(Titolo originale Le Turquetto, Ed. Actes Sud, 2011)
Traduzione di Roberto Boi, Neri Pozza Editore, Collana I narratori nelle tavole, Vicenza, 2012, pp. 256, €. 14,00
“Sul lungo tavolo coperto da una tovaglia ricamata di rosso a punto croce, Elie….aveva rispettato la Storia e dipinto del pane azzimo. Gesù e i suoi discepoli stavano festeggiando Pesach, la Pasqua ebraica; celebravano la fine della cattività in Egitto avvenuta con la fuga, una fuga così precipitosa che il pane non aveva nemmeno avuto il tempo di lievitare, e appunto in memoria di ciò mangiavano pane azzimo. Elie aveva dipinto anche i tre piatti della tradizione…..”
Un intrigante mistero avvolge un bellissimo ritratto di gentiluomo che possiamo ammirare al Museo del Louvre in Parigi. Chiamato L’uomo dal guanto, è attribuito al Tiziano (epoca della composizione, secondo gli esperti: 1524/25). Sul marmo dove il soggetto appoggia il braccio sinistro, c’è la firma: TICIANUS; tuttavia la T è di colore grigio scuro, mentre il resto del nome è in grigio/azzurro. Di chi si tratta? Forse (ma è una delle tante ipotesi) del gentiluomo genovese Girolamo Adorno, uomo di fiducia dell’Imperatore Carlo V a Venezia. In origine facente parte della pinacoteca dei Gonzaga, divenne dapprima di proprietà di Re Carlo I d’Inghilterra (quello ghigliottinato durante la Rivoluzione del 1649), poi del banchiere Jabach; indi del Re Sole (1671); da allora appartiene allo Stato francese. Notizia di rilievo per gli appassionati: il quadro è tra i numerosi capolavori tizianeschi esposti a Roma in occasione della Mostra Tiziano, allestita presso le Scuderie del Quirinale (e aperta fino al 16 giugno p.v.).
Circa un decennio fa l’opera che qui interessa fu prestata al Museo d’arte e di storia di Ginevra e la circostanza permise un’accurata indagine di tutti gli aspetti pittorici e materiali. Ne emerse che la T non solo è di colore diverso, ma è dipinta con un composto dissimile rispetto a quello delle altre lettere del nome TICIANUS; quasi fosse stata apposta in momenti diversi, al limite da persona diversa. Un’altra curiosità: la presenza di incenso nella resina che copre il dipinto è insolita in un quadro dell’epoca.
Da queste premesse, complicate certo e tali da appassionare gli esperti, muove Metin Arditi. Personaggio dai molteplici interessi, è nato ad Ankara il 2 febbraio 1945, ma risiede a Ginevra, dove insegna alla Scuola Politecnica e presiede l’Orchestra della Svizzera romanza; nonché la Fondazione Strumenti per la Pace. Ha scritto numerosi saggi ed altri sei romanzi.
Egli prende spunto da quell’insolita opera d’arte per narrarci, grazie ad una prosa immaginifica, piena di accenti accorati e drammatici, la storia di un pittore ebreo, Il Turchetto appunto, contemporaneo di Tiziano, sulla cui reale esistenza non vi è certezza. Il libro ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti, quali: il Premio Page des Libraires; il Premio Jean-Giono; il Premio des Libraires du Festival littéraire de Nancy; il Premio Le Point Magazine.
Romanzo storico, della pittura, dell’arte, della religione -strumento di crescita spirituale o pretesto di intolleranza?-, è centrato su due luoghi quanto mai significativi: Istanbul (o meglio: Costantinopoli) e Venezia. Il sipario si apre sulla città del Bosforo, conquistata dai Turchi circa ottant’anni prima. E’ il settembre 1531. Elie Soriano è un ragazzetto ebreo sefardita di 11 anni, figlio di Sami, commerciante, un uomo meno che quarantenne, ma stanco e malato. Elie tra sé disprezza il padre perché collabora con un mercante di schiavi; d’altronde questo è uno dei pochi mestieri che il Turchi consentano agli Ebrei di esercitare. La mamma è morta nel darlo alla luce, non senza aver mormorato tra i dolori, in un misto di turco e catalano: “Es un kütchük fâré muy lindo”, è un topino così grazioso…..Quel “muso di topo” che egli avrà per tutta la vita. Chi, sia pure a suo modo, vicaria le funzioni materne è Arsinée, la levatrice che lo ha aiutato a venire al mondo.
La donna non gli lesina rimproveri, alterna carezze a minacce, e, alla stregua di molti genitori biologici, non comprende il sacro fuoco dell’arte che divora questo monello. Elie è un disegnatore nato, stupefacente; già questo rappresenta un problema per l’ortodossia ebraica che vieta qualunque raffigurazione del Creatore e della creatura. Ciò vale pure per gl’islamici, ma la più grande gioia per Elie è quella di recarsi nella bottega del musulmano Dejal, il danzatore sufi, creatore di meravigliosi inchiostri, il quale, pur rimproverandogli con affetto la ferrea regola dell’iconoclastia, lo lascia libero di giocare e sognare. C’è poi il pope ortodosso Efthymios, il quale, mentre il ragazzo ammira i dipinti della sua chiesa, gli rammenta che pure Gesù è ebreo e che il nuovo messaggio portato da questi non nega affatto la Legge ebraica. Elie è perplesso di fronte all’affermazione sull’ebraicità di Cristo: si tratta senz’altro di una bugia raccontatagli dal monaco per metterlo a suo agio.“Gli spagnoli” rimugina, nella sua beata innocenza “non avrebbero scacciato gli ebrei [come invece successe alla sua famiglia d’origine] se Gesù fosse stato ebreo”.
Metin Arditi ci dà una vivacissima raffigurazione d’ambiente, carica di allusioni sensuali, della già gloriosa capitale bizantina, ora divenuta metropoli turca, con gli harem e le violenze esercitate sulle popolazioni conquistate, specie sulle donne: “Il rapimento delle sorelle era stato di una violenza inaudita….quattro marinai le avevano strappate dal letto che dividevano con la madre.
Mentre venivano trascinate fuori dalla loro capanna, avevano sentito urla e il suono sordo delle percosse che venivano dalla stanza accanto, dove dormivano il padre e i tre fratelli. Erano stati feriti? Uccisi? Impossibile saperlo”. Per non parlare della condizione patita dalla minoranza ebraica -al contrario di ciò che con generica superficialità talora si scrive e riflettendo sul termine di “crimine contro l’umanità” con cui, pochi giorni or sono, l’attuale Premier turco, Erdogan, ha gratificato il Sionismo-. “Patire e sopportare…Non conosceva altro” scrive l’A. a proposito del padre del protagonista “Sopportare la povertà, la malattia, la vergogna. Soprattutto la vergogna. Venditore di schiavi…un lavoro che i turchi riservavano agli ebrei, come si gettano gli avanzi del pasto ai maiali. E un figlio che lo disonorava agli occhi di tutti….”. Il “disonore” proviene dal fatto che il ragazzino, abile disegnatore, viola una delle regole principali dell’ortodossia ebraica.
Allorché suo padre, poco tempo dopo, muore, Elie decide di fuggire da Costantinopoli. Riesce ad imbarcarsi su una nave veneziana, il Tizzone, in cambio del ritratto del capitano abbozzato lì per lì.
Lo ritroviamo nell’agosto 1574 a Venezia, affermato pittore. Al momento di cambiare vita, tanti anni prima, egli aveva avuto l’intuizione (comprendendo il pericolo costante cui sono soggetti gli Ebrei da sempre) di cambiare identità: era divenuto Ilias Troianus, cristiano d’origine greca, cresciuto “accanto ad un famiglia di ebrei spagnoli”.
Nella grande città lagunare Elie diventa celebre col nome di….Turchetto. Ha sposato la figlia di un notaio (che non ama, va da sé), è stimato dal Doge. Nei suoi dipinti notevole è la capacità d’introspezione psicologica, che ne aveva caratterizzato i disegni fin da quando era poco più che bambino; egli pare intuire l’atteggiamento delle persone le une verso le altre,
Venezia è città ricca, raffinata, ma barbara e truce al tempo stesso; un luogo tra le cui calli silenziose si consumano efferati delitti, come quello che ha come vittima la bellissima ebrea Rachel Albuquerque, occhi verdi e bocca sensuale, modella preferita ed amante di Elie. La relazione con un’ebrea porta il nostro protagonista davanti al Tribunale dell’Inquisizione: egli viene condannato all’impiccagione per eresia; le sue opere dovranno essere bruciate. Di lui resta solo quel misterioso ritratto di cui all’inizio, L’uomo dal guanto, attribuito al Tiziano a causa di quella strana firma.
Vicissitudini sorprendenti invece riportano il Turchetto nella sua città originaria.
A Istanbul (siamo nel 1576) non dipinge più, fa il facchino, nessuno si ricorda del genio pittorico, che aveva svelato la sua originaria identità dipingendo un’Ultima Cena come un seder ebraico; quale in effetti è, nonostante i tentativi di nasconderlo operati in modo puntuale nei secoli.
“Gesù e gli Apostoli erano vestiti di nero, da rabbini, la testa coperta da uno zucchetto che Elie aveva realizzato con la tecnica della foglia d’oro….”
Resta peraltro la profonda umanità dell’artista, che si concretizza nell’incontro, ricco d’amore, con la sua gente; come quando accompagna alla naturale fine l’amico mendicante, Zeytine, per poi quasi trasformarsi in lui e prendere il suo posto dove questi aveva chiesto la carità per tanto tempo.
L’universo pittorico resta nel cuore dell’artista, come il ritratto di un personaggio, disprezzato magari, ma mai dimenticato.
“Qualche istante dopo vide la propria mano abbozzare l’ovale di un viso. Con un movimento lento e abile segnò un tratto, poi un altro…sempre più rapido e sicuro, finché non prese forma completa un ritratto ricco di dettagli e sfumature….Era il ritratto di suo padre. Lo aveva rappresentato come il pover’uomo che era. Nell’angolo superiore destro del foglio aveva scritto queste parole: Sami Soriano, dipendente di un mercante di schiavi a Costantinopoli”.