(Titolo originale Esh yedidutit)
Trad. Alessandra Shomroni Ed. Einaudi (Febbraio 2008) pp. 400
“A nessuno [qui] preme decidere chi è ebreo, israeliano, o magari cananeo…..se Israele …..ha ancora qualche speranza di sopravvivere o se è arrivato al capolinea. La gente intorno a me non cerca di sciogliere questa matassa aggrovigliata che esaspera e confonde….”
Il nuovo romanzo di Abraham B. Yehoshua è una sorta di dialogo, per lo più a distanza, tra due coniugi residenti a Tel Aviv, sposati da oltre trent’anni, Amotz e Daniela Yaari; un duetto, così recita il sottotitolo, nel quale l’uno, anche quando canta da solista la sua parte, si riferisce inevitabilmente all’altro.
La vicenda si dipana durante la settimana di Hanukkah in luoghi apparentemente lontani tra loro, Israele e la Tanzania. Ognuno dei sette capitoli del romanzo (dalla “Seconda” all’ “Ottava Candela”) è suddiviso in diversi paragrafi omogenei, che si svolgono, alternativamente, in queste due realtà.
Protagonisti sono due gruppi familiari, legati da un vincolo di parentela, o meglio un variegato gruppo e un uomo, rimasto solo dopo che ha perduto figlio e moglie, intorno al cui dolore ruota tutta la storia.
Nella prima famiglia ecco il marito, Amotz Yaari, sessantenne ingegnere edile, uomo positivo, capace di grandi slanci, attento all’aspetto deontologico della sua professione, che lo fa talora apparire ingenuo agli occhi di Gottlieb, costruttore di cabine per ascensori, persona di diversi anni maggiore di lui, spregiudicata, che non va troppo per il sottile nello scaricare responsabilità professionali sul prossimo, a cominciare dagli appaltatori. I due sono coinvolti in un problema insolito, del quale non riescono ad intravvedere la soluzione: nel vano ascensori del grattacielo Pinsker di Tel Aviv, dove entrambi hanno operato, rumori misteriosi, assomiglianti a sibili e rimbombi, udibili in primo luogo nelle giornate di vento, terrorizzano e suscitano le ire degli abitanti dello stabile.
Amotz è innamorato della moglie, Daniela, insegnante di lingua inglese, quasi coetanea. Sorridente, socievole, un po’ pigra, immancabilmente golosa di dolci, è un tipo all’antica, di quelle abituate, da ragazze, a stare ore al telefono senza curarsi delle incombenze familiari, assai indulgenti con se stesse perché, si sa, per svolgere qualsivoglia incombenza, “hanno i loro tempi” e non c’è verso di modificarne il ruolino di marcia.
Alzi la mano chi non annovera, tra amiche o conoscenti, una Daniela Yaari.
Entrambi i coniugi, poi, specie la moglie, hanno i modi e i tratti di due sessantenni come li si immaginava una ventina di anni fa, non oggi, nel 2008. A Daniela, anzi, l’Autore non manca di affibbiare ad ogni pié sospinto l’appellativo di “donna anziana”: è una licenza della traduttrice Alessandra Shomroni o Abraham Yehoshua stesso si è divertito a prendere benevolmente in giro la sua protagonista?
Amotz, o, come l’Autore lo chiama sovente, per cognome, Yaari, nutre nei confronti della consorte un atteggiamento protettivo: i due vivono in una sorta di simbiosi. Non è mai successo, ad esempio, che uno avesse intrapreso un viaggio senza l’altro. Ciò è accaduto fino al giorno in cui…..Daniela decide di recarsi a Morogoro, in Tanzania, dove si è stabilito Yirmiyahu (Geremia, il più drammatico tra i profeti biblici), vedovo della sorella maggiore di lei, Shuli.
Sulla famiglia di Yirmiyahu si è accanito da tempo il destino.
Sette anni prima, il loro figlio maschio, Eyal, venticinquenne, durante un’azione militare a Tulkarem, in Cisgiordania, era stato ucciso per errore dai commilitoni, che l’avevano scambiato per un ricercato al quale stavano dando la caccia. Shuli si era chiusa nella sua disperazione, rinunciando perfino ad avere rapporti sessuali col marito per non distrarsi, nemmeno un istante, dal pensiero del ragazzo perduto e, sopraffatta dal dolore, era morta sei anni dopo nella località della Tanzania dove la coppia si era stabilita poiché Yirmiyahu (detto Yirmy) era a capo di una piccola rappresentanza diplomatica. Morta la moglie, egli non era più ritornato in Israele; anzi, dopo la chiusura del suo ufficio, aveva chiesto ed ottenuto di seguire come contabile una spedizione paleontologica, tutta africana, impegnata, all’interno della foresta, nel portare alla luce i resti di quel primate che può considerarsi l’anello di congiunzione tra la scimmia e l’uomo.
Molto meglio prendere parte ad una missione scientifica che s’interessa di realtà lontane migliaia e migliaia di anni che confrontarsi con la storia attuale e le sue angosce, no?
Daniela, dal canto suo, è trepidante di fronte alla nuova esperienza intrapresa, ma, nello stesso tempo, lieta di misurare le proprie capacità in un contesto così insolito per lei. Ella, che aveva affrontato un lungo viaggio in un Paese straniero per essere vicina alla memoria dell’amata sorella, si trova invece a fare i conti con la complessa personalità del cognato, il cui rifiuto nei riguardi del proprio Paese e di tutto ciò che ricorda, anche in senso fisico, il mondo ebraico, la colpiscono profondamente. Yirmy non si reca nemmeno all’aeroporto per accoglierla, nel timore di incontrare dei connazionali; manda al suo posto una persona di fiducia, Sijn Kuang, una giovane sudanese, infermiera della spedizione, la cui famiglia è stata sterminata durante la guerra civile che ha sconvolto la sua Patria. La donna è un personaggio pratico, solare, di religione animista; ella crede negli spiriti sacri che s’incarnano in alberi e in pietre. Suscita l’ammirazione di Daniela quando afferma, con sicurezza, che ogni essere umano può entrare in contatto con gli spiriti in maniera indipendente, secondo la propria sensibilità, senza bisogno di sacerdoti o intermediari diversi. Yirmiyahu la tiene in considerazione perché ella è qualcuno di “totalmente altro”, che nulla sa di quanto gli è successo, non formula domande, né pretende risposte; ma intuisce tutto, anche se non lo manifesta apertamente, di quell’uomo strano, che definisce, in modo perspicuo, “viziato”.
Da dove nasce il rifiuto di Yirmy, radicale al punto di dar fuoco perfino ai giornali israeliani e alle candele di Hanukkah che Daniela premurosa gli aveva portato?
Nasce dal fuoco, appunto; dal fuoco che è considerato qualcosa di vivo, cambia forma, colore, consuma, produce suoni, riscalda; è l’unica cosa che l’uomo può sopprimere o riportare in vita, come afferma in una suggestiva pagina il capo della spedizione scientifica, il tanzaniano Selohe Abu. Il fuoco è portatore di vita, certo, ma può anche essere foriero di morte: come è successo a Eyal.
“Fuoco amico”. E’ l’espressione che pronuncia, quasi senza accorgersene, Daniela davanti all’ingresso di una capanna di pastori dove una fiammella arde in permanenza, circondata da pietre nere di basalto “Fuoco amico” aveva detto Amotz al cognato nell’annunciargli la morte del figlio, sette anni prima, quasi a titolo di consolazione, senza rendersi conto che morire per mano dei “nostri soldati è cento volte più crudele che morire per mano del nemico”.
Quelle due parole “Fuoco amico” sono un’ossessione per Yirmiyahu, le ripete spesso dentro di sé, forse nella speranza, vana, di trovare una chiave di lettura salvifica della propria tragedia.
Poco dopo la morte di Eyal avrebbe voluto conoscere l’identità del militare che aveva sparato; non per vendicarsi, ma, al contrario, per alleviare, nel cuore di chi aveva fatto partire il colpo, l’angoscia causata da quel “Fuoco amico”. Ma, paradossalmente, è proprio la solidarietà manifestata ai genitori dagli altri soldati, la loro partecipazione, il loro affetto, che inducono il padre a cambiare direzione. Senza dir nulla alla moglie, egli riesce a giungere sul luogo della tragedia e a salire nottetempo sul tetto di “quella casa” di Tulkarem per rivivere “quegli ultimi istanti”. Riuscirà a comprendere la causa, banalissima e inimmaginabile, della morte, ma non a darvi un significato.
Proprio nella disperata ricerca del significato, tenta un approccio con gli abitanti palestinesi della casa, nell’illusione che il gesto di riguardo di Eyal verso costoro, vera causa del successivo errore dei militari, susciti un briciolo di comprensione e di solidarietà. Nulla di tutto questo.
Si trova a fronteggiare una ragazza incinta, con velleità da terrorista suicida, il personaggio più duro della famiglia, la quale, in un “ebraico dolce” gli sciorina, per spiegare una storia lunga e difficile che mal si presta alle semplificazioni, la trita versione (euro)palestinese della povera gente privata della terra, dell’acqua, della libertà per colpa degli…invasori, penetrati in luoghi che sono “loro estranei”. Una versione che sappiamo essere falsa, ma che, nel tempo, grazie a revisionismi vari, ad uno spregiudicato uso dei mass media, per un verso, e a complicati meccanismi psicologici messi in atto dal comune sentire europeo (che non ha mai digerito il peso della tragedia della Shoah e cerca di continuo il pretesto per alleggerirlo) per altro verso, ha acquistato legittimazione e con la quale, ci piaccia o no, dobbiamo fare i conti, come se si basasse su dati autentici.
Nelle parole della giovane non vi è una goccia di sofferenza, né men che mai senso della tragedia, solo odio e disprezzo allo stato puro. Comunque quello che…fa cassetta.
Esprime assai meglio il dramma palestinese -dramma di un popolo da sempre dominato da una leadership, quella sì, che gli ha tolto la dignità, non capace che di odiare allevando a tale scuola i propri figli- l’uomo anziano che fa preparare dalla moglie al giovane soldato, appostato sul tetto, Eyal appunto, un caffè; il caffè lo terrà sveglio, egli pensa, così a me non verrà la tentazione di ucciderlo.
La mite Daniela riesce a mantenersi lucida nell’udire le parole pronunciate dalla giovane, mentre Yirmy ne resta ipnotizzato, sia quella notte, sia successivamente, nel racconto alla cognata.
L’ombra cupa di assurdità che ora copre la sua vita impone a lui di troncare ogni rapporto con il proprio Paese, le sue tradizioni, le sue vicende; di allontanarsi, come spiega, dal “minestrone ebraico”.
Basta, Daniela, ho settant’anni e il diritto di allontanarmi da tutto. Rabbia, rancore…..
Egli confessa di aver riletto, dopo la morte di Eyal, i profeti biblici, compreso il suo omonimo, che definisce violenti ed irosi, il cui messaggio è affatto, a suo dire, portatore di libertà e giustizia universali, bensì espressione della rabbiosa gelosia di D-o nei confronti del “popolo eletto”, esclusivo destinatario delle sue attenzioni.
La consapevolezza che il figlio non avrebbe mai potuto godere delle meraviglie descritte nel Cantico dei Cantici gli provocano un tale dolore da indurlo distaccarsi per sempre dalla Bibbia (e da altri testi, da lui definiti “inutili”).
Impermeabilità, che nemmeno la saggezza di Daniela riesce a smuovere. Ad un certo punto, anzi, nel corso di un drammatico faccia a faccia che è tra le pagine più belle del romanzo, ella -nel proprio intimo furiosa anche con Amotz perché stavolta non è lì con lei, ad aiutarla, in un frangente tanto difficile- lo accusa, con parole taglienti di aver, lui, aperto, un….fuoco amico contro la famiglia, contro Shuli, contro la felicità sessuale di entrambi e di aver lasciato che la moglie si spegnesse poco a poco.
Chi legge si sente totalmente dalla parte di Daniela; ma non può, nello stesso tempo, che condividere la disperazione di Yirmiyahu, personaggio irritante, ma ricco di fascino, che sembra uscito dalle pagine della Bibbia o da una tragedia greca.
Troncare i legami col proprio Paese, ma, nello stesso tempo, provare un forte timore per la sua sorte, pur non risparmiandogli frecciatine astiose: “Anche volendo Israele non riuscirà ad autodistruggersi”….
Prendetevi cura gli uni degli altri, in Israele -si raccomanda Yirmiyahu al momento del commiato- lì, cioè in Israele, sì che c’è da stare in ansia….e se per caso dovessi sentirti in ansia anche per me, manda qui Amotz…..ma che venga senza giornali e senza candele: andremo a fare un giro nei dintorni.
La preoccupazione per la sorte della Patria, vissuta da Yirmiyahu in modo così tormentato, al di là dell’atteggiamento da cinico totale, non sembra, in apparenza, toccare Amotz, impegnatissimo, durante l’assenza della moglie a mandare avanti il variegato gruppo familiare.
Com’è composta la…compagnia cui egli si trova a sovrintendere, con buona volontà unita sovente ad un certo goffo imbarazzo nelle incombenze domestiche, che contraddistingue gli uomini di quell’età, che sono poi quelli della mia generazione (o che dunque sento particolarmente vicini)?
In primo luogo ci sono due figli. La minore, Nofar, occupata nelle attività di volontariato presso l’ospedale Shaarei Tzedek di Gerusalemme, è una ragazza introversa, che ancora non ha superato il trauma adolescenziale per la morte del cugino Eyal, suo primo amore. Il maggiore, Moran, che collabora professionalmente col padre, è invece vivace, estroverso e desidera vivere un’esistenza serena, lontana da teatri di guerra; per questo, non avendo risposto all’ultimo richiamo nell’esercito, viene messo agli arresti. E’ sposato con Efrat, giovane donna inquieta, perfettamente consapevole del fascino esercitato sugli uomini, che trascura i figli, Neta, di 5 anni, e Nadi di 2, spesso affidati alle cure delle nonne, Daniela e Yael; quest’ultima è un tipo pittoresco, che tuttora suscita interesse nel marito divorziato (con prevedibile disappunto della giovane compagna di lui…).
Amotz comprende al volo che c’è aria di crisi tra i giovani sposi e, spedite in soffitta per un po’ le comode abitudini, si adatta a fare il baby sitter e a favorire la riconciliazione tra figlio e nuora.
Non manca un nonno, bisnonno per i bambini. E’ Yoel, padre di Amotz, anch’egli, a suo tempo, progettista di ascensori. Novantenne, mente ancora lucidissima, è tuttavia afflitto da una grave forma di morbo di Parkinson che lo costringe su una sedia a rotelle, amorevolmente curato da una famiglia di filippini. Yaari senior-senior è un uomo intrepido: ama sfidare il vento e la pioggia, ben attrezzato con impermeabile e berretto calcato sulla testa, spinto dai pazientissimi “badanti”; in barba all’inquietudine del figlio, che egli rimprovera e comanda a bacchetta come se fosse un adolescente.
Ma Amotz sopporta per amore dell’armonia familiare, specie in questa settimana di Hanukkah dove ci si deve districare tra accensione delle relative candele in casa di questo quel parente, impegni professionali, nipoti da prelevare a scuola e visite al figlio confinato nella base militare.
Proprio adesso se ne doveva andare, Daniela…..le mogli riservano a volte delle sorprese; per esempio quella partenza da sola, col pretesto di, come si dice, “elaborare il lutto” per la morte della sorella, rivela un lato avventuroso del carattere di lei, che egli non avrebbe mai immaginato.
Anche il vecchio Yoel ha una sorpresa in serbo: la passione mai sopita per una signora di oltre ottant’anni (la c.d. “ragazzina”), una psicoanalista, Dvora Bannet, ancora straripante di vita, che gli era stata vicina in momenti difficili. “Entusiasmo romantico”.
Tanti anni prima Yoel aveva installato nell’appartamento di Dvora, a Gerusalemme, un piccolo ascensore, per così dire “fabbricato a mano” in ordine al quale aveva promesso una garanzia vitalizia. Ebbene, quando il marchingegno, complice l’usura del tempo, si guasta, l’anziano progettista tanto insiste che riesce a non solo a persuadere il figlio a smontarlo per farlo riparare, ma addirittura farsi accompagnare dal suo antico amore per verificare di persona il problema tecnico e tener fede all’impegno; ma non solo….
Commovente il ritratto di questo amore over eighty. Amotz non ha un istante libero; e per fortuna che, alla fine, viene individuata la causa dei sibili e rimbombi presenti nel vano degli ascensori del grattacielo Pinsker! Ciò avviene grazie a Rorale, una sorta di folletto Puck, donna dall’età indefinibile, ma esperta nell’individuare di suoni e rumori grazie ad un orecchio assai esercitato nella musica .
Yaari sa tenere salda la barra di comando nella navigazione di questa famiglia, che una spiritosa e competente signora, Magistrato presso la Corte d’Appello di Milano, in vena di neologismi, non esiterebbe a definire famiglia “confusiva”. Confusiva, ma piena di risorse.
E’ proprio “alla famiglia, con amore” che il romanzo è dedicato.
La storia era partita da una scena centrata su una relazione coniugale. La relazione coniugale è uno dei temi più cari ad Abraham Yehoshua: è complessa, tuttavia fragile, basta un nonnulla per romperla; lo scrittore ne fa pure un emblema delle questioni politiche e sociali. Da essa era partita la storia; ad essa ritorna, dopo un viaggio circolare tra passato -in Tanzania, alla ricerca del primo antenato- e presente -Israele, le sue tremende inquietudini impastate con una traboccante voglia di vivere-. E Daniela fa da ponte tra i due mondi.
Alla fine tutto si ricompone: lei persuade il marito riluttante a intonare il tradizionale Roccia della mia salvezza (Ma’oz Tzur):
“….Ma non ti succederà niente, lo rassicura ironica, se lo canterai con me, in duetto”.