(Titolo originale Nofel michutz lezman; HaKibbutz Ha Meuchad, 2011)
Trad. Alessandra Shomroni, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., collana Scrittori italiani e stranieri, Ottobre 2012, pp. 183, €. 18,50
Trad. Alessandra Shomroni, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., collana Scrittori italiani e stranieri, Ottobre 2012, pp. 183, €. 18,50
“….Non piangemmo lui -in quel momento- piangemmo la melodia della vita precedente, la semplicità meravigliosa….” “Una dopo l’altra si spensero le parole, e fummo come una casa nella quale a poco a poco si spengono tutte le luci, finché cade una fosca quiete”
“La luce che proiettava -di vita, di vigore, di innocenza e di amore- era tanto intensa che continuerà a illuminarci anche dopo che l’astro che la produceva si è spento” (dall’Euologia funebre per il figlio Uri, 19 agosto 2006)
La perdita di un figlio, esperienza tremenda per un genitore. L’oscuro pensiero che questo possa accadere ti lambisce già nell’istante in cui, per la prima volta, ti mettono quel fagottino rosa tra le braccia; anzi talvolta ci pensi perfino nei nove mesi durante i quali lo custodisci dentro di te, attenta ad ogni circostanza, pronta ad allarmarti se tarda il saluto notturno delle piccole vibrazioni attraverso il ventre che ti dicono sono qui, ti voglio bene e stiamo vivendo insieme una grande avventura.
Quando i figli diventano adulti e sei felice poiché hanno intrapreso la “loro strada”, come si usa dire, in te può spuntare LA strana inquietudine quando meno te lo aspetti. Incancellabile, a mio avviso, ma cacciata in malo modo con crescente energia.
David Grossman, un Autore che ho sovente commentato su queste pagine [1], si cimenta col tema della Perdita per antonomasia in Caduto fuori dal tempo, pubblicato nei giorni scorsi in Italia, dopo l’uscita in Israele nel luglio 2011.
Non è la prima volta che David affronta l’argomento. A un cerbiatto somiglia il mio amore (2008), iniziato nel 2003, lo concluse, come sappiamo, dopo che il secondogenito ventunenne, Uri, venne ucciso, insieme a tre commilitoni, nella (inutile; o almeno rivelatasi non in grado di raggiungere risultati concreti per Israele) Seconda Guerra del Libano, il 12 agosto 2006, allorché il loro carro armato, impegnato nel tentativo di trarre in salvo un altro tank, fu colpito da un razzo lanciato dagli Hetzbollah.
Nell’ultima opera Grossman combatte la sua lotta contro la distruzione, l’oblio, la morte, non alla ricerca di un significato (pseudo) religioso di quanto è accaduto, ma per consegnare il Ricordo, la Memoria, alla Vita, sottraendoli al buio.
Il libro, non definibile come romanzo, è, come spiega il titolo, una “Storia a più voci”.
Il genere espressivo è assimilabile ad una rappresentazione teatrale su un palcoscenico scarno, dove i protagonisti, le “voci” appunto, confessano la loro storia, alternando prosa e versi.
L’Autore rivela che il libro stesso ha costruito la propria forma: dato l’argomento non era possibile seguire le normali regole di scrittura. I versi, la poesia salgono direttamente dall’intimo di ciascuno di noi e sono in grado, più della prosa, di mettersi in sintonia col silenzio, quel silenzio che consegue immediato ad un immenso dolore.
Nessuno dei personaggi porta un nome proprio, per sottolineare l’aspetto emblematico di quelle esperienze: in ciascuno di loro c’è una parte dello scrittore e di noi.
Una sera, all’improvviso, un Uomo, che ha perduto suo figlio cinque anni prima, si alza da tavola e decide di mettersi in cammino per andare a trovarlo “laggiù”. Invano sua moglie, turbata, cerca di dissuaderlo. Che cos’è quel “laggiù” cui egli allude? Forse il luogo in cui….è successo?
No. E dov’è? Nessuna risposta, accettabile per la comune logica.
L’Uomo, l’Uomo-che-cammina non sa che cosa troverà, lascia che siano le gambe e il cuore a guidarlo. Compie, per giorni e notti, attorno alla sua città -una città simbolica, anch’essa senza nome-, giri via via più larghi.
Egli non è solo: pian piano, come attratti da una calamita o, se preferite, da un insolito, pur non sinistro come l’originale, Pifferaio magico, gli si fanno compagni di strada alcune persone, diverse per età ed esperienze, ma uniti a lui e tra loro da una comune tragedia: tutti hanno perduto figli o figlie, chi a seguito della guerra, chi a causa di un incidente o di una malattia.
Ecco la Riparatrice delle reti da pesca, che non pronuncia una parola da più di nove anni: “da allora”, cioè. “Due fiocchi umani eravamo, un bimbo e sua madre, nello spazio del mondo abbiamo volato sei anni…” riflette.
Una coppia, il Ciabattino e la Levatrice, ricordano la loro bambina morta, Lilli. La donna non riesce a pronunciare frasi in modo completo, il suo parlare è un balbettio. E il marito tiene ancora tra le labbra dieci chiodi, tanti quante erano le piccole dita della figlioletta che usava baciare.
Anche il Duca, padrone di quelle terre, soffre lo stesso dolore, come lo Scriba, cui lo stesso Duca ha dato l’incarico di scrivere le Cronache cittadine, non mancando tuttavia di riservargli frasi sarcastiche poiché questi si limiterebbe a registrare i sentimenti altrui, senza alcun coinvolgimento personale; ma in realtà ciò non è affatto vero.
Poi c’è il severo Vecchio Maestro di Aritmetica, che scrive la soluzione dei problemi sui muri delle case.
Con la sola propria tormentata anima li accompagna, poiché non può muoversi dalla sua stanza, Centauro, la parte inferiore del corpo trasformata, col passare del tempo, in scrivania.
Si tratta di uno scrittore il quale, da quindici anni, vive circondato dagli oggetti del figlio morto (“una culla di legno…una nave giocattolo…un cappello da cow boy….”); il suo unico desiderio è dar forma di parole a quella tragedia, ma non vi riesce, soverchiato dal proprio rabbioso dolore.
Il cammino prosegue, le persone rievocano con frasi toccanti la vita coi figli, spezzatasi in quell’istante. Un corpo giovanile vigoroso, la risata di un bambino, l’odore della pelle dopo una giornata sportiva all’aria aperta, il profumo della salsedine tra i capelli, le lenzuola di un ragazzo innamorato…
Capita che, nel ricordare, si sentano in colpa o per averli, a suo tempo, puniti o per continuare, loro malgrado, a vivere. “E’ morto in agosto” confessa il Duca “e quando quel mese finisce io…penso: come posso passare a settembre mentre lui rimane in agosto?” Come Uri.
Provano pure a dialogare l’una con l’altra, quelle persone, talvolta comprendendosi, talvolta polemizzando dentro di sé e tra loro, magari in modo sterile, la sterilità del dolore indicibile e a lungo incomunicabile.
Arriveranno nel luogo / non luogo che cercano, come una comunità di viandanti, in un’umanità ritrovata, non più estranei, ma vicini i quali, nella loro lotta contro la distruzione e la cancellazione, hanno saputo trovare un significato e una ragione di vita a quella “terra di esilio”.
Essi hanno saputo portare il dolore vissuto di genitori, anche a costo di passare attraverso istanti che rasentano la follia, come quando appare loro, di colpo, un misterioso…muro in pietra sulla parete del quale a ciascuno pare di intravvedere scolpiti i lineamenti dei figli amati.
“E lui, l’uomo che cammina, si alza e ci guarda, come se, solo ora, per la prima volta, aprisse gli occhi su di noi, azzurri, luminosi, buoni…”.
A tre anni e mezzo di distanza dalla perdita di Uri, racconta David nel suo inglese fluido, privo di sbavature, per me familiare -abbiamo voluto essere alla presentazione del libro, avvenuta a Modena il 30 ottobre presso il Forum Guido Monzani, davanti ad un foltissimo pubblico [2]-, sentivo l’insopprimibile esigenza di trovare le parole per esprimere il mio stato d’animo, ma non ci riuscivo. Quando non trovi le parole, reagisci in modo…fisico: ti muovi con frenesia, decidi di metterti in viaggio, cammini e cammini…perché, dentro di te, senti, intuisci che pian piano le parole arriveranno, proprio dal tuo reagire. L’immobilità conseguenza del dolore non può vincere, il silenzio non può farla da padrone.
Così è per l’Uomo-che-cammina, figura nella quale, più che in altre, si identifica l’Autore.
Così è stato per David. La reazione all’immobilità della morte, al silenzio è avvenuta attraverso la scrittura: “…la scrittura mi dà l’impulso per ritornare a vivere questa vita; vita che, in un certo senso, mi è stata portata via”.
Piene di commovente lirismo -chi è genitore si sente coinvolto nelle viscere- sono le pagine in cui egli riflette sulla nostalgia insopprimibile del figlio, intrecciata col gioco crudele della variabile tempo: “..Anche la nostalgia di te è imprigionata nel tempo. Il dolore si fa antico con gli anni, ma ci sono giorni in cui è nuovo, fresco….Tu non ci sei più. Sei fuori dal tempo. Una volta un uomo….mi ha detto che, nella sua lingua, chi muore in guerra è chiamato ‘caduto’. E tu sei così: sei caduto fuori dal tempo…..il tempo in cui mi trovo io ti scorre davanti…..Ti vedo, ma non ti tocco. E neppure ti sento coi sensori del mio tempo…”.
Il libro ha comportato due anni e passa di intenso lavoro di cammino e riflessione, dall’aprile 2009 al maggio 2011, come possiamo leggere in calce al testo. Due anni duranti i quali coloro che gli stanno vicino (familiari, amici) si son chiesti spesso dove lo avrebbe portato quel Viaggio.
Quello del Viaggio, del resto, eco del biblico Esodo, è tema caro a Grossman, come ad altri scrittori di Israele.
Suggestivo filone della sua poetica, collegato al precedente, è l’Ostacolo rappresentato da una difficile situazione con cui i protagonisti devono confrontarsi.
Alcuni esempi, a caso. In Vedi alla voce amore, il piccolo Momik fa i conti con insoliti personaggi che di colpo popolano il suo mondo (i sopravvissuti alla Shoah), provenienti da “quel Paese lì”, dove abita “la Belva nazista”.
Il Libro della grammatica interiore ci parla del tredicenne Aharon, il quale non vuole crescere e si rifugia in un mondo interiore in cui tutto è limpido, immutabile. Lo scrittore rappresenta il drammatico e non sufficientemente considerato (da genitori ed educatori) passaggio dall’infanzia all’adolescenza, metafora di una società forte in apparenza, ma, in realtà, vulnerabile.
Romanzo epistolare in cui il “Corpo” si fa “Parola” e la “Parola” “Corpo”, esaltata nel suo alto potere erotico, le angosce e i tormenti: Che tu sia per me il coltello; Yair e Miriam.
Nel “Cerbiatto”, il cui titolo originale, assai più rivelatore di quello italiano, è Una donna in fuga da una notizia, una madre, Orah, non riesce a sopportare il pensiero che gli “ufficiali civici” suonino alla sua porta per annunciarle che il figlio ventenne Ofer, impegnato in una difficile missione militare, è stato ucciso. Ella allora fugge di casa e si mette in cammino verso il nord del Paese per compiere proprio quel viaggio progettato col ragazzo qualche tempo prima. Ad accompagnarla -dapprima controvoglia, poi sempre più coinvolto- il padre di Ofer, Adam.
A mio parere è l’opera più intensa di Grossman, uno di quei libri che ti capita spesso di riprendere in mano.
La paura, il turbamento iniziali che il piccolo Ben prova allorché la mamma gli dice che egli è “unico al mondo”. Ma sarà proprio la rivelazione della unicità di ciascuno a mostrare al bambino la diversità degli esseri viventi osservando la natura, insieme con la madre, mano nella mano, durante una passeggiata. Unicità e varietà insieme, suggellate da L’abbraccio, piccola, grande favola.
In Caduto fuori dal tempo il motivo è come resistere di fronte alla tragedia della morte di un figlio, evento assurdo contro natura, perfino in Israele, quello strano Paese in cui spesso sono i genitori a seppellire i figli; e dove c’è una parola, un aggettivo inesistente ritengo in altre lingue (come la nostra), che sta ad indicare chi ha perduto un figlio: la parola è shakul e la famiglia che porta simile dolore è detta mishpaha shakulà.
In un ideale colloquio col suo ragazzo l’Uomo-che-cammina gli confida di voler imparare “a separare i ricordi dal dolore” per essergli accanto ancora di più, ma senza aver paura ogni volta “del bruciore dei ricordi”; per potersi allontanare “solo quel tanto necessario perché il petto possa allargarsi in un respiro completo”.
“Ho voluto comprendere il mio cambiamento” conclude lo scrittore, rivolto a noi, ma anzitutto a se stesso. “Per questo ho deciso di andare ‘laggiù’ dove la Vita tocca la Morte. E quando tocchi nel profondo la Morte comprendi quanto miracolo ci sia nella Vita e come questo immenso Dolore possa creare in te una nuova Speranza”.
[1] L’ultimo incontro è La Grammatica interiore della scrittura, su questo sito, Giugno 2012, con riferimento, in nota, a miei precedenti contributi sull’Autore israeliano. Mie Recensioni al presente libro sono leggibili (e/o lo saranno nei prossimi giorni) anche su: http://www.lastambergadeilettori.com/ ; http://www.personaedanno.it; www.sololibri.net; www.lankelot.eu
[2] Caduto fuori dal tempo è stato presentato a Genova il 28 ottobre (Teatro Archivolto); lo sarà a Torino il 15 novembre (Circolo dei Lettori), nonché a Milano il 17 novembre (Rassegna BookCity).