(Titolo originale Pirche ha-Afelah,2011)
Trad. Elena Loewenthal, Ugo Guanda Editore S.p.A., Milano, collana Narratori della Fenice, 2013, pp. 302 €. 20,00
“Lui si accorge che sua madre è angosciata, e dice: ‘Ascolto, mamma, ascolto continuamente’ ”
“Niente paura, la paura è sempre da condannare, la paura ci fa finire all’inferno, l’uomo non deve avere paura”
“ ‘Vedo che gli ebrei stanno tornando’ disse. Difficile sapere con quale spirito aveva pronunciato quella frase”
Emozionante dall’inizio alla fine l’ultimo romanzo di Aharon Appelfeld [1], Fiori nelle tenebre, uscito in Israele nel 2011 e fatto conoscere al nostro pubblico da Guanda alcuni mesi fa, nella sapiente traduzione di Elena Loewenthal.
“Una storia semplice in cui sono racchiuse gioie e dolori del romanzo di formazione e la tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Una scrittura sobria e lineare che non distoglie dall’aspra realtà… Un romanzo potente”, così lo ha definito una recensione apparsa su Publishers Weekly, la prestigiosa rivista letteraria statunitense.
Appelfeld è un signore di ormai ottantadue anni (è nato a Czernowitz, in Bucovina, all’epoca Romania, il 16 febbraio 1932), simpatico e schivo, alieno da qualsivoglia retorica, il quale, a differenza di suoi colleghi più famosi, non ama rilasciare ai grandi quotidiani interviste dove elargire a piene mani consigli in ordine al conflitto arabo / israeliano / palestinese e dispensare sul tema ricette risolutive tanto intriganti all’apparenza quanto lontane dall’effettiva, greve situazione sul campo. “La politica m’interessa, non vi si può sfuggire.” afferma “Ma non penso di doverne discutere sui giornali o in televisione: preferisco parlare di scrittura, d’arte o di vita interiore. D’altronde non si può suonare sia in un caffè, sia in un’orchestra filarmonica. E la mia musica è quella dell’interiorità e dell’anima: quella della letteratura”.
È autore di quarantadue libri ma, dichiara, “è come se fossero un solo libro. Si tratta sempre di uno sguardo allargato sui miei genitori, la mia origine, la mia esperienza”. Le sue opere, come sottolinea Philip Roth, non sono incentrate tanto sulla persecuzione antiebraica, o sulla Shoah, bensì sul suo essere profugo, sul “disorientamento di eterno rifugiato ebreo in una terra di ebrei rifugiati”.
La storia narrata da Fiori nelle tenebre si svolge in Ucraina durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il protagonista è Hugo Mansfeld, undici anni, biondo “come gli ucraini”, figlio di una coppia di farmacisti ebrei, Julia e Hans; persone ricche di umanità, amanti, fin dagli anni giovanili, di quella cultura tedesca che, un giorno non lontano, li avrebbe condannati a morte.
Vive solo con la madre nel ghetto della sua cittadina, della quale si tace emblematicamente il nome, dopo che il padre è stato mandato in un campo di lavoro. La loro condizione diviene più insicura giorno dopo giorno. Il ragazzino vede la deportazione di coetanei, uomini, donne, anziani.
Osserva quanto accade attorno a lui, senza capirne, all’inizio, la causa. Ha imparato a non porre domande, bensì a cogliere poco a poco il significato degli eventi dal silenzio tra una frase e l’altra. Julia gli legge la Bibbia, il grande libro del Popolo ebraico (tema presente nella poetica di Appelfeld), ed egli ben presto si rende conto che ormai è prossima la separazione dalla mamma dai toni e dalle parole di lei. La donna infatti ha deciso, come estremo tentativo per salvare il suo ragazzo dalla morte, di affidarlo ad un’amica (antica compagna di scuola) che abita in campagna, in una casa al limitare del bosco, Mariana Podgorsky. “Il destino non le è stato clemente”, dichiara Julia con fare un po’ misterioso, ma, aggiunge “…in fondo è una brava donna”. Giunti a destinazione, madre e figlio si separano con grande dolore di entrambi.
Hugo è accolto con affetto da Mariana e comincia ad esplorare la casa, per lui nuova: ambiente vasto, con mobilio rosa, assomigliante ad un salone di parrucchiere: egli può stare però, di giorno, soltanto nella stanza da letto di lei -con l’ordine tassativo di non aprire a nessuno, allorché ella si assenta!- ma, di notte, deve dormire nello sgabuzzino accanto, per ragioni di sicurezza. E guai rivelare a chicchessia di essere ebreo!
In quell’ambiente buio gioca a scacchi con se stesso e cerca di dormire, ma i sonni sono spesso agitati, carichi di nostalgia e di paura (come per lo più accade quando si è ragazzi), talora deformati in incubi: pensa ai genitori, agli amichetti scomparsi, allo zio materno Sigmund, che avrebbe potuto essere una persona di genio, mentre invece si è rovinato con l’alcool.
Pensa alla governante di casa, Sofia, una cristiana che gli parlava in ucraino e faceva ridere tutti con la sua espressiva mimica. E pensa ai bambini dell’orfanotrofio, come il suo compagno Erwin, fatti alzare una notte dai letti e caricati “sui camion coi pigiami addosso”. Urla e pianti udibili perfino quando i camion erano spariti alla vista.
Il sonno e i sogni: altro motivo ricorrente nelle pagine dello scrittore israeliano: il concentrarsi su una realtà interiore consente di comprendere noi stessi e ciò che ci circonda.
Hugo annota tutto, con la mente e il cuore. Da quel luogo oscuro ode frasi che uno della sua età non dovrebbe sentire e intuisce gesti e comportamenti che spesso lo spaventano. Risate, rumori strani….il letto di Mariana che cigola in modo ritmico, urla e minacce, pianti della donna; e le sue sbronze che non piacevano agli uomini che ospitava, per qualche ora, in casa.
Mariana svolge quello che viene, da sempre, chiamato il “mestiere più antico del mondo”.
Lo sgocciolio del rubinetto in cortile. L’avvicendarsi delle stagioni. E le orribili notizie dal mondo esterno, che parlano di caccia spietata agli Ebrei, di arresti di intere famiglie di fuggitivi, insieme a coloro che li avevano nascosti, di deportazioni.
Esplora il colorato mondo della sua protettrice e prende confidenza con lei. Ella non ha nulla contro gli Ebrei, anzi ne apprezza la gentilezza d’animo.
Tace, ma acquista graduale consapevolezza. “Il tempo nel ghetto e nel nascondiglio era ormai impresso nella sua carne, le parole che usava lì avevano perso forza. Ora non erano le parole a parlare, ma il silenzio”.
Il Silenzio. “E’ una lingua difficile, ma quando la si adotta nessun’altra lingua serve più”.
Per esorcizzare la paura ripensa alle vacanze invernali sui Carpazi coi genitori.
Un giorno scopre, tra le pagine della Bibbia che ha portato con sé, una busta contenente una lettera della mamma a lui indirizzata.
“La disperazione è resa. Credevo, e ancora credo, che il bene e la fede abbiano la meglio sul male. Perdona tua madre per il suo ottimismo anche in queste ore buie. Sono fatta così, del resto mi conosci, e così resterò. Ti voglio tanto bene, mamma”.
Commosso, comincia, a sua volta, a scriverle lettere cariche di rimpianto e amore su un quaderno di scuola dove avrebbe dovuto svolgere i compiti.
Tra la prostituta e il fanciullo nasce un legame tanto indefinibile quanto profondo: il prendersi cura di Hugo, rappresenta per lei una sorta di riscatto, un’occasione per trarre il meglio da sé; il ragazzo, grazie a Mariana, impara a conoscere il proprio corpo e la sessualità che esso esprime, la gioia dell’amore e del divenire, giorno dopo giorno, un vero uomo. Ella finisce per costituire il suo unico punto di riferimento, anche se, nelle ore notturne, le figure dei genitori gli si riaffacciano alla memoria.
Il libro è ricco di spunti autobiografici, una mescolanza di immaginazione e fatti reali. “Io non scrivo memoir” precisa l’Autore. Ma, mentre procedi nella lettura, ti rendi conto quanto la mente e, soprattutto il cuore, di Aharon siano rimasti nei boschi dell’Ucraina dove da piccolo, ad otto anni e solo al mondo, si nascondeva, dopo essere era fuggito dal ghetto, deciso a sopravvivere ad ogni costo.
Col passare del tempo il nostro protagonista conosce il gruppo delle ”colleghe” di Mariana: l’equivoca Victoria e le sue manie religiose -fede autentica o ipocrita finzione?- della quale intuisce ben presto che non è opportuno fidarsi; Nasha e la sua perenne angoscia; o la piccola Kitty, che non dovrebbe stare in…certi luoghi, ingenua com’è….Madame, la dura “tenutaria”, efficiente organizzatrice che non tollera chi sgarra, piange o, peggio del peggio, si ubriaca……
Donne che hanno sbagliato, sofferto, che s’interrogano sul destino che le attende allorché i tedeschi, con i quali hanno mescolato più o meno giocoforza le loro esistenze, cominciano a ritirarsi e i sovietici si avvicinano inesorabili. Tutte pregano secondo accenti diversi ed esprimono il loro tormento con frasi e cadenze da ballata popolare.
Incontriamo descrizioni della natura colme di toccante poesia, come quella della neve che sorprende Mariana e le sue compagne: “…la tempesta diminuì di intensità.. Tutte andarono alla finestra a guardare e non credevano ai loro occhi. Una neve muta si stendeva sulle case e sui campi. Nello spazio candido non si vedevano né un uomo, né una bestia, solo bianco su bianco, e un silenzio che si avvertiva anche dietro la finestra”.
La prosa è accuratissima, essenziale e limpida, cadenzata, come sempre, secondo brevi capitoli. Le pause sono ancora più rilevanti delle parole scritte. Chi scrive sa coinvolgere il lettore parlandogli con gentilezza, quasi a bassa voce.
Il linguaggio è talora crudo, ma senza compiacimenti. “Non di rado, nel corso della vita, avrebbe provato a rievocare quelle notti ebbre, a tornare al buio denso impregnato di profumi e a quel piacere che aveva in sé la paura dell’abisso, ma niente, non una parola, non una frase, come se le parole fossero sparite dal mondo”.
E quelle voci metalliche, dai toni dapprima incomprensibili -un tedesco poco chiaro e minaccioso- dalle quali affiora poi, sia pure a fatica e per un instante, una qualche parvenza umana….Risatine allusive. La purezza di un bambino che sa scovare meraviglie nel mondo (apparentemente) squallido di una prostituta.
L’Autore ci trasmette l’intima innocenza di chi è in grado di scoprire un mondo nuovo, nel passaggio dal buio ai colori, nella luce che crea le cose.
“La luce del mattino si infiltrò nello sgabuzzino, goccia a goccia, e la tenebra rimase tal quale”.
Così è la scoperta della figura di Mariana, donna dall’esistenza drammatica e dal tragico destino: la sua luminosa carnalità (“ ‘Amo il falò, mi ricorda la mia infanzia’ disse con il viso pieno di luce”), il suo profumo, la sua bellezza, uniti ad un forte sentimento di colpa per la vita praticata e per l’attaccamento all’alcool, dal quale non riesce ad allontanarsi se non per brevissimi periodi.
Hugo comprende i cambiamenti che avvengono nel proprio corpo e nella propria anima e medita di mettere tutto questo per iscritto.
Poiché i sovietici si avvicinano, i due scappano nella foresta.
Compiono un percorso breve ma durissimo, in mezzo a difficoltà d’ogni genere, incontrando talvolta persone diffidenti e fredde di cuore, ma soprattutto gente ostile, che accusa ipocritamente la donna per i suoi trascorsi coi tedeschi. Solo la magia della natura ogni tanto pare confortarli. Lei, nell’affetto di -e verso- questo ragazzo riscopre la propria umanità e fede religiosa: “…sono colma di nostalgia ferita di Dio” afferma all’improvviso. Alterna momenti di dolore ad altri in cui, per incoraggiare se stessa e lui, cerca di fantasticare su un futuro sereno, e immagina entrambi in un mondo di pace.
Confessa poi “Se mi uccidono, non dimenticarmi. Tu sei l’unica persona al mondo in cui ho fiducia. Una parte della mia anima è nascosta in te. Non voglio sparire dal mondo senza lasciarti niente di me. Prendi il mio amore, custodiscilo nel tuo cuore, ogni tanto dovrai dire a te stesso: una volta è [c’è] stata Mariana, lei era una donna che avevano tremendamente ferito, ma non ha mai perso la fede in Dio”.
Il futuro cui anela le verrà purtroppo negato; con coraggio e dignità andrà incontro al suo tragico destino di donna che, in precedenza, aveva subito la prepotenza, anche sessuale, del nemico tedesco e che ora, dai nuovi padroni sovietici, è accusata insieme alle altre, di collaborazionismo.
Hugo ora è solo, spaventato per ciò che lo attende. Ritorna nei luoghi dov’è cresciuto, ma adesso, al posto degli ebrei, ci sono goym ucraini.
Regna un silenzio, non magico, amico, bensì ostile, simboleggiato da Ivan, il corpulento bidello della sua scuola.
Regna un silenzio, non magico, amico, bensì ostile, simboleggiato da Ivan, il corpulento bidello della sua scuola.
La farmacia appartenuta ai genitori, teatro del loro amore, ha subito un’orribile metamorfosi: è diventata un negozio di generi alimentari, dove ristagnano puzzo di pesce affumicato e di cavolo marcio. Il suo mondo è scomparso per sempre. La loro casa è ora abitata da altri. Un vecchio del quartiere lo caccia.
Nella vana speranza di ritrovare i genitori si mescola ai pochi superstiti che sono tornati dall’inferno; si confronta col silenzio che i sopravvissuti oppongono a chi, magari in buona fede, rivolge loro domande sull’esperienza vissuta. Lacrime, silenzio e poche rivelazioni. E ricordi di Mariana che affiorano, specie quando apre la sua valigia piena di abiti variopinti.
A confortarlo e salvarlo è una donna bassa, magra, ma assai robusta, salvatasi dall’orrore perché si era nascosta. E’ lei che gli fa conoscere il valore della solidarietà, lo prende per mano, aiutandolo a camminare verso una nuova vita.
Una figura come quelle cui Appelfeld / Hugo alludeva durante un’intervista concessa mesi fa: “Ho incontrato …uomini e donne che sono stati generosi con me, mi hanno dato un pezzo di pane, mi hanno donato un sorriso o una parola buona..É per le persone buone che ho incontrato, persone straordinarie, ebrei e non ebrei, che sono rimasto un uomo. È grazie a loro che non ho perso fiducia nell’umanità”.
[1] Per la vita e le opere dell’Autore israeliano v., su questo sito, i miei commenti a Badenheim 1939 (Settembre 2007) e a L’amore d’improvviso (Luglio 2011), entrambi editi da Guanda. Nel 2012 sempre Guanda, collana Narratori della Fenice, ha pubblicato Il ragazzo che voleva dormire, pp. 304.