(Titolo originale Heimliches Berlin)
Traduzione di Eva Banchelli, Ed. Elliot, Collana Raggi, Roma, Maggio 2013, pp. 149, €. 16,50
“Quanto più poveri diventiamo, tanto più ci rendiamo conto che il lusso è un bene molto più necessario del pane quotidiano” “La parola è magia e chi ne cita una dovrebbe essere consapevole del pericolo e insieme della grazia che questo rappresenta”
Franz Hessel è stato uno dei maggiori protagonisti della vita artistica berlinese negli anni Venti del Novecento. Scrittore e saggista, tradusse in tedesco, insieme all’amico Walter Benjamin, À la recherche du temps perdu di Marcel Proust.
Di origine ebraica, era nato il 21 novembre 1880 a Stettino; per sfuggire alla persecuzione nazista si rifugiò, come altri intellettuali austriaci e tedeschi, a Sanary sur Mer (Francia meridionale), dove morì il 6 gennaio 1941.
Con la dichiarazione di guerra (1939), il governo francese considerò questi esuli come nemici stranieri e alcuni di loro furono internati in campi di concentramento (come lo stesso Hessel, il quale morì per la grave debilitazione dovuta alle dure condizioni di vita del campo in cui si trovava, Les Milles) o addirittura deportati ad Auschwitz. Dopo il conflitto l’episodio fu ignorato fino al 1990 allorché, anche a seguito del numero crescente di visitatori dalla Germania, fu inaugurata una targa commemorativa, con segnalazioni per “itinerari letterari”.
Negli anni Venti, con la moglie Helen Grund, pittrice e traduttrice, e l’amico Henri-Pierre Roché, Hessel aveva dato vita ad una sorta di triangolo amoroso, dal quale lo stesso Roché trasse ispirazione per il romanzo Jules et Jim, cui si rifece in seguito il regista francese François Truffaut nell’omonimo, indimenticabile film (1961/1962) con Jeanne Moreau, Oskar Werner (l’austriaco Jules, cioè Franz) e Henri Serre (il francese Jim, Henri-Pierre). Una nota biografica. Il figlio più illustre della coppia fu Stéphane Hessel (1917 / 20013), molto somigliante alla madre nei lineamenti duri del viso, nato tedesco, naturalizzato francese: politico, diplomatico, celebrato autore, negli ultimi anni, di un fortunatissimo libretto dal titolo significativo di Indignatevi! (2010). Partecipò alla Resistenza Francese e venne deportato a Buchenwald. Ciò tuttavia non gli impedì -anzi immagino si sarà sentito legittimato da cotanto blasone e al riparo da disonorevoli sospetti, al punto da respingere sprezzante l’accusa di antisemitismo mossagli da alcuni – di essere uno dei numerosi vip odiatori in automatico di Israele, promotore del boicottaggio delle merci israeliane, nonché sostenitore della proficua “causa palestinese”, cioè dei parenti stretti di coloro che aveva combattuto in gioventù. Chiamiamo tale posizione, per essere eleganti, “Misteri della psiche umana”.
Famoso per aver dedicato gran parte della propria produzione giornalistica alle passeggiate per le strade di Berlino -oltre che di Parigi, dove pure soggiornò- Franz Hessel può essere considerato il più significativo esponente, nel suo Paese, della cosiddetta flânerie (il termine l’aveva coniato Baudelaire diversi anni addietro), cioè l’arte di passeggiare con calma, senza una meta precisa, per conoscere una città e penetrarne i segreti; quasi una metafora dell’esistenza. A tale proposito pubblicò nel 1929 una raccolta di saggi, Spazieren in Berlin.
Tra i romanzi ricordiamo: Pariser Romanze, 1920 (Romanza parigina. Carte di un disperso, Adelphi, 1997, pp. 92) e il presente Heimliches Berlin, 1927 (Berlino segreta).
Costretto a scomparire dalla scena culturale in quanto ebreo, dimenticato nel dopoguerra, l’Autore tedesco è stato, col trascorrere del tempo, rivalutato in Francia e Germania, ma è tuttora poco conosciuto in Italia. Per questo la Casa editrice Elliot ha riproposto, due anni orsono, la raccolta L’arte di andare a passeggio (collana Raggi, 2011, pp. 244), Gli errori degli amanti (collana Raggi, 2012, pp. 128) e un saggio, risalente al 1931, dedicato ad un autentico mito del cinema, la leggendaria attrice berlinese Marlene Dietrich (Marlene Dietrich. Un ritratto, collana Lampi, 2012, pp. 64). Infine, alcuni mesi fa, Berlino segreta, scritto tra il 1924 e il 1925, durante un breve soggiorno nella capitale francese, e uscito nel 1927, ripubblicato solo nel 1982, a cura di Berndt Witte, dall’editore Suhrkamp. La presente edizione, la prima nella nostra lingua, si avvale della traduzione di Eva Banchelli, che scrive pure un illuminante saggio introduttivo.
Nell’estate 1922, dopo diversi anni di assenza, Hessel ritorna a Berlino da Parigi.
Siamo all’epoca della grande inflazione, cominciata nel 1919 e durata fino all’inizio del 1924, allorché venne introdotta una nuova valuta, la Rentenmark, che fece rientrare, sia pure per un breve periodo, la grave crisi che avrebbe, tra l’altro, azzerato il cospicuo patrimonio di famiglia su cui Hessel aveva potuto contare a lungo. A quarant’anni egli inizia un’intensa attività pubblicistica, in primo luogo con l’editore Rowohlt, molto noto negli anni della Repubblica di Weimar, il quale pubblicherà, tra gli altri, Berlino segreta.
Si stabilisce con la famiglia non lontano dalla sede di Rowohlt, nel vecchio quartiere Ovest della città. E’ la zona attorno al Tiergarten, il grande parco al centro della città -o, meglio, a sud dello stesso-, amata dall’alta borghesia colta e, fin dagli anni ’20, prediletta dall’intelligentia bohémienne, la quale, nella sopravvenuta difficile contingenza, si adatta a vivere in mille modi: dal subaffitto dei vasti appartamenti, divenuti ormai ingestibili, ai…matrimoni d’interesse, allorché se ne presenti l’occasione.
Un “mondo di ieri” che conserva un intatto fascino per coloro che vi “furono bambini”, carico di rimpianto, destinato a scomparire di fronte all’avanzata dei nuovi ricchi, nati col periodo postbellico e in grado di trarre profitto dalla recessione, finanziatori di architetti ed urbanisti impegnati a ridisegnare con arroganza il volto della città. Una nuova élite che sarà ben presto ridicolizzata dalla matita di George Grosz e dai versi feroci del giovane Bertolt Brecht.
Il nostro, come annota con lucidità Banchelli, non è un vero e proprio romanzo, bensì una sorta di “commedia di costume” in tredici scene, ambientata, nell’arco di una sola giornata della primavera 1924, in un ben preciso contesto: quelle strade e quei locali cari a chi scrive, il “vecchio Ovest”, appunto. Sono i luoghi che formano un universo che affiora qua e là, una sorta di “segreto” magico, custodito dai diversi personaggi nell’animo dei quali il duro momento, in apparenza alle spalle, ha lasciato una consapevolezza di assoluta precarietà, di inquietudine, di insopprimibile smania a spostarsi da un luogo all’altro, per trovare, forse, un significato alla propria esistenza.
Ecco allora la figura principale della rappresentazione: Wendelin Domrau, che vive a Berlino fino all’estate del 1924; un giovane “il cui aspetto allietava uomini e donne della sua cerchia sebbene non ne conoscessero la natura più profonda”. Quando egli, dopo lunghe titubanze, lascia la città -chissà fino a quando, poi…-, tutti si accorgono del vuoto che ha lasciato. Bello, elegante, distaccato ad uno sguardo frettoloso, è, da una parte, afflitto alla sola idea di abbandonare la vita di sempre; dall’altra, è tormentato dal desiderio di voltar pagina, di ricominciare, di intraprendere una sorta di catarsi della quale neppure lui conosce i contorni.
Compagna ideale di tali stati d’animo è Karola, una donna affascinante, con un che di leonino nelle movenze, la quale percepisce la fatuità della propria esistenza; vorrebbe, a sua volta, andarsene, ma non riesce a prendere una decisione. E’ lacerata nel suo animo: ama, ricambiata, Wendelin, ma nessuno dei due parrebbe riuscire a dare attuazione al piano di fuga. Oltretutto lei è legatissima al figlio Erwin, di otto anni.
Karola è sposata con Clemens Kestner, un colto e bizzarro docente universitario di filologia, molto occupato nella traduzione di Omero e studioso di storia antica. Clemens non si ritrova nel “nuovo” che avanza: quegli autobus che sfrecciano veloci gli ricordano i carri da guerra del comandante Sisara di biblica memoria (Giudici 4, 18-22), quello cui la “maschia Giaele” -come scrive Alessandro Manzoni in Marzo 1821, ode dedicata al poeta e patriota tedesco Theodor Körner-, “piantò un piolo in testa mentre era addormentato”.
Ad una società avida di guadagno il professore contrappone una sorta di tranquilla morale del “non possesso”. Hessel ce ne fa conoscere i sentimenti, prendendosi in modo bonario gioco di lui. Kestner ama sinceramente sua moglie, ma, di fronte alla prospettiva che Karola lo lasci per intraprendere un viaggio insieme con Wendelin, è più preoccupato di perdere quest’ultimo piuttosto che lei. Con la donna infatti c’è un rapporto che non verrà mai meno, mentre la presenza dell’amico, visto come una sorta di Narciso e giudicato persona fragile, gli è indispensabile perché capace di donare la “voglia di restare ancora nella vita”. A volte però la gelosia emerge….
Inevitabile accostare al triangolo Hessel / Grund /Roché questo rapporto, ben inserito, a sua volta, nel clima variegato, licenzioso degli anni di Weimar e reso molto bene da una prosa seducente: “e vide… la Sconosciuta che era venuta con Sebald, il suo elmo di piume bianche sul volto allungato e gli zigomi di un eroe giovinetto…Com’era la sua voce?”.
Lo stile è scorrevole, quasi musicale, in grado di adattarsi al registro itinerante del racconto.
I toni ci sono tutti, con una preferenza verso l’umoristico e l’ironico, come il contrasto tra i “sogni di gloria” del giovane Wendelin, idolo dei salotti, che vagheggia un viaggio in Italia ricco di avventure e sorprese, e la modesta realtà della pensioncina in cui egli vive, “al quarto piano sopra negozi ed uffici, tra Friedrichstraße e Unter den Linden”. Una meraviglia per lui vagabondare da un luogo all’altro della città, magari evitando all’ultimo momento la “birreria laggiù”, visto che, giusto in tempo per svignarsela, vi ha visto entrare un suo collega di corso (universitario), aduso a propinargli in continuazione i programmi dei nazionalisti e ad invitarlo a riunioni d’una noia mortale! Meglio sedersi al caffè, davanti a uova al tegamino, pane ed un bicchiere di porto. E pazienza se il conto sarà più salato che al ristorante.
Ma vi sono pure tenere sorprese: delicatissima la scena in cui il piccolo Erwin, all’improvviso, giunge le mani e recita, prima di pranzo, una preghiera in presenza di due adulti, all’apparenza assai lontani da tentazioni mistiche, i quali, però, -presi alla sprovvista, colpiti e commossi- lo imitano senza indugio.
Il protagonista assoluto è il paesaggio cittadino, che emerge discreto, tale da entrarti nell’anima. E’ il supporto, il sipario imprescindibile sul quale s’intrecciano le vite degli stravaganti personaggi, tutti ritratti dal vivo, comprese le figure di secondo piano. I cognomi (nomen omen, per dirla alla latina) sono espressione del personaggio stesso, ma in una sorta di rovesciamento sarcastico: Schilfkrot (Ranocchia) è un celebrato cantante /attore/ scrittore, realmente esistito e in voga all’epoca.
Autentico Deus ex machina è il potente banchiere E.I. Eißner, soprannominato il re degli Amaleciti dagli artisti di cabaret di cui è affezionato frequentatore, uomo sicuro di sé, capace, a suo dire, di affrontare e risolvere qualunque problema ponendo mano al portafoglio. Eppure coltiva anch’egli sogni di viaggio, magari in compagnia della bella Karola, sempre in grado di spezzare molti cuori!
Autentico Deus ex machina è il potente banchiere E.I. Eißner, soprannominato il re degli Amaleciti dagli artisti di cabaret di cui è affezionato frequentatore, uomo sicuro di sé, capace, a suo dire, di affrontare e risolvere qualunque problema ponendo mano al portafoglio. Eppure coltiva anch’egli sogni di viaggio, magari in compagnia della bella Karola, sempre in grado di spezzare molti cuori!
C’è l’affascinante Margot, che ama indossare camicie maschili e passeggiare a cavallo nel Tiergarten in compagnia di baldi giovani o l’inquietante, sessualmente ambigua, Fancy Freo (“al secolo Friederike Förster”), la cui specialità consiste “nell’eseguire le più audaci canzonette berlinesi con il massimo di raffinatezza e il minimo di sguaiataggine”. E che dire, curiosando nei diversi caffè / concerto -ma tutta la quotidianità berlinese è un grande caffè / concerto!-, di quel baltico intento a rievocare al pubblico i suoi giorni felici di ufficiale a S. Pietroburgo, in grado di sostentarsi, nella difficile congiuntura attuale, solo grazie ad una straordinaria somiglianza con Napoleone Bonaparte?
Una realtà che nasconde, sotto una veste spensierata e disinibita, un carattere di attesa drammatica, ma ancora pulsante di vita e di colore. Tra pochi anni, accolto con entusiasmo da troppi -tuttavia la “rossa” Berlino non ne fu affatto la culla, là il frutto giungerà maturo- il Nazismo coprirà tutto col suo nero sudario.