(Titolo originale Neuland, 2011)
Trad. Ofra Bannet e Raffaella Scardi, Neri Pozza Ed. (collana Bloom), Vicenza, 2012, pp. 637, €.18
“Ognuno riceve dagli dei una quantità limitata di parole… non vanno sprecate, altrimenti, quando ne avrai bisogno veramente, non ne avrai più a disposizione”
“E’ sempre affascinante incontrare il padre o la madre di qualcuno che conosci. Un po’ come sbirciare in cucina e vedere di quali ingredienti è composto un pasto”
“Che cosa mi ha spinto a scrivere questo romanzo? Una prima motivazione è collegabile ad un viaggio compiuto in Guatemala 11 anni fa. Ero ospite, per il periodo di una settimana, di una famiglia, con la quale condividevo la vita quotidiana. Insieme a me c’era un signore canadese di circa 60 anni, occhi blu, aria visibilmente triste. Senz’altro, mi dicevo, ci sarà qualche vicenda drammatica alla base di tale malinconia. Avrei voluto interrogarlo, ma l’uomo si sottraeva al colloquio. Non riuscii a parlargli a tu per tu perché, di punto in bianco, quel misterioso personaggio anticipò la partenza e così persi l’opportunità. Dopo il ritorno in Israele, la sua immagine mi tornava spesso in mente. Al punto di fantasticare su quali motivazioni avrebbero potuto indurre una persona matura a…perdersi tutta sola in quei luoghi (dove, tra l’altro, si recano tanti giovani israeliani dopo il servizio militare). Nello stesso tempo riflettevo: forse, stando lontani per qualche tempo dal Paese d’origine, possiamo cogliere l’occasione per vedere la nostra esistenza da un’angolatura diversa”.
Voce soffusa, intensi occhi blu. Eshkol Nevo [1] incanta il pubblico, soprattutto femminile, affluito numeroso per conoscerlo nel cortile della Casa del Mantegna, nell’ambito del Festival della Letteratura di Mantova, domenica 9 settembre scorso.
Lo affiancano la giornalista Susanna Nirenstein e Marina Astrologo, ottima traduttrice dall’inglese. E’ di scena l’ultimo romanzo dell’Autore israeliano, uscito or ora con Neri Pozza, Neuland; anzi la prima traduzione straniera dell’opera, pubblicata in Patria lo scorso anno, è proprio quella italiana.
Eshkol, il più noto tra gli scrittori di Israele dopo la “triade” per antonomasia -Yehoshua, Oz, Grossman- [2], è significativo esponente di quella generazione di quarantenni (ben diversa dalla precedente), nei quali alberga una profonda disillusione per la pace non raggiunta; un’insaziabile attesa di futuro e la consapevolezza, a loro giudizio, che sia venuta meno, nel Paese, la caratteristica solidarietà, assai radicata in passato.
Assisto all’incontro, miniera inesauribile di temi, spunti, suggestioni; solo di sfuggita offuscato dall’immancabile superficiale domanda / provocazione rivoltagli da una spettatrice, mancante prima che di cultura storica, di elementare buon senso. Domanda che nessuno si sognerebbe di formulare, ad esempio, all’indirizzo di un belga o di un giapponese: “Ma perché voi [israeliani] restate là [cioè in Israele]?”
Confesso che la risposta dello scrittore è stata la ragione che mi ha indotta ad acquistare il libro, superando quel vago sentimento di ansia che, lo confesso, mi coglie ogni volta che prendo in mano un volume di diverse centinaia di pagine. Ma ogni regola, si sa, ha le sue eccezioni.
“Intanto La invito, Vi invito, a venire in Israele. E’ il mio Paese. Posso magari criticare la politica di questo o quel governo, ma l’amore resta. Non potrei vivere da nessun’altra parte. La mia lingua madre, l’Ebraico, per me è un dono, come lo sono i miei amici. All’estero parlo inglese; dopo qualche tempo, però, provo una profonda nostalgia dell’Ebraico, che fa parte della mia identità”. Un amore per così dire adulto, non una mistica ed acritica esaltazione giovanile. E pure per comprendere i sentimenti d’amore degli scrittori israeliani più celebrati verso la loro Patria occorre avere una sensibilità adulta, per non cadere nel tranello di appiattirsi sull’usurata contrapposizione pace / guerra. Ciò vale soprattutto per il pubblico europeo (nella fattispecie italiano). Sul piano politico si può anche dissentire in modo aspro dalle posizioni di alcuni autori (e a me talvolta succede!), ma questa è un’altra faccenda, che non ha alcun rapporto con la letteratura.
La lettura di questo romanzo -intervallata, nell’arco di alcuni mesi, da quella di altre opere- pur, di tanto in tanto, un po’ faticosa, è stata per me un’esperienza entusiasmante e formativa.
Anzitutto poche parole sul titolo e il suo significato. Neuland, cioè Nuova Terra, trae spunto dal romanzo, dal sapore vagamente fantascientifico, di Theodor Herzl, Altneuland (1902) [3] nel quale il Padre del Sionismo politico immagina che, nel 1928, la Palestina (appunto la Vecchia-Nuova Terra) sarebbe stata equamente abitata e condivisa tra Arabi ed Ebrei, caratterizzati, questi ultimi, dai tipici tratti della borghesia mitteleuropea cui Herzl stesso apparteneva. Notevole è la descrizione assai vivace dell’ambiente e la narrazione di come i pionieri ebrei avessero reso fertile una terra arida da secoli di abbandono grazie alla costituzione di cooperative agricole.
Il personaggio chiave della nostra storia è Meni Peleg (Pimstein), israeliano tra i 50 e i 60 anni.
Eroe della guerra dello Yom Kippur, stimato consulente finanziario, poco dopo la morte per cancro dell’amata moglie Nurit (Nurik), ha lasciato Israele per rifugiarsi in Sud America. La guerra del 1973 costituisce per lui, una sorta di tabu; non ama parlarne; ma l’esperienza ha lasciato, nell’animo di quest’uomo forte e valoroso, profonde tracce. Un evento tragico per coloro che l’hanno direttamente vissuto -penso al regista Amos Gitai e al suo film Kippur o a un giurista di mia conoscenza, nato in Italia, il quale assume un’espressione addolorata se si tocca l’argomento-.
Che è successo “laggiù”? L’A. non lo rivela; e pure riguardo a Nurit si fa menzione di episodi, peraltro appena abbozzati e venati di mistero, che Nevo sa cogliere con sagacia e rispetto. Segreti nella storia dei genitori? Nell’incontro mantovano Eshkol confessava che, per comprendere fino in fondo la complessità di certi legami, ha dovuto diventare, a sua volta, padre (ha tre figlie): spesso finiamo per renderci conto, dice, come perfino le persone che crediamo essere vicine, quasi libri aperti per noi, possano nascondere misteri inaspettati.
La Partenza, dopo la perdita della moglie, verso luoghi lontani è un tema che mi richiama alla mente, d’istinto, Fuoco amico di A. B. Yehoshua [4], dove uno dei personaggi principali, il settantenne Yirmiyahu (Yirmi), lascia Israele per sempre dopo la scomparsa della moglie Shuli. Entrambi non avevano mai superato lo shock dell’uccisione -per “fuoco amico”- del figliolo Eyal, durante il servizio militare. Ma, mentre in quest’ultima vicenda il luogo scelto da Yirmi, per espressa volontà di lui, nulla ha a che vedere con il Paese d’origine, nel nostro romanzo il rapporto, pur alla lontana, esiste, come vedremo.
Meni e Nurit hanno avuto due figli, all’incirca trentacinquenni, Dori e Ze’ela.
Dori è il nostro protagonista maschile. E’ sposato con Roni, nata e cresciuta in kibbutz, una manager molto sicura di sé, anzi troppo, la quale, proprio per questo suo atteggiamento, lo rende inquieto. I due (vivono a Gerusalemme) hanno un figlioletto di quattro anni, cui Dori è legatissimo, Neta. Le continue preoccupazioni di Dori nei suoi confronti rendono il piccolo ansioso: “Nostalpazzia”, così viene definito il sentimento paterno. Grazie, care traduttrici Ofra Bannet e Raffaella Scardi: non siete nuove a interpretare così bene il linguaggio degli Autori giovani, come Nevo o Ron Leshem. Il comune detto “tradurre è tradire” viene smentito da Voi.
Roni è una donna di successo, forte programmatrice -perfino nella vita affettiva, par di vederla-, una garanzia per il marito, personaggio insicuro e fantasioso (“…era la prima donna alla quale aveva osato raccontare che nei suoi sogni apparivano regolarmente Kissinger e de Gaulle senza temere che scoppiasse a ridere….”). Nel prosieguo della narrazione veniamo a sapere che Dori, uomo sensibile, ma incline ad una certa fragilità psicologica, è insegnante di storia; anzi, per l’esattezza, di storie: “Gli piace allargare per i suoi allievi” annota l’A. “ queste incrinature nella storia ufficiale, tutta date, permettendo loro di intravvedere quel che si nasconde oltre gli argomenti da portare alla maturità. Io non insegno storia, chiarisce…alla prima lezione, insegno storie. Il Medioevo? Non tutto era buio….”
Tuttavia, col trascorrere del tempo, l’armonia di complementarietà tra i coniugi sembra vacillare. Roni ha sempre meno tempo da perdere con le problematiche del compagno e questi, di rimando, nel timore di essere lasciato da lei, progetta di andarsene per primo. L’occasione nasce con la scomparsa di Meni oltreoceano. Il rapporto tra padre e figlio, pur legati l’un l’altro da un certo affetto non espresso direttamente, era sempre stato caratterizzato da un certo distacco: Ze’ela veniva prima del fratello nelle attenzioni paterne.
Nonostante la madre avesse, in passato, cercato di rassicurarlo, Dori sente di avere, in qualche modo, deluso il padre. E allora, approfittando del fatto che questi da qualche tempo non dà più notizie di sé, nemmeno una telefonata o un messaggio e mail alla figlia, parte alla sua Ricerca, perché vuole (ri)annodare i fili con lui; Meni infatti era partito proprio quando il figlio tentava di instaurare un rapporto nuovo col genitore. Se i rapporti Genitori / Figli sono improntati ad una certa freddezza, si può rimediare a questo vuoto? Dori mette in atto il suo tentativo.
Durante il viaggio il giovane ripensa al sentimento profondo che ha legato i genitori, al loro amore / complicità. Toccanti immagini: come quando, nel ricordare la loro intimità, più forte della malattia di lei, Nevo scrive: “Ze’ela e lui andavano a trovare la madre nel reparto oncologia….suo padre era…fisso lì. Giorno e notte. Fino al silenzio sottile”.
Una parte notevole del romanzo è dedicata al peregrinare del protagonista nei vasti spazi del Centro e Sud America. E’ l’occasione per farci conoscere figure secondarie, ma tratteggiate con affettuosa efficacia. Ad esempio, Alfredo, il…contatto in loco, un misto tra una guida turistica e un investigatore / trovatore di persone scomparse (non certo a buon mercato, ma assai efficiente): “Io non cerco. Trovo” è il nome del suo sito web. Ha idee tutte sue sugli israeliani e, in genere, sugli ebrei: “…oltre i cinque sensi che ha la gente normale, voi ce ne avete un altro, di senso: il sesto. Quello della preoccupazione”. Per dirla in sintesi, la sa lunghissima su Dori e famiglia, sorella di lui (assai logorroica) compresa. Intriganti sono i diversi piani in cui si snoda il racconto; come ad es., i concitati dialoghi telefonici tra Alfredo e Ze’ela a proposito di Dori o con quest’ultimo sul padre, il quale, a parere dello stesso Alfredo, pare sappia bene come “incantare le donne”.
Altro soggetto pittoresco è Edgar, il padrone di un ostello -in difficoltà economica qualche tempo prima-, divenuto amico di Meni dopo che questi gli aveva fornito preziosi consigli su come risolvere i suoi problemi finanziari. Paradossale e semplice la motivazione: “…da anni [Meni] aiutava i ricchi ad uscire da crisi aziendali perché continuassero a spillare soldi ai poveracci. Per una volta voleva fare il contrario”.
La Natura è dipinta con immagini ricche di colori, di sfumature espressive, come nell’escursione -sempre finalizzata alla loro ricerca- di Dori e Alfredo nelle aziende agricole dell’Equador, dove essi incontrano una varia, pulsante umanità.
Immagini colorate e spesso sonore, in una prosa ritmica, onomatopeica: “Il suono delle gocce a piombo su una foglia -lo nota dopo qualche giorno- è diverso dal suono delle gocce che scivolano su un ramo, che è a sua volta diverso dal suono delle gocce che cadono sulla giacca….” O la voce del didgeridoo, un insolito strumento musicale aborigeno. Ma anche il “brutto” è notato e non viene sottaciuto; Lima, ad esempio, i suoi albergacci e quell’aria opprimente che inquietano la protagonista femminile che stiamo per conoscere.
E che dire delle suggestioni evocate dal lago Titicaca?
Il protagonista sente una certa familiarità e sintonia coi luoghi. Imperscrutabili, sotterranee assonanze. Puoi anche incontrare uno sciamano, specializzato, a suo dire, nella difficile arte “dell’avvicinare i cuori”. Don Angel, così si chiama, è un saggio che pare avere mille anni, ti legge nel pensiero: basti pensare alle sue considerazioni sul triangolo madre / padre / bambino, specie quando c’è in ballo un figlio unico: “….i triangoli in generale sono una forma geometrica….complessa. Spesso gli angoli sono troppo aguzzi e allora, se il lato che unisce i genitori non è saldo, si crea una situazione in cui sul figlio ricade un peso eccessivo”.
Parole che egli pronuncia rivolto in modo medianico a Dori; una grande, universale verità.
All’improvviso, in modo casuale, la vita di Dori si incrocia con quella di una coetanea e connazionale. Sono tanti gl’israeliani in giro per il mondo; mentre, chissà perché, li si immagina sempre…sul piede di casa.
Inbar Benbenisti vive a Haifa, dove tiene alla radio una rubrica per famiglie in crisi ed è (forse) un’aspirante scrittrice. Ha una nonna materna, Lili, che alterna momenti di lucidità ad altri di totale confusione. Mentre tra loro sono in perfetta sintonia (l’anziana signora -assai più saggia e responsabile della nipote- ha affettuosamente soprannominato quest’ultima Zipke foyer, cioè Uccello di fuoco, in yiddish), Lili litiga spesso con la figlia, Hanna, la madre di Inbar. Ciò ha cause ben precise. In primo luogo la totale incompatibilità di carattere che le separa: Lili è un tipo solare, che vede per lo più, nonostante le gravi prove riservatele dalla vita, il “bicchiere mezzo pieno”, ma è pure forte di una notevole, realistica consapevolezza: a ragione ritiene che la guerra sia davvero finita con la caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, e che la contrapposizione tra i “blocchi” altro non sia che l’eco del secondo conflitto mondiale. Hanna invece ha un carattere negativo, sempre pronto a tormentare il prossimo, a cominciare dai più stretti familiari. Un altro motivo di contrasto è rappresentato dal compagno di Hanna, Bruno, berlinese. Ciò è inaccettabile per Lili, la quale ha, sui tedeschi (di ieri e di oggi), idee adamantine: che faceva questo Bruno durante la Shoah? Si domanda; e, se non lui, data l’età, suo padre?
Hanna vive nel ricordo del figlio prediletto, Yoavi, morto suicida (senza lasciare messaggi o lettere) durante la tzavah (servizio obbligatorio, per i giovani israeliani, di tre anni nell’esercito). Yoavi, presenza fissa e silenziosa nel romanzo, era un ragazzo sensibile e appassionato di musica. La madre aveva dato all’ambiente militare la colpa di quel gesto, mentre il padre, Yossi, avrebbe voluto vederci chiaro, senza lasciarsi suggestionare da accuse a caso.
Il rapporto tra i genitori, già precario, a seguito della tragedia del figlio, si era spezzato e Yossi, dopo aver divorziato dalla moglie, si era lasciato Israele alle spalle per crearsi una nuova famiglia in Australia. Grazie al “fratellastro” Reuven, che gli ricorda tanto Yoavi, Inbar si rende conto di desiderare dei figli; ma non di legare la propria vita a quella dell’attuale compagno, Eitan.
L’incontro con Dori avviene per caso. Lei è affascinante , capelli castani “che spuntano con studiata monelleria” da un baschetto a quadretti. I due si scrutano per un po’ in silenzio prima di presentarsi.
Anche Inbar (cioè Ambra) compie un viaggio di ricerca. Vuol comprendere il significato della propria vita; per questo si allontana dal consueto mondo. E’ una donna inquieta, dotata di una notevole dose di egocentrismo e cinismo; e non sembra preoccupata dall’impatto sugli altri del proprio comportamento. In un primo tempo si reca a Berlino, dove trascorre alcuni giorni con la madre e Bruno. Berlino è occasione per Eshkol Nevo di esprimere sentimenti e sensazioni provate in occasione di un soggiorno da lui stesso compiuto, cinque anni orsono, nella capitale tedesca: “…una città a doppio strato” affermava a Mantova “….dove tutto è molto bello, un’atmosfera ricca di fermenti culturali, artisti, esposizioni…Ma c’è qualcosa sottotraccia che qua e là emerge, quando meno te lo aspetti: ad evocarlo può essere il fischio di un treno o un ciottolo dorato posto a ricordo degli Ebrei uccisi. Questi sentimenti, difficili da spiegare a parole e contraddittori, li ho espressi nel romanzo”. Sentimenti che, a mia volta, ho provato allorché mi ci sono recata un paio di volte tempo addietro.
Nelle pagine berlinesi troviamo disagio, desiderio e impegno, da parte di madre e figlia, di stabilire un legame autentico, ma le due non riescono proprio a…prendersi. Tuttavia il rapporto prosegue, pur tormentato, per lettera; anzi si direbbe che esse si intendano più a distanza che di persona.
Al momento di rientrare in Israele, all’aeroporto, Inbar imbocca, per puro caso, grazie ad una serie di coincidenze, un’altra direzione e vola in Sudamerica.
Incontrato Dori, ella si aggrega a lui ed Alfredo nella ricerca di Meni.
Alla storia di Inbar e dei difficili rapporti con la madre, lo scrittore alterna le vicende di nonna Lili, fin da quando, poco prima dello scoppio della guerra, ella era riuscita ad andarsene dalla Polonia con un gruppo di giovani sionisti alla volta di Eretz Yisrael (Yisruel), mentre il padre restava in Patria ad attendere il suo tragico destino.
Le storie di Lili e Inbar sono strettamente legate tra loro, dato il rapporto di grande affetto e confidenza che le lega. Il viaggio di Inbar in Sud America si svolge in un ideale parallelo con quello di Lili verso Eretz. Grazie ai ricordi della vecchia signora facciamo conoscenza con il mitico Pima (il lettore scoprirà di chi si tratta), amore idealizzato da lei, la quale peraltro tutta la vita resterà legata all’amatissimo Nathan, suo marito, che, anche da anziano, così ella rievoca, “profumava di frutteto”.
L’A. si sofferma con particolare tenerezza su Lili, figura ispirata, ritengo, a sua nonna, Praha Frishberg z’l (1916-2010), cui il romanzo è dedicato: i ricordi lontani, il suo amore di donna diviso, il doloroso rapporto con la figlia Hanna, la “cocca” del papà. “Tua figlia duetta con suo padre. Fra di voi c’è dissonanza. Nel trio, sei tu che resti in disparte”. Questo le aveva fatto osservare un giorno con drammatica sincerità qualcuno che la conosceva molto bene.
La donna, come detto, alterna momenti di smemoratezza -non è ben chiaro quanto voluti oppure determinati dall’età; forse un po’ l’uno un po’ l’altro- ad altri di sorprendente, talora spietata, lucidità. Nelle lunghe ore passate in solitudine, ripensa al passato del quale serba un mondo di ricordi. D’intensa poesia è il racconto del viaggio per mare verso Eretz Israel, dell’arrivo al porto di Haifa e del momento in cui ella ritrova Nathan, già presente sul posto: grande gioia sì, ma Pima non è scomparso dal suo cuore. Non mancano le amarezze patite nella nuova vita, il brusco risveglio al quotidiano, ben lontano dai sogni della hachsharah (il processo di preparazione dei giovani ebrei alla aliyah, sulla base dell’ideologia socialista-sionista): “A nessuno interessava che amasse leggere….Anzi, quando aveva tentato di intavolare una conversazione sui libri, le compagne l’avevano tacciata di superbia…”
Vien da osservare: ci troviamo in un kibbutz di futuri israeliani o in un ufficio pubblico di casa nostra?
Grazie alla loro costanza i nostri viaggiatori giungono in Argentina dove, a partire dal 1890 (nelle province di Buenos Aires, Entre Rios e Santa Fe), vennero fondate una ventina di aziende agricole (nonché alcune cittadine) che riunivano oltre 3000 famiglie ebraiche provenienti per lo più da Russia e Polonia, in fuga dai pogromi. L’autore di questa impresa fu il barone Moritz de Hirsch.
Filantropo ebreo (Monaco di Baviera 1831 – Ógyalla, Komárom, 1896), banchiere e uomo d’affari, de Hirsch s’impegnò in costruzioni ferroviarie in Austria, nei Balcani, in Russia, in Asia. Sostenne finanziariamente l’Alliance israélite universelle nell’opera a favore degli Ebrei profughi dall’Oriente; indi organizzò l’emigrazione degli stessi dalla Russia in Argentina, valorizzando l’agricoltura in quelle plaghe incolte e fondando la Jewish colonization Association. Successivamente si occupò degli Ebrei della Galizia finanziando per essi opere assistenziali e scuole.
Dori trae spunto dalla circostanza per tenere alla sua compagna un corso accelerato di sionismo (è pur sempre un insegnante…..).
Il gruppo giunge nella graziosa cittadina di Moises Ville: ecco il teatro dal significativo nome di KADIMA, cioè AVANTI in lingua ebraica.
Il centro vanta pure 4 sinagoghe ed è espressione di una realtà che, a fine ‘800, avrebbe potuto rappresentare, pur solo in linea teorica, una sorta di parallelo argentino al ritorno nella Terra dei Padri. Ma il richiamo verso Eretz Yisrael fu troppo forte, anche tenuto conto del fatto che, là, nonostante le cacciate e le persecuzioni, comunità di Ebrei hanno vissuto in modo costante nel corso dei secoli: Gerusalemme e Safed, per fare due illustri esempi, sono sempre state città a maggioranza ebraica.
E non dimentichiamo i tre pilastri dell’identità ebraica: Popolo, Torah e Terra di Israele; non una qualsiasi “Terra”, per quanto ospitale e, perché no, magari meno problematica del Paese di origine.
Tuttavia, grazie alla lettura del romanzo, ho potuto fare miei, trovandoli in quei luoghi così lontani, episodi, spunti, vicende della storia ebraica nel tragico XX secolo, che prima non conoscevo e di cui Eshkol Nevo dà prezioso conto nel prosieguo della narrazione.
A Moises Ville Dori e Inbar incontrano una simpatica ragazza di nome Cecilia Aharona.
Ella fa loro da guida e li accompagna fino a Neuland raccontandone “meraviglie”; tuttavia è evidente in lei il desiderio di compiere l’aliyah, per prepararsi alla quale dedica molto tempo a studiare l’ebraico. Anzi è ben lieta di…eserciziare la lingua con i due ospiti!
Denso di emozioni sia il contatto col nuovo mondo di Meni, sia l’incontro tra Padre e Figlio, di cui, in qualche modo, è parte anche Inbar, dopo i primi momenti di imbarazzo. La donna tenta, con tutte le sue forze, attraverso questa esperienza che mai avrebbe immaginato, di superare il trauma per la morte dell’amato fratello.
Meni ha dato vita ad una comunità (al momento di circa una trentina di persone) organizzata secondo una formula che ricorda il tradizionale moshav ; un centro di “attività valoriale per gli israeliani che viaggiano in Sudamerica, ma aperto a persone di tutte le nazionalità a condizione che condividano in nostri valori fondamentali”. Tanto si legge nell’Opuscolo informativo per gli Ospiti.
Neuland, è precisato, non intende sostituire Altneuland (così viene chiamato Israele), ma rappresentare una sorta di luogo di cura per “feriti”, nell’anima, da traumi di “prima o “seconda generazione”. Insomma, uno Stato-ombra in miniatura, “un’esperienza purificante per chi arriva da Israele o da altre aree traumatiche del mondo, che rammenti allo Stato di Israele che cosa avrebbe potuto essere. E che cosa potrebbe essere”.
Tematica suggestiva, ancorché..scivolosa e, per la verità, strumentalizzabile, se non la si interpreta in modo corretto. Quante persone, immagino, in Israele sarebbero tentate di lasciare il Paese, almeno per qualche tempo -specie allorché la morsa del terrorismo si fa più stretta-; ma ritengo, sulla base delle mie conoscenze personali, che, alla resa dei conti, a farlo sarebbe davvero una minoranza.
Tra Padre e Figlio, a proposito del confronto Neuland / “Altneuland”, si crea una frattura, ben espressa nel confronto serrato tra i due. Quello del Padre è un Cammino verso la Libertà oppure una Fuga dalla Responsabilità?
E, per la verità, il Meni Peleg negli anni lontani della Guerra del 1973 e nel periodo di malattia della moglie, con il suo dolore e tormento, così come ricordato e descritto dai familiari, è assai più reale e convincente della figura mitica e un poco stereotipata che entra in scena in Sudamerica.
E, per la verità, il Meni Peleg negli anni lontani della Guerra del 1973 e nel periodo di malattia della moglie, con il suo dolore e tormento, così come ricordato e descritto dai familiari, è assai più reale e convincente della figura mitica e un poco stereotipata che entra in scena in Sudamerica.
Il ritorno duro, repentino alla realtà è dato da una telefonata proveniente da Israele: è Guerra, la seconda guerra del Libano dell’estate 2006, con i missili lanciati da Hetzbollah sul nord del Paese. Il ritorno in Patria ci introduce in un miscuglio perverso di ordinaria quotidianità di Vita e straordinaria (nel senso appropriato del termine…) Mostruosità di guerra. Penso ai miei amici, in questi giorni di nuovo durissimi, a certe giovani mamme che accompagnano, in apparenza come se nulla fosse, il loro figlio al corso di basket, ma poi, sulla strada di casa, suona l’allarme e vedi il tuo ragazzino sbiancare per la paura….
Tali, Mat….e tante altre che non conosco direttamente.
Neuland è un romanzo complesso: una ragnatela di esistenze, con vari Temi e Percorsi; mi ci soffermo scegliendo alcuni spunti, per lasciare chi legge a compiere la sua esperienza. Intrecci di storie, anche imprevedibili, nel presente e nel passato. L’A. sa giocare con la variabile tempo facendoci correre sulle montagne russe dei suoi flash back; vi è maggiore maturità stilistica e capacità introspettiva rispetto al precedente La simmetria dei desideri.
C’è il tema del Viaggio, del Camminare: per trovare l’Altro e Se stessi. Il viaggio è occasioneper rivedere la propria esistenza, per mettere alla prova le proprie certezze; una fuga ed una ricerca al tempo stesso. E’ la tematica, pur essendo il contesto molto diverso, che incontriamo nelle opere di David Grossman, specie nelle ultime, come Caduto fuori dal tempo.
Nella ricerca del padre di Dori, scomparso in modo misterioso, Inbar cerca, in qualche modo, suo fratello Yoavi, sempre presente lì, accanto a lei. La ragione di morte del giovane è rimasta un mistero; forse i familiari non avevano adeguatamente considerato il dolore e la depressione che si erano impadroniti di lui allorché la sua ragazza lo aveva lasciato.
Ricca di fascino è la prospettiva di guardare Israele “da lontano”. Come detto, gli israeliani fatichiamo ad immaginarli fuori del consueto contesto mediorientale. Invece pare che siano instancabili viaggiatori, dei mochileros, in spagnolo, cioè coloro che viaggiano con lo zaino in spalla (mochila).
Cariche di ironia le pagine dedicate all’incontro di Dori con alcuni concittadini, tra i quali l’immancabile ex allieva e le riflessioni di costoro (che avevano conosciuto Meni Peleg) sul perché questi fosse giunto fin lì, a seguito della crisi che lo aveva colto dopo la morte della moglie.
Il desiderio di ricominciare, di cogliere il dolore come un’opportunità, l’entusiasmo che egli era riuscito a trasmettere ai giovani incontrati: “…sapete qual è il Vs. problema?” aveva domandato loro Meni “Non approfittate del viaggio per raccontare una nuova storia della vostra vita”.
Il linguaggio è spesso svelto, attinto direttamente dalla vita quotidiana, ironico, a volte con martellanti ripetizioni di frasi, tipiche di quando sei sovrappensiero.
Fa trattenere il fiato la lettura di una sorta di…Diario di Meni -scoperto e letto da suo figlio- scritto all’impronta in stile Ulisse di Joyce, senza punteggiatura (….”e il dolore israeliano è troppo pesante per me ora ti prego Dio mio piazzami accanto gli australiani emanano una benedetta innocenza una gioia incontaminata…gli americani non sono veri ma è comunque meglio di questo dolore israeliano prima e seconda intifada operazione Scudo Difensivo…).
Da rapido il ritmo narrativo si fa di colpo lento; devi perciò adattarti alla sua musica.
In alcune parti maggiore asciuttezza espressiva avrebbe giovato al testo. Ma, al di là di questi particolari, non ti annoi mai; lo affermo con decisione, contrariamente a chi, magari scoraggiato da alcuni passaggi ardui e senza aver letto il testo con la dovuta attenzione e la mente scevra da pregiudizi, si è lasciato andare ad una stroncatura davvero ingenerosa.
C’è anche (un lettore concentrato e di discreta memoria non faticherà a trovarla) una breve immagine rubata o, per essere generosi, ispirata, al collega Benny Barbash; ma glielo si perdona, come ritengo abbia fatto Benny.
Una Storia intimamente…israeliana. Chi non conosce, almeno in parte, il Paese non è in grado di apprezzare quest’opera. Certo i sentimenti ivi espressi sono universali, ma il contesto, le interpretazioni, il respiro sono israeliani. Un “giardino di simboli”, per dirla con un illustre Autore; di valori vissuti e condivisi nel profondo. Ad esempio, Lili paragona i figli (in questo caso, la figlia) alla patria: “Mia figlia è la mia patria” rammenta un giorno a chi le propone una romantica fuga “..mi fa diventare matta, è vero. Ma questo non significa che non sia la mia patria. Insomma, l’ho portata nel ventre”. E dunque la Patria non la si abbandona, per nulla al mondo.
La conclusione della vicenda la si può immaginare; ma, da parte mia, non la riterrei così…scontata come appare. L’amore sbocciato, nel frattempo, tra Dori e Inbar potrebbe sempre riservare sorprese.
Alla fine spunta una domanda, nella sottoscritta che legge; una piccola / grande domanda, che spero non suoni moralistica, bensì come richiamo alla responsabilità personale: tra questi adulti così impegnati nella ricerca della propria personale felicità, o almeno a trovare un certo equilibrio, ci sarà un posto adeguato per il piccolo Neta?
[1] Di Eshkol Nevo vedi su questo sito, in Agosto 2010, mia recensione -con notizie sull’Autore- a La Simmetria dei desideri, Neri Pozza, 2010, pp. 376; opera vincitrice, tra l’altro, del Premio Letterario ADEI – WIZO Adelina Della Pergola, XI Edizione.
[2] Una nota biografica. Nonno dello scrittore era Levi Eshkol (1895-1969, uno dei fondatori della Histadruth, Confederazione Generale Israeliana del Lavoro, 1920), primo Ministro all’epoca della Guerra dei Sei Giorni. Fa una breve apparizione in Una pace perfetta, significativo romanzo di Amos Oz, uscito in Israele nel 1982 e pubblicato da Feltrinelli nel 2009 (v. mia recensione, su questo sito, in Settembre 2009).
[3] Il testo è ora uscito con Bibliotheca Aretina; tradotto e curato da Roberta Ascarelli, pp. 238; €. 20.
[4] V. mia recensione su questo sito (Aprile 2008).