(Titolo originale The people of forever are not afraid, 2012)
Trad. Fabio Pedone, Ed. Rizzoli (Collana Scala stranieri), Milano, marzo 2013, pp. 340, €.18
“ ‘La guida che ci ha portato fuori dall’Egitto ha detto che in Israele, nel piccolo paese, non ci credono nella magia. Credono nelle persone’ ”(Persona B, giovane profuga sudanese)
“Ci sarebbero voluti due mesi e mezzo perché quella storia arrivasse alla stampa israeliana, due mesi e mezzo perché raggiungesse la stampa egiziana, sette anni per la BBC. Ma quando la stampa ci arrivò, tutte le testate titolarono ‘Un incidente diplomatico’ ”
Interessante debutto di una giovane scrittrice israeliana, Shani Boianjiu.
Madre irachena di Bagdad, padre romeno, nata a Gerusalemme (per caso) nel 1987, Shani è cresciuta in una località posta sei miglia di distanza dal Libano, dove la biblioteca della scuola elementare era pure un rifugio antimissile. Storia di frontiera, la sua; caratterizzata da una confidenza costante con una situazione di guerra, imposta dalla realtà assurda in cui Israele -unica democrazia di stampo occidentale in un mare di dittature e di odio antiebraico- è costretto a vivere, da prima ancora che fosse formalmente costituito come Stato.
Confidenza che si concretizza nei tre anni di servizio militare (due per le ragazze) svolto da ogni giovane del Paese allorché termina la scuola media superiore. Proprio quando, come l’Autrice ha confessato di recente, “…a diciotto anni hai un milione di cose da fare: la famiglia, la musica, i libri, stare un po’ sola. Non vedevo l’ora che finisse”. Un impegno che tuttavia è un dovere: “….è moralmente inaccettabile che qualcun altro lo svolga al posto tuo…e anche oggi, a ventisei anni, rimango riservista”.
Da questa esperienza è nato un libro insolito, una preziosa testimonianza. Sia come angolo di osservazione: quello di una giovane poco più che ventenne -i maschi restano per lo più sullo sfondo o relegati al ruolo di comprimari-; sia come tematica: il rapporto dei ragazzi (nel nostro caso, ragazze) con l’esercito, Tsahal, un argomento svolto, dai più illustri esponenti della letteratura israeliana, per lo più di sfuggita e in modo indiretto. Salvo poche eccezioni, come, ad esempio, il trentasettenne Ron Leshem, il quale tuttavia tratta questi problemi solo dal punto di vista maschile [1].
La gente come noi non ha paura è stato scritto in inglese negli USA, dove l’Autrice si era recata (dopo la ferma obbligatoria) per terminare gli studi universitari ed è uscito là lo scorso autunno. Per l’interesse suscitato la National Book Foundation americana ha segnalato Boianjiu tra i Cinque migliori Autori sotto i trentacinque anni e suoi racconti sono comparsi su New Yorker, Vice magazine e Zoetrope All Story. Ora Shani lo sta traducendo in ebraico -è notevole questo interagire di linguaggi- per farlo conoscere ai connazionali; e già immagina che non mancheranno le polemiche.
Due parole sul titolo, The People of forever are not afraid. Si tratta della prima frase del detto di un rabbino, che veniva applicata con un adesivo fosforescente sui missili lanciati in territorio nemico. La seconda ne consegue: “Non possiamo affidarci ad altri che al nostro Padre celeste”; magari unito, aggiungo, a forti motivazioni e ad un costante perfezionamento.
Il romanzo racconta le vicende di tre compagne di scuola le quali, terminato il liceo, lasciano il villaggio in cui sono cresciute insieme e le rispettive famiglie per compiere il servizio militare. Da quel momento le loro esistenze si separeranno.
Yael insegna a sparare ai ragazzi in un campo di addestramento, senza disdegnare affatto incontri amorosi con alcuni di loro. E’ Yael ad accogliere il lettore all’inizio del romanzo e a congedarsene nelle pagine finali, idealmente insieme con le sue compagne.
Lea, personalità complessa e tormentata, è membro della polizia militare (i…famigerati col basco blu), immagina le vite di coloro che ogni giorno attraversano il checkpoint dove lei è di pattuglia. In particolare attrae la sua attenzione Fadi, un palestinese di mezza età il quale, all’improvviso, pugnala a morte Yaniv, un commilitone della ragazza. Un’esperienza che la segna in modo profondo.
Avishag è nata nella famiglia Zubari -“la più grande famiglia irachena di tutto Israele”-. Figlia di Mira, l’insegnante dai capelli color arancione, finto, e sorella di Dan (morto durante la leva in modo tragico ed insensato), diviene guardia alla frontiera con l’Egitto. Ha il compito, in apparenza monotono ed alienante, di controllare i passaggi di merci e persone tramite un monitor verde ed assiste alla strage, da parte degli egiziani, di profughi sudanesi che tentano di entrare in Israele, da loro chiamato “il piccolo Paese”. La storia degli Zubari è narrata con accenti pieni di tensione.
Compagno per breve tempo di Avishag è un altro ufficiale, Nadav, il quale, da piccolo, era solito dire: “ Se ho un problema con qualcuno, quello è Dio”. Sua madre infatti era stata uccisa nel 1991 in un attentato presso la stazione centrale degli autobus di Afula, impedendogli così di essere un bambino come gli altri, che festeggiano il compleanno con accanto mamma e papà. E come mai Dio aveva precluso a lui questa gioia?
La nostra storia, suddivisa in tre parti, accompagna le protagoniste dalla fine della scuola, al periodo della leva fino a quando, terminato il servizio, rientrano nella vita civile. Da poco più che adolescenti a persone adulte, forse disilluse, le quali debbono affrontare le sfide imposte dalla vita quotidiana, sfide inserite in una realtà complicata quale è Israele. Dove, al di là dell’invidiabile sviluppo scientifico, sociale, culturale, economico, al di là della fantastica capacità di integrare tra loro realtà culturali assai diverse, al di là della gioia di vivere -gioia che si esprime nel grande amore per i bambini e per le nuove generazioni, considerate una ricchezza e non un problema, e quindi in un notevole sviluppo demografico (stando a recenti ricerche pare che la natalità araba sia in forte arretratezza, mentre quella ebraica cresce ; tanto che i due tassi sono ormai vicini ad allinearsi)-, al di là di tutto questo, un certo “sentimento della fragilità alberga nel profondo…e Basta scavare un po’ perché riemerga” (così una voce autorevole, il Prof. David Meghnagi) .
La terza parte ci mostra uno scontro duro e diretto tra uomini e donne in un quadro intrecciato di realtà e finzione. Immaginabile che possa suscitare un certo scalpore in Patria; anche se è noto che, nel Paese, la stampa e gli scrittori sono adusi, nei confronti dell’esercito, ad una libertà di critica difficilmente immaginabile altrove.
Perno del romanzo è comunque il periodo del servizio militare, della tzavah come si dice.
Due anni di dolore, amori, incontri, solitudine, fantasie sessuali tipiche dell’età, risate, pianti, bisticci, scherzi (uno, in particolare, davvero spiazzante e gravido di serie conseguenze) con contemporanea rievocazione delle burle messe a punto ai tempi della scuola, noia per il quotidiano e pazzie incredibili, disillusioni, pensieri sui paradossi caratteristici di una situazione di guerra, specie permanente: “…I palestinesi devono posare carte d’identità e documenti sul cofano della macchina e poi alzare il finestrino mentre il soldato si avvicina per esaminarli…nessuno seguiva queste regole….”
Il linguaggio è quello semplice, fresco e sbrigativo dei giovani, spesso paradossale e striato di nonsense, in cui le voci narranti si alternano; oggi e ieri si danno il cambio. Per tale motivo, a mio avviso, un minor numero di pagine avrebbe senz’altro giovato all’asciuttezza del testo. Ironia talora feroce, espressione di vita vissuta, senza mediazioni, nel contrasto, sempre presente, tra disposizioni, più o meno astratte, e cruda realtà sul campo; tecnologia e sangue. Dilemmi frequenti, alcuni banali, altri seri. Come, ad esempio, sul piano personale: portare al termine oppure interrompere una gravidanza non prevista? E su quello militare: arrestare o no un gruppo di arabi nel quale spicca un ragazzetto che, ben istruito dagli adulti, s’impegna a fondo per farti reagire alle costanti provocazioni e creare così quel…casus belli buono per mandare in solluchero i giornali di mezzo mondo, sempre pronti a demonizzare ogni mossa dello Stato ebraico?
Zero ideologia e zero ricette preconfezionate su questa o quella questione politica, conflitto con i palestinesi in testa. Zero chiacchiere in libertà sul mantra Pace. Finalmente, verrebbe spontaneo pensare! Forse ciò risiede nel fatto che le giovani generazioni, come afferma pure la stessa Shani, hanno perduto la speranza di accordi credibili coi vicini per chissà quanto tempo e cercano di vivere giorno dopo giorno, senza i grandi ideali che hanno nutrito genitori e nonni. Non c’è un briciolo di retorica guerresca -del resto inimmaginabile, oggi, nei Paesi democratici-, ma neppure il politicamente corretto, per lo più astioso ed unidirezionale, tanto di moda nella cultura dell’Occidente, atteggiamento dal quale talora lo stesso Israele (intellettuali e mass media in primo luogo) si fa contagiare.
Certe vicende dolorose sono appena accennate, come il caso Ghilad Shalit, all’epoca della redazione dell’opera prigioniero di Hamas; o, con maggior dovizia di particolari, un altro episodio notissimo che fece discutere a lungo, sia pro che contro Israele e i metodi da questo adottati in tema di salvaguardia dei propri cittadini .
L’Autrice dà prova di notevole coraggio ed onestà culturale allorché affronta temi difficili e controversi e sa smontare, grazie al caratteristico stile disincantato, solidi tabu all’arsenico. “…Huda, la ragazzina palestinese sulla spiaggia. La foto sul giornale la ritraeva mentre urlava nella sabbia rossa, accanto ai corpi mutilati delle sei persone che erano state la sua famiglia…Tutto il mondo diceva che era stato l’esercito israeliano con un attacco aereo a massacrarli, ma nell’esercito israeliano si sapeva che la famiglia era stata uccisa da una mina che i miliziani palestinesi avevano lasciato in riva al mare”.
La difficile situazione peraltro non fa dimenticare la realtà umana di due popoli che i paradossi della storia chiamano a vivere fianco a fianco; piaccia o meno a rivoluzionari di professione e loro sodali pacivendoli europei antisemiti doc . E ad interagire l’un l’altro; piaccia o meno a rivoluzionari di professione e loro sodali pacivendoli europei antisemiti doc.
Con divertita tenerezza, quasi mista a complicità, sono ritratti i giovanissimi arabi, abituati al furto fin da piccoli: di cipolle da portare alle madri per la cucina, ad esempio; o di parti di recinzioni metalliche che isolano le zone militari israeliane, o magari di elmetti e confezioni di olio solare alla vaniglia sgraffignati alle soldatesse, vittime preferite delle loro scorribande.
Le nostre ragazze si parlano e si confrontano in modo serrato tra loro; non si perdono mai davvero di vista, anche se magari, per alcuni periodi, le loro vite imboccano strade diverse.
Talvolta hanno paura, ma, al tempo stesso, sono coraggiose e sanno ridere delle proprie debolezze. Sono l’espressione di quel posto “che per tutta la vita ho chiamato Israele. Dove si vive un po’ tristi e spaventati, spesso anche felici”.
[1] Cfr. Ron LESHEM, Tredici soldati, Ed. Rizzoli, Ottobre 2007, pp. 376 (vedi mia recensione su questo sito, Novembre 2007).