata dalla lama omicida, viene rinvenuta un’antica pergamena, che ripete il messaggio di vendetta lasciato sul bassorilievo accanto alla Sinagoga; vendetta giurata dalla famiglia da Costa nei confronti dei discendenti dell’Inquisitore, incallito cacciatore di Ebrei. Alla scena del delitto assiste spaventata Hanna Benveniste, 22 anni, francese, bella ragazza desiderosa di divertirsi, la quale, la sera precedente, si trovava alla trattoria del ghetto e dunque aveva visto il…fantasma. Per sovrammercato, poi, nell’antico cimitero degli Ebrei, viene trovata scoperchiata proprio la tomba di Da Costa (XVI secolo). Un enigma dopo l’altro.
Della vicenda si occupa Giuseppe Cairoli, maturo commissario di origine napoletana, alla vigilia del pensionamento, felice sposo e padre di tre figli, con un certo gusto per i manicaretti dolci.
Tra i suoi collaboratori spiccano Marcello Mattei, detto 007 per la valigetta “24 ore”  che porta sempre con sé, e l’anatomopatologo Dr. Parenzo, magrissimo e calvo, del quale vien spontaneo dire che ha proprio le phisique du rôle!
Dopo alcune indagini, in definitiva infruttuose, la polizia italiana archivia in fretta il caso, nonostante le insistenze dei Lubavitch. Questi, al contrario delle Autorità civili, sono ansiosi che tutta la storia sia chiarita, ma suscitano la diffidenza del commissario e dei suoi aiutanti per una loro presunta….suscettibilità.
Alcuni mesi dopo, tuttavia, a seguito dell’andata a riposo di Cairoli, la situazione cambia. Il successore, Aldo Biasini, convinto della matrice francese del delitto, vuole riaprire le indagini.
Persona razionale, ritiene di andare coi piedi di piombo nei confronti di … quella “gente là” (leggi i Lubavitch), facile, anche a suo dire, ad adontarsi, ma ritenuta, bontà sua, desiderosa di giustizia, poiché preme su di lui affinché giunga a formulare una spiegazione convincente di quanto è successo. Il giovane commissario ritiene che nessun fantasma sia responsabile del delitto, ma sa benissimo quanto la pubblica opinione sia credulona, pronta a vedere ovunque presenze occulte. Di questo sentire diffuso occorre perciò tener conto e vagliare ogni pista.
Biasini si mette in contatto con un collega e amico parigino, Pierre Boulay, incontrato un quindicennio prima ad un seminario, tenutosi presso l’Università di Milano, sui rapporti tra terrorismo internazionale ed organizzazioni mafiose in Europa.
Pierre non ha alcun desiderio di vedersi appioppare l’inchiesta su tale insolito omicidio; tanto più che, razionalista incallito ancor di più dell’italiano, non vuol nemmeno sentir parlare di spettri. Tuttavia Biasini riesce a persuadere Boulay a prendersi cura dell’indagine; complice una vicenda, per così dire, parentale in cui è coinvolto lo stesso Pierre, sia pure in modo indiretto. Il francese parrebbe trovare un grave ostacolo nel Giudice Yves Le Clec; tuttavia ogni resistenza nel magistrato cade di fronte alla prospettiva di far entrare in scena, come consigliere di lusso, un  suo amico, il Rabbino Théodor Fix.
La figura di Fix è descritta con notevole efficacia da Grunewald; forse si tratta di un  alter ego?
Studioso della Bibbia e del Talmud, Fix vive con la moglie Elisabeth (che, nel  nostro racconto, resta sullo sfondo) in un appartamento zeppo di libri, che medita e compulsa senza sosta; indossa d’estate e d’inverno l’immancabile papillon ed ha una smodata passione per il caffè.
La bevanda è infatti per lui un’autentica “terapia d’urgenza”, cui ricorre pure nei momenti più rischiosi. “Più vecchio di Le Clec, doveva aver passato la cinquantina. Magro, con una giacca di lana grigia, non sorrideva, ma i suoi occhi avevano l’aria di divertirsi senza tuttavia cancellare l’espressione autoritaria delle labbra”.
Tra Boulay e Fix, tra il Commissario laico e l’Ebreo religioso sì, ma forte ragionatore dalla logica stringente, s’ instaura un curioso rapporto di collaborazione, dialettico e fecondo.
Grazie al proprio naturale intuito, ad un certo coraggio fisico -dote non comune in un uomo di studio- e alla profonda conoscenza delle tecniche d’indagine talmudica, fondate su una logica stringente, Fix saprà risolvere il mistero ed assicurare il colpevole alla giustizia.
L’Autore ha saputo creare un intreccio affascinante e coinvolgente, anche per la sua originalità, dove non mancano allusioni, venate di ironia, all’antisemitismo sempre esistente, magari sottotraccia; nel nostro caso a farne le spese sono, per lo più, i Lubavitch. A questo proposito, ci imbattiamo anche nel racconto della storia del Golem fatta dal commissario Biasini al suo omologo francese; una narrazione magari approssimativa, ma simpatica e pittoresca.
Suggestiva è la ricostruzione degli ambienti: dalla stolta allegria del carnevale veneziano, alla Normandia, un ambiente placido e riservato, talora omertoso, ricco di sfumature e sapori, in grado, all’occorrenza, di diventare assai ostile. Ma ciò non spaventa certo il nostro rabbino/detective!
Un libro piacevole, adatto all’attuale periodo di vacanza,  ricco di spessore culturale e psicologico.
Nella biografia di Grunewald leggo che, nel 2005, egli ha scritto un romanzo dal titolo La tentazione del rabbino Fix, ambientato tra Parigi e Gerusalemme.
Ce ne auguriamo, per il prossimo futuro, la pubblicazione in Italia, magari con Giuntina e ancora nella splendida traduzione dal francese di Vanna Lucattini Vogelmann.