Ed. e/o, Collana Dal Mondo, Collezione Sabot/age, Roma, Settembre 2013, pp. 235, €.16,50
“Ho bisogno di dirgli che anch’io al cospetto della Shoah mi sento un ebreo. Che sono un dissidente nei gulag sovietici, un eretico di fronte all’Inquisizione. Solo dopo averlo fatto potrò riprendere il mio lavoro” “E’ per i prigionieri che i cancelli di Auschwitz non si sono mai aperti”
“…Perché non perdere la calma è da forti, ma se nulla ti scuote vuol dire che dentro non hai nulla”
Ritroviamo, dopo le vicende al fulmicotone narrate in Undercover. Niente è come sembra [1], il tenente dei Carabinieri Rocco Liguori, “straniero in ogni terra, straniero perfino a se stesso”, come egli si definisce.
Roberto Riccardi fa ancora una volta centro con il suo emozionante romanzo Venga pure la fine, uscito lo scorso 25 settembre sempre con l’editore e/o, collezione Sabot/age; già presentato con successo in alcune città italiane.
In breve la trama.
Al protagonista -di nuovo voce narrante-, ora occupato a risolvere questioni routinarie in quel di Alba (provincia di Cuneo), nelle tranquille Langhe insomma, giunge all’improvviso un ordine dal Comando Generale dell’Arma: deve recarsi subito all’Aia, per mettersi a disposizione del Tribunale Internazionale ivi istituito dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel 1993 al fine di perseguire i crimini di guerra commessi nella ex Jugoslavia [2] .
Il giorno precedente l’arrivo di Rocco il feroce colonnello serbo Milan Dragojevič -già condannato dallo stesso Tribunale per il massacro di Srebrenica del luglio 1995 e per altri eccidi perpetrati nel territorio della Bosnia Erzegovina; figura ispirata forse al terribile comandante Arkan, ma il dato non è rilevante-, ora sotto stretta (?) sorveglianza nella città olandese, è stato rinvenuto agonizzante nella stanza dell’ospedale psichiatrico dov’è ricoverato da qualche tempo in quanto soggetto a gravi crisi depressive.
L’uomo ha ingerito una massiccia dose di un potente medicinale (Zoloft) e si trova in coma farmacologico. Sul fatto si appresta ad indagare uno speciale corpo internazionale di investigatori, distaccati presso la Corte (chiamata in sigla ICTY, International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia) condotto dal Procuratore Silvia Loconte, scettica, fin dall’inizio, sull’ipotesi suicidio.
Il cognome Dragojević fa emergere ricordi ormai lontani nella mente di Rocco. “Il passato resta sempre dentro di noi, anche magari in forma latente”, così osserva Riccardi nel corso di una recente conversazione con Giulia Siena di Chronicalibri , Rivista on line di Letteratura.
Era stato infatti proprio il tenente ad arrestare il criminale, sette anni prima in Bosnia, a Banja Luka (la capitale de facto dell’entità della Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina e capoluogo della regione storica della Krajina bosniaca), quando -su ordine del suo superiore diretto, col. Valenza- vi si trovava impegnato (unico italiano all’interno di un contingente internazionale a comando britannico) in una missione avente come fine la cattura di quel truce personaggio. Liguori aveva ricoperto un ruolo basilare nell’azione; tuttavia, a causa di intrighi vari di carattere politico, incomprensibili a persone di retta coscienza, il suo ruolo, proprio perché italiano, era dovuto restare segreto.
Un minimo inquadramento temporale, per orientare il lettore. Tra l’arresto di Dragojević in Bosnia e la missione a l’Aia si collocano le avventure raccontate in Undercover.
Per uno dei tanti paradossi della vita, Liguori e Dragojević non si erano persi di vista, dopo l’arresto di quest’ultimo. Su richiesta del prigioniero e in ottemperanza ad un certo patto intervenuto tra loro, i due avevano instaurato e mantenuto rapporti epistolari fino a circa un anno prima. Poco dopo che Rocco aveva smesso di scrivergli (e chissà perché mai, se lo era domandato a più riprese, senza trovar risposta), il colonnello era caduto in depressione. Le missive di Dragojević erano cariche di angoscia e tormenti, sensi di colpa, retorica patriottarda; vergate nell’oscura speranza che proprio il nemico che lo aveva catturato potesse comprendere ciò che egli non riusciva a giustificare nemmeno di fronte a se stesso, nonostante al processo si fosse trincerato dietro la trita giustificazione, fatta propria dai criminali di ogni tempo e latitudine :”Ho obbedito agli ordini”. La stessa frase che troviamo in bocca alle SS, corpo volontario e non militari coscritti!!!
Viene ripreso uno scenario attinto dalle esperienze professionali dell’A.: lo sfondo internazionale, come in Undercover; anche se mutano i Paesi teatro della narrazione.
Ritengo particolarmente felice l’attenzione focalizzata sugli anni difficili della guerra nell’ex Jugoslavia; un periodo che, così almeno a me pare, è stato rimosso nel resto dell’Europa, Italia in testa. Proprio a ridosso di quel conflitto il mondo occidentale terrorizzato vide, con un istante di ritardo, il fungo di fuoco del primo aereo che, col suo carico di vite umane, si era appena schiantato sulla Torre Nord del World Trade Center di New York. Il terrorismo islamico -subito ridenominato con ipocrisia “internazionale”- catturò l’interesse dell’opinione pubblica, dei media, dei politici, dando spesso vita a posizioni ed iniziative, anche militari, sovente all’insegna dell’improvvisazione e della superficialità; dimenticando quanto la Storia sia spietata nel ricordarci come ogni evento sia, almeno per lo più, legato al precedente, al successivo, nonché ai fatti che accadono in contemporanea.
Ti emoziona la capacità di Riccardi di coinvolgerti nella narrazione. Ho sempre pensato come, per un autore, non basti avere buone idee, e forse non è sufficiente nemmeno saper comporre una storia interessante, ben scritta. Ciò che conta è che la storia piaccia all’autore stesso e che simile entusiasmo sia contagioso.
Nel nostro racconto il Passato -sia ormai lontano nel tempo, pur mai dimenticato; oppure sia tuttora palpabile poiché da esso ci separa solo una manciata di anni- e il Presente sono intimamente legati, tanto che, a volte, quasi si fatica a distinguerli. Ma è da tale interazione che nasce il fascino di questo libro.
Quando rivivi, attraverso la scrittura (da lui definita “una vita in più”), afferma Roberto, esperienze lontane, riaffiorano i ricordi, e perfino certi momenti, insignificanti all’apparenza, che credevi di aver dimenticato per sempre. In questa ricostruzione sta proprio la bellezza della scrittura: l’incontro tra il Reale e il Fantastico.
C’è poi un altro aspetto da non sottovalutare. Mentre le storie ”gialle” hanno, per lo più, un radicamento locale -e questo ne è comunque un suggestivo aspetto: pensiamo alle avventure del Commissario Maigret di George Simenon-, attraverso il personaggio di Rocco Liguori Riccardi dà una caratterizzazione internazionale di solido contenuto (psicologico, storico, culturale) a questo genere letterario. In Undercover passiamo dall’Italia, alla Colombia, al Messico, alla Spagna; qui lo scenario varia dall’Italia (Langhe, Roma), a Londra, all’Aia, a Cracovia; alla Bosnia e alla sua struggente bellezza, rivelazione per il lettore, per lo più portato ad immaginarla solo come un ambiente di guerra e morte, in un triste bianco e nero.
Vediamo alcuni personaggi, tutti coinvolti nella ricerca della verità su quell’avvelenamento, e non solo.
Mark Stone, colonnello britannico, dal curriculum travagliato, diffidente all’inizio nei confronti del protagonista. Rocco lo incontra di nuovo, dopo sette anni di Bosnia, a l’Aia, anche se, proprio quando Rocco vi giunge, l’inglese se ne sta per ritornare in Patria. Mark ci riserverà delle sorprese.
Silvia Loconte, il procuratore serio e rigoroso, non privo di una sua umanità, in grado di apprezzare in pieno le qualità del tenente italiano. Una sorta di “ambasciatore da una frontiera all’altra dell’odio”. Una donna che vale parecchi uomini; in grado di dar consigli a chi le chiede come faccio a riconoscere la donna giusta? “Facile!” risponde lei “la vedi la prima volta e sai subito che andrà tutto bene”.
Ivan Bisenić, carismatico capo del movimento pacifista, è docente di letteratura in un liceo.
Veniamo a sapere che è cresciuto insieme a Dragojević; essi, pur separati dalle idee politiche, sono uniti da solida amicizia. Il Professore ci appare come l’incarnazione del leader ideale per una Bosnia incamminata sulla strada della pace e della democrazia, con l’ingresso nell’Unione Europea in cima alle priorità. Si tratta davvero di una persona retta ed irreprensibile, impegnata nella ricostruzione, anche morale, del suo Paese, espressione della una nuova classe dirigente, capace di “fare i conti col passato e guardare avanti” o…c’è dell’altro? Chissà.
Jacqueline Molinari, giovane funzionaria della Croce Rossa: Bella, affascinante, sicura di sé, quanto, all’apparenza, imprevedibile, appassionata di canzoni napoletane e di cartoons, ottimo pretesto per distrarsi dalla realtà tragica in cui si trova ad operare. Conosciuta ai tempi della Bosnia, Rocco aveva intrecciato con lei una storia d’amore tanto intensa e fulminante quanto complicata ed irrisolta, come del resto capita per lo più al nostro protagonista.
“Forse mi piacque proprio per quei modi spicci che mettevano al bando ogni convenzione. Forse per i suoi occhi smeraldo che avevano visto orrori indicibili senza perdere il loro incanto”.
Inoltre era stata proprio Jacqueline (forse senza rendersene conto) a fornire a Rocco, per la cattura di Dragojević, spunti rivelatisi indispensabili. A l’Aia i due si ritrovano.
Quali segreti poi nasconde il Dr. Férenc Nyiszli, lo psichiatra ungherese che, a suo tempo, aveva curato Dragojević? Ora è a riposo e vive a…….. Rocco raggiunge quella città e si trova coinvolto in un universo tragico che il lettore scoprirà riga dopo riga.
Jelena, la ragazza dai tanti volti e identità, splendida nell’essenza primordiale e nella storia dolorosa, è figura chiave nella nostra storia.
Un posto a parte nel cuore del protagonista -e dell’Autore- lo ricoprono due figure, all’apparenza secondarie, ma ricche di umanità, personaggi reali, non nati dalla fantasia.
Si tratta di Steve Soriano, l’autista di Rocco, un carabiniere con accento oxfordiano -madre inglese, “papà di Pozzuoli”- e di Antonio, “novanta chili di simpatia per un metro e sessanta di finto cinismo”, accento barese “sopravvissuto all’apprendimento di varie lingue orientali”, lettore di italiano presso l’Università di Banja Luka.
Attraverso una trama palpitante, piena di finissime annotazioni psicologiche, dai risvolti imprevedibili e ricca di colpi di scena, poiché, ad ogni pagina, ti trovi di fronte ad un rovesciamento di sorti che non avresti immaginato, lo scrittore sa renderti partecipe di problemi universali, fa nascere in te domande difficili, ma ineludibili.
Ad esempio il nodo del contrasto tra GIUSTIZIA e VENDETTA, spesso arduo da districare.
Sono trattati temi difficili, scabrosi, in modo ancora più approfondito rispetto all’opera precedente. Uno dei motivi conduttori del racconto è che non esiste, di per sé, il male assoluto. Il col. Dragojević, con la sua divisa e la sua tragica storia personale incrocia la Grande Storia: ciò lo porta a commettere i crimini per i quali viene condannato. Li avrebbe commessi ugualmente se non si fosse realizzato questo terribile appuntamento? Per quanto mi riguarda, una risposta ce l’ho, ma non pretendo sia l’unica possibile. L’A. si muove con passione sulla linea sottile, o sull’abisso, che separa il bene dal male. Emblematici, a tale proposito, gl’incontri tra il protagonista e Dragojević.
Talvolta basta vedere una bambina correre su un prato felice incontro a suo padre per percepire “la bellezza dell’uomo”. Anche se la vita “lo ha sporcato” pensano l’Autore, il protagonista e noi con loro “mi è servito vedere sua figlia per riconoscere in lui la traccia di un’antica purezza”.
Il conflitto tra RAGIONE, SENTIMENTO e qualcos’altro che non saprei definire.
Quelle occasioni mancate, perdute: l’amore vissuto con trasporto sì, ma non fino in fondo: sembra quasi che il protagonista ne abbia paura. Lui si ferma un attimo prima, è sempre fuori tempo, con Jacqueline o con altre.
Di grande impatto è la tremenda scena iniziale, carica di dolore e sangue.
Il coraggio e la dignità con i quali la giovane partigiana bosniaca Samira (mamma di due bambini) sa affrontare la brutalità di Dragojević sono pagati da lei con la vita.
Nel corso del romanzo si comprenderà che questo prologo all’inferno non è affatto un abile, ma in fondo banale, espediente escogitato dallo scrittore per introdurre chi legge nell’ambiente che fa da sfondo al romanzo, bensì un tassello fondamentale nell’appassionante vicenda.
Una precisazione in chiusura, a proposito del titolo di questo romanzo che consiglio assolutamente a chi mi legge: per divertirsi, ma anche per riflettere.
Fino a maggio (e anche oltre) il titolo scelto era Nessuno è innocente; io stessa ne parlo al termine del commento a Undercover. Poi, racconta Roberto, durante la presentazione di un altro libro a Roma a cura di e/o, l’occhio gli cadde per caso su un volume dal titolo Nessuno è innocente.
“Panico totale, perché non si sapeva come fermare le…macchine. Dopo aver trascorso una nottata a riesaminare il testo, fu scelta una frase emblematica pronunciata da Rocco verso la conclusione del romanzo”.
Titolo piaciuto, nei giorni successivi, a tutte le persone coinvolte nella pubblicazione.
Assai più del primo prescelto.
[1] V. commento su questo sito (Agosto 2013), dov’è leggibile una breve biografia dell’Autore.
[2] Creato con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU n. 827 del 25 maggio 1993 e situato all’Aia, è la prima Corte per crimini di guerra istituita in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale. Suo ambito di competenza sono gli eventi relativi a quattro diversi conflitti: in Croazia (1991/1995); in Bosnia-Erzegovina (1992/12995); in Kosovo (1998/1999), in Macedonia (2001).