Trad. dallo yiddish  di Erri de Luca, Ed. Feltrinelli, Milano, collana Narratori, Novembre 2013, pp. 104  €. 9,00
“Cos’è la tristezza? Benzina sul fuoco del demonio!”    “Hitler chi? Hitler cosa? E’ solo il vecchio spirito del male”
                Una scoperta affascinante.
Erri De Luca, scrittore, cultore e traduttore autodidatta dall’ebraico e dallo yiddish (nonché, lui napoletano, grande appassionato di montagna!), ha rinvenuto, e tradotto nella nostra lingua dall’originale yiddish, due testi, finora sconosciuti al pubblico italiano, dei due celebri fratelli, Isaac Bashevis (Premio Nobel per la Letteratura 1978) e Israel Joshua Singer [1], i cantori più illustri del mondo magico e doloroso degli shtetlekh [2] est-europei che i nazisti hanno in gran parte bruciato nelle fiamme della Shoah.
Sono così riuniti in un unico, delizioso libretto edito da Feltrinelli e leggibile da due lati: da una parte, l’ultimo capitolo inedito de La Famiglia Mushkat di Isaac Bashevis e, dall’altra, un racconto -pubblicato negli USA nel 1949, finora mai apparso in italiano- La stazione di Bakhmatch di Israel Joshua.
Come confessa nell’introduzione, De Luca ha inteso sfidare la storia del secolo scorso: ha studiato una lingua che pareva essere stata ammutolita dalla ferocia degli uomini e che invece, pian piano, è risorta e ora “qualcuno la impara, la traduce, la bisbiglia e la canticchia…”.
Linguaggio non per pochi eletti, si badi, perché, come afferma un contemporaneo dei Singer, Haim Zhitlovski: “Non siamo una piccola percentuale degli altri. Siamo il centopercento di noi stessi”.
La casa editrice Feltrinelli ha ottenuto qualche tempo fa dal figlio di Isaac Bashevis, che vive in Israele, il diritto alla traduzione dall’originale yiddish e il nostro De Luca ci fa conoscere l’ultimo capitolo de La Famiglia Moskat (o meglio: La Famiglia Mushkat), lo stupendo romanzo redatto in yiddish nel 1945, pubblicato cinque anni dopo a puntate sul periodico americano Forverts in inglese e declinato in 64 capitoli.
Dalla versione inglese sono partite poi tutte le traduzioni nelle altre lingue.
Su pressione degli editori stranieri che consideravano l’opera eccessivamente corposa, Singer aveva tolto l’originale ultimo capitolo, il 65°.
Ma è proprio tale conclusione, venuta da poco alla luce, ad incantare il lettore. Il suo contenuto infatti differisce in modo totale da quello -disperato- con cui termina il romanzo che conosciamo.
La drammatica saga di una famiglia di ebrei polacchi tra l’ortodossia tradizionale dei padri e l’illuminismo dei figli si chiudeva con l’inizio della Tragedia, sotto le bombe naziste contro la Polonia, nel 1939.
Il protagonista Asa Heschel (che, nel capitolo 65, porta il nome yiddish di Ozer Heshel), l’uomo tormentato da atroci dubbi, incontra tra le macerie l’amico Hertz Yanovar che gli mormora sconsolato: “Il Messia arriverà presto”. Alla domanda di Asa su che cosa ciò significhi, Hertz fornisce la tremenda sentenza: “La Morte è il Messia. Questa è la verità”.
Uno sguardo sul precipizio, un anticipo dello strazio infinito e senza risposta chiamato Shoah.
Invece la nuova fine, quella rimasta chiusa nell’edizione yiddish originaria, ci conduce ad un orizzonte del tutto diverso.
Asa / Ozer, mentre guarda le rovine, si chiede disperato, più volte, com’è possibile che D-o sia anche il Male, che questo trionfi, come parrebbe essere. “Ma sì, che non ci sia alcun Dio! Che siano nel giusto gli assassini! Che Dio stesso stia dalla parte di Hitler! Che Mosè sia un bugiardo!….”. Ed è evidente che Hitler sta compiendo quello che altri si sono limitati a desiderare.
Poi però si dà la risposta. La trova nelle Scritture dove, per bocca di Mosè, il Signore parla e si mostra come un combattente, che, in un certo senso, permette l’esistenza del male perché ci ha dato la libertà di scegliere il bene. Le frasi della Bibbia non sono “parole, ma fiamme che l’eterno ebreo scaglia contro l’eterna malvagità”, contro Amalek, il quale parrebbe imbattibile nell’assumere abiti diversi a seconda delle circostanze e dell’epoca in cui a ciascuno è toccato di vivere. Parole attualissime.
Poi la scena si apre e….il cuore sobbalza.
Ad un centinaio di miglia da Varsavia in un bosco di pini “tre uomini e due donne [cinque giovani] celebravano Rosh Ha Shanà.…….Il gruppo marciava con un solo scopo: arrivare in Israele. Il più adulto tra loro era Shimon Bendl…”.
Dunque, con la fine dedicata al -distratto, nella migliore delle ipotesi- lettore “gentile”, sorta di provvidenziale pugno nello stomaco, coesiste la “vera” fine, quella rivolta al lettore ebreo (e alle persone di buona volontà). Affascinante doppiezza del diabolico  Isaac Bashevis.
“Ma la sua [di Mosè] parola vi chiama: alzatevi, resto d’Israele, preparatevi all’ultima battaglia”.
Un’alba forte di speranza, che lo scrittore vede proprio quando il (ri)nato Stato di Israele si sta presentando al mondo.
                
“I soldati buttavano fuori il contrabbando vivo e quello inerte”
Quadretto ironico e realistico, com’è nello stile dello scrittore,  il racconto di Israel Joshua, La stazione di Bakhmatch.
Sappiamo che il maggiore dei fratelli Singer, nel 1918, suggestionato dalla Rivoluzione bolscevica, si recò in Russia, dove aderì ad un gruppo di scrittori radicali yiddish, il Circolo di Kiev, e cominciò a pubblicare i primi racconti. Nauseato dall’antisemitismo che sperava fosse scomparso grazie alla nuova situazione politica, tre anni dopo ritornò a Varsavia, dove continuò la sua attività letteraria e iniziò a collaborare con Forward (o Forverts), il celebre quotidiano yiddish di New York. Sulle colonne del giornale apparvero articoli aspramente critici verso l’Unione Sovietica, che gli valsero l’ostilità dell’ambiente comunista cui aveva in precedenza aderito. Decise allora di partire per gli USA, dove, alcuni anni dopo, arrivò il fratello minore Isaac [3] .
La novella tratta del viaggio avventuroso che un ebreo polacco (aspirante scrittore), la voce narrante, intraprende nella Russia del  1919 per scappare da eserciti e bande l’una contro l’altra armata.
Assistiamo ad un susseguirsi di situazioni paradossali, di entrate in scena da parte di personaggi degni di Gogol ‘ :” Il lungo e biondo commissario andava innanzi irrigidito col fucile in spalla che sembrava la prolunga del suo corpo curvato. Lui stesso era il supporto di un’arma”.
Dopo una lunga serie di intoppi di varia natura, non ultimi quelli creati da una già rigogliosa burocrazia di partito,  il protagonista inizia il suo viaggio in treno.
Ad un certo punto il convoglio, affollatissimo, si ferma a Bakhmatch, una stazione forse sulla linea di Kiev, città liberata “dove il treno pareva dirigersi”. É attesa un’ispezione. Giunge un commissario del popolo: vestito in pelle dalla testa ai piedi, baldanzoso, con quell’inconfondibile erre moscia tipica dell’ebreo russo. Altrettanto tipici sono gli occhi scuri, le folte sopracciglia nere unite insieme. Palpabile il fastidio generale per il personaggio e solidarietà verso chi lo contrasta.
Quando poi il commissario pretende perquisire il carro dei valorosi combattenti della Rivoluzione, scatta la molla eterna dell’antisemitismo contro quei commissari giudei che “bevono il sangue rivoluzionario dei figli della Russia”.
Sorprendente finale.

Conclude Erri De Luca: “Ho letto a sazietà sulla rivoluzione russa, ma solo due storie mi hanno portato lì, sopra quei campi. L’armata a cavallo di Isaak Babel’ e La stazione di Bakhmatch di Israel Joshua Singer. In carrozza e buon viaggio”.
Mi unisco all’invito.


[1] V. mia recensione a SINGER Israel Joshua, La Famiglia Karnowski su questo sito (Giugno 2013)
[2] Plurale di shtetl, parola derivata dal tedesco Städlein, diminutivo di Stadt, città: villaggio o cittadina dell’est Europa, abitato per lo più da Ebrei, i quali, oltre alla lingua locale, parlavano lo yiddish.
[3] V. commento a La Famiglia Karnowski, cit.