Ed. Rizzoli, Collana Altri eroi, Milano, Ottobre 2013, pp. 253,    €.17,50
“Sono sicura che Chiara conoscesse la gioia e sapesse comunicarla alle sorelle”
 
Intenso ed originalissimo l’ultimo libro di Dacia Maraini, la “scrittrice italiana più conosciuta al mondo”, come annota la quarta di copertina.
Chiara di Assisi-Elogio della disobbedienza, uscito il mese scorso con Rizzoli, è un eccellente regalo, in un contesto di materialismo e relativismo diffusi come l’attuale, in cui “tutto si compra e si vende”, nonostante il periodo di grave crisi economica in cui viviamo. Infatti recuperare quello che la protagonista, nata ad Assisi oltre ottocento anni fa, ma modernissima nel profondo, definisce “il Privilegio della Povertà”, è un programma di libertà di altissimo valore. Si tratta, va da sé, di una condizione di Povertà liberamente scelta, per un alto ideale ascetico; banale sarebbe lasciarsi andare a scontate battute di spirito.
L’opera è l’incontro, così si legge nella breve introduzione, tra un’autrice, la quale attraverso la parola ci ha fatto, e ci fa, conoscere, un impagabile universo esistenziale  -pensiamo, tra i tanti romanzi, a La lunga vita di Marianna Ucrìa (Premio Campiello 1990)- e una donna alla quale, a causa del contesto in cui è vissuta, la parola è stata tolta, senza peraltro che alcuno sia mai riuscito a piegarne l’adamantino carattere.
La Storia, declinata al maschile, ci mostra la figura di Santa Chiara di Assisi per lo più all’ombra del concittadino San Francesco: “Pianticella del santo padre nostro Francesco”, così viene chiamata dalla letteratura religiosa. Addirittura qualcuno ne ha perfino messo in dubbio, per screditarla, la reale esistenza.
Ma seguiamo il filo rosso del racconto. Una studentessa siciliana, Chiara Mandalà, amante vorace della lettura -figura reale o artificio letterario, non importa- si rivolge per lettera all’Autrice (le cui opere pare ben conoscere), affinché quest’ultima la aiuti a vedere meglio in se stessa attraverso un insolito percorso. La ragazza desidera infatti che la “cara scrittrice”, così la chiama nelle sue missive, l’accompagni attraverso la conoscenza della vita e personalità di Chiara di Assisi, della quale ella  porta il nome, poiché è nata lo stesso giorno in cui si festeggia la Santa, l’11 agosto, anniversario della morte: “Vorrei” chiede “ che Lei scrivesse qualcosa sulla Chiara di quell’epoca per farmi capire qualcosa della Chiara di oggi”.
Dacia all’inizio è riluttante poiché nulla sa di tale mistica figura, né le interessa intraprenderne la conoscenza. Poi via via si fa coinvolgere.
La giovane, pur confessando le proprie insicurezze di vita, mostra una notevole capacità di autoanalisi, non comune alla sua età, e un temperamento fermo, tale da indurre la, come si usa dire con improprietà, “laica” interlocutrice, dapprima ad interessarsi del Medio Evo, un periodo storico cui, fino ad allora, non aveva prestato particolare attenzione, e a studiarlo con cura compulsando testi e approfondendo tematiche fino a quel momento lontane dai suoi orizzonti; indi a concentrarsi proprio sulla figura della Santa, tanto da leggere diversi volumi che la riguardano.
Anzi, ad un certo punto, la scrittrice confessa di aver l’impressione di “scivolare pian piano dentro un’epoca lontanissima, eppure più vicina di quanto non crediamo”. E comincia a scrivere…..A scrivere su Chiara di Assisi.
Complice il fatto che la studentessa all’improvviso interrompe la corrispondenza (ma, figura sorprendente, ritornerà in scena), Maraini intraprende da sola un autentico viaggio alla scoperta di Chiara Scifi (Assisi 1193 -circa- 11 agosto 1253), figlia di Favarone di Offreduccio ed Ortolana Fiumi, fondatrice dell’Ordine delle Clarisse, santificata solo due anni dopo la morte. Di nobile e ricca famiglia, destinata -come ogni fanciulla del suo rango- ad un proficuo matrimonio, diciottenne, la notte della Domenica delle Palme del 1211, lascia la casa in cui è cresciuta, fuggendo da una porta secondaria. Raggiunge al vicino Convento di S. Maria degli Angeli, detto la Porziuncola, Francesco -figlio del facoltoso commerciante di stoffe Pietro Bernardone-, il “folle” trentenne, che aveva visto, qualche anno prima, spogliarsi davanti al vescovo Guido e alla città: un gesto simbolico a significare l’inizio di una vita di totale dedizione ai valori evangelici.
Chiara è irresistibilmente attratta da quell’altissimo ideale e si ritirerà dal mondo per intraprendere, con una coerenza che mai venne meno, un’esistenza claustrale all’insegna della povertà assoluta e della libertà di “non possedere”.
Et lo Privilegio [sic!] de la povertà lo quale era stato concesso, lo honorò con molta reverentia, et guardavalo bene et con diligentia, temendo de non lo perdere”, questo ci tramandano gli scritti che parlano di lei nel processo di canonizzazione. Tali scritti sono espressi in una suggestiva lingua cinquecentesca, opera di traduzione dall’originale latino (che non abbiamo) per la quale siamo grati ad una sconosciuta monaca di clausura.
Chiara, grazie ad una dolce ma fortissima personalità, che peraltro si era manifestata fin dalla fanciullezza, riesce ad attrarre nel suo progetto la parte femminile della famiglia: dapprima le due sorelle minori, Agnese e Beatrice, indi la madre, Ortolana; nonché una nipote, Balvina.
La…giovane disobbediente  avrebbe voluto andare in mezzo alle persone comuni, soccorrere i poveri, alla stregua di Francesco e dei suoi discepoli. Era contraria alla clausura poiché toglieva “alle suore la libertà di muoversi in cerca di cibo, elemosina o lavoro per sostenersi”. Purtroppo ciò era inimmaginabile a quei tempi ed a questo ella dovette rinunciare [1].
Tuttavia la grandezza della Santa sta proprio nella realizzazione del suo progetto di totale ed intoccabile libertà interiore, vissuto nonostante i limiti imposti da un contesto plasmato secondo la logica maschile, nella quale la donna era creatura priva di autonomia di vita e di pensiero.
Libertà -sottolinea chi scrive con la rara, superiore perspicacia che contraddistingue sovente chi, dichiarandosi “laico”, pone l’attenzione a questi argomenti- dettata da “una fedeltà ancor più profonda alle proprie scelte religiose. Padrona di sé, autonoma nell’elaborazione di un pensiero proprio, rivendicatrice di una libertà, se non sociale [impossibile, come detto, all’epoca], per lo meno psicologica e mentale”; e coniugando un’adesione formale, pur necessaria, alle regole misogine disposte dalla Chiesa/Istituzione, con una prassi di libertà.
La grande saggezza di Chiara -e di Francesco- sta nel fatto che essi non si sono mai opposti alla Chiesa, contrariamente ad altre figure loro contemporanee (come Pietro Valdo, ad esempio); anzi hanno cercato di far ritrovare alla Chiesa stessa le sue radici, il “suo rivoluzionario esordio di uguaglianza, il suo amore per il diverso, anche se questo diverso è una donna”.
Una destrezza diplomatico-politica, si legge nel libro, che ha dato molto alla Chiesa. Una ricchezza peraltro difficile e scomoda da vivere e da mantenere, come sappiamo.
Parole sagge, quelle della scrittrice, in grado di farci riflettere sulla notevole differenza tra i racconti evangelici, i quali ci presentano Gesù in un rapporto con le donne del tutto originale e paritario -in grado di spiazzare i contemporanei e, in primo luogo, i discepoli più fedeli- e la posizione della Chiesa nei confronti delle donne stesse, nel corso dei secoli e purtroppo ancora oggi, volta ad imporre loro un modello preciso e discriminatorio, suggellato da motivazioni (pseudo) teologiche.
Scrive Maraini con profonda perspicacia: “La tradizione richiedeva separazione e gerarchia tra la figura del padre, della madre, del figlio o della figlia. Mentre la rivoluzionaria libertà…proposta da Chiara faceva saltare tutte le differenze e nella grande franchigia ogni padre poteva essere anche madre, ogni figlio sposo, ogni figlia sorella e madre”.
Aspetto drammatico nella vita della Santa -forse, si ipotizza nel testo, misteriosamente collegato alla forzata vita claustrale, dalla quale seppe peraltro  ricavare il suo luogo di “predicazione, riflessione, passione” e realizzare così un’invidiabile libertà propria- fu la malattia che la tormentò per circa trent’anni, dal 1224 fino alla morte. Un’affezione di cui si sa poco -forse una grave forma di artrite reumatoide- che la costrinse per lo più all’immobilità, senza peraltro scalfire la sua preziosa influenza.
Nel mondo esterno: grande era il richiamo della sua figura, e non solo dal punto di vista spirituale, perché riusciva a far scomparire, o almeno ad attenuare, dolori, specie nei bambini (i “mammoli”, come li chiamava con tenerezza), tramite la semplice imposizione delle mani.
Ma, ovviamente, pure presso le consorelle, grazie alla pazienza, all’esempio e all’autorevolezza della sua guida. Si pensi, per esempio, a come non rinunciasse, nonostante le gravi sofferenze da cui era colpita, al lavoro; lavoro che non produceva utili, in conformità alla severa regola di vita. Le “Povere dame” infatti non maneggiavano danaro e vivevano di ciò che veniva loro donato.
“Niente di garantito e sicuro, si doveva vivere giorno dopo giorno” annota l’Autrice ed aggiunge in modo perspicuo: “Era questa aleatorietà che offendeva l’organizzazione del potere. Profondamente eversiva e radicale, questa convinzione portava…un’idea di libertà anarchica ed egualitaria senza limiti, che non poteva essere accettata da chi teneva le redini in mano”.
La vera erede di Francesco è Chiara; morta nel 1253 e santificata, come detto, solo due anni dopo. Perché? Una sorta di riparazione per il fatto che la sua Regola fu approvata da Papa Innocenzo IV due giorni prima della dipartita di lei da questo mondo o magari, piuttosto, l’esigenza di mitigare in qualche modo la portata rivoluzionaria di quell’esempio, come era accaduto, anni prima, con la Regola di Francesco?
Come che sia, ben presto fu approvata dal Pontefice una Nuova Regola, valida per tutti i conventi, che mandò all’aria la pretesa di assoluta povertà richiesta dalla Santa.
Un bellissimo libro/testimonianza, che lessi diversi anni fa, è Claire-Pascale JEANNET, Santa Chiara d’Assisi, Ed. Messaggero, Padova, 1990, pp. 253. L’A.,  una monaca francese, lo scrisse rivivendo l’esperienza di Chiara anche con un lungo soggiorno ad Assisi. L’opera è arricchita dalla  collaborazione di  vari monasteri di clarisse, dello studioso di francescanesimo p.  Thaddée Matura e dal coordinamento di p. Michel Hubaut.
Dacia Maraini non  si stanca di sottolineare come la figura di Chiara vada contestualizzata “…mi pare pericoloso giudicare Chiara con gli occhi di oggi. Se vogliamo avvicinarla, dobbiamo capire gli enormi ostacoli che si è trovata davanti e che ha potuto superare”, grazie alla fedeltà granitica ai suoi principi, senza tuttavia mai cedere alla protervia, al rancore, al fanatismo. Fedeltà che ci emoziona ancora in un’epoca, come l’attuale, che oscilla tra intransigenza ottusa, specie in campo religioso, e grigio, quanto vacuo, relativismo.
La presente lettura ha riportato alla luce un mio ricordo personale lontano nel tempo, emerso con delicata intensità: una visita fatta alla grande Basilica di Santa Chiara, in Assisi.
L’incontro avvenne alcuni decenni or sono, poco dopo Natale, allorché partecipai ad un Convegno Universitario, tenutosi nella cittadina umbra e indetto dalla Pro Civitate Christiana, un’associazione culturale di laici consacrati costituita da Don Giovanni Rossi nel 1939.
Un pomeriggio sereno di dicembre ci recammo, piccolo gruppo di amici, presso la Basilica e restammo affascinati dal luminoso clima di pace che vi regnava. Avemmo anche l’opportunità di scambiare qualche parola con una delle claustrali. Un’esperienza davvero unica.
Ci separava da lei una sorta di doppia barriera, costituita sia dalla grata in ferro delimitante il parlatorio, sia dal velo nero che la religiosa portava sul viso per nascondere le proprie sembianze ai visitatori -chissà se tale consuetudine, per noi stravagante, vige ancora-, ma non ci furono imbarazzi di sorta nell’incontro con questa donna dalla voce giovane ed argentina, con accento dell’Italia centrale, della quale mi colpì non solo la profonda fede espressa in poche, semplici frasi,ma soprattutto il fatto che fosse perfettamente informata su ciò che accadeva nel mondo esterno e, in particolare, nella mia città, Bologna! Mi venne spontaneo pensare: qui la gente dev’essere felice.
Anche tra queste mura, che forse sono tali solo all’apparenza. Ovvio che è indispensabile una vocazione davvero robusta, come quella di Chiara, per percorrere una strada che parrebbe tanto lontana dal nostro vivere di tutti i giorni. Ma si sa, le vie di D-o sono davvero infinite e realtà all’apparenza diverse possono incontrarsi in modo semplice e immediato.
Dacia Maraini ci dona un saggio storico/esistenziale (con ricca bibliografia in calce) affascinante come un romanzo; anzi un romanzo in piena regola. Una storia di genuino sapore medievale, aspro e dolce al tempo stesso, che pone in luce la densa spiritualità di chi scrive (Dacia) e di chi è ritratta (Chiara).
Il linguaggio è limpido, talora quasi trepidante, ma preciso, cristallino come si conviene al personaggio con il quale si entra in sintonia. L’A. compie un viaggio all’interno di questa grande figura di donna -non valorizzata come merita poiché non è stata compresa fino in fondo- e all’interno di se stessa. E ci coinvolge nelle sue riflessioni sul valore della Paternità (tuttora spesso misconosciuto), sulla Morte, sulla Malattia, sul Corpo, quando si sofferma sulla malattia di Chiara, di come essa abbia influenzato -in negativo e pure talvolta in positivo- la sua esistenza.
Particolari vivi e toccanti, come quello di una gatta (la “gatuccia”), della quale negli scritti su Chiara non si fa il nome, ma che pare comprendesse le sue parole; o l’attenzione posta sul significato dell’episodio -reale o leggendario, poco conta- di Francesco che incontra il feroce lupo di Gubbio, quale simbolo della pari dignità di tutti gli esseri viventi e di quanto poi sia prezioso il rispetto reciproco tra culture, tradizioni, esperienze religiose, che pongano a base della propria ragion d’essere la sacralità della vita.
Altro aspetto interessante inserito nell’opera è un breve, ma esaustivo,  studio sul misticismo medievale femminile; una spiritualità certo lontana dalla nostra, a cominciare dalle modalità con cui vive e si esprime, ma ricca di contenuti e venata di una forte carica di sensualità. Un mondo nascosto nei cassetti dei monasteri per secoli, guardato con un certo sospetto dai teologi e dalle autorità ecclesiastiche, le quali vedevano con diffidenza, o peggio, la pretesa di queste donne di mettersi in comunicazione diretta col Signore “senza la mediazione dei chierici”. Un tesoro da riscoprire.
Concludo riportando un particolare, non so quanto attendibile, ma che definirei intrigante.
Il Santo cristiano per antonomasia, Francesco, aveva una, sia pur lontana, origine ebraica?  Qualcuno lo ha ipotizzato. Chi lo sa….
Nel suo celeberrimo inno d’amore per tutta la Creazione “Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spezialmente messor lo frate sole….” non udiamo forse un’eco di Isaia nell’altrettanto famoso capitolo 11, 6-9 (“…Il lupo dimorerà insieme con l’agnello…il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà”)?
E che dire del rispetto assoluto per il Santo Nome: “…e nullo homo ène dignu te mentovare..”?
Assonanze che mi hanno sempre affascinato, al di là di fedi, spiritualità, esperienze.


[1] A proposito delle problematiche sollevate dal monachesimo occidentale, notevole è, tra i tanti testi: Clifford Hugh LAWRENCE, Il Monachesimo medievale. Forma di vita religiosa in Occidente, Ed. San Paolo, Milano, 1993, pp. 400 e ivi, in particolare, pp. 338-339.