Museo Ebraico di Bologna
26 Gennaio / 2 Marzo 2014
Orari di visita: da Domenica a Giovedì: 10.00 / 18.00; Venerdì: 10.00 / 16.00
Sabato e festività ebraiche : Chiuso Ingresso libero
Il Museo Ebraico di Bologna e la locale Comunità Ebraica (con il patrocinio degli Enti locali, dell’Alma Mater Studiorum e dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), in occasione del Giorno della Memoria -fissato il 27 Gennaio dalla Legge istitutiva 20 luglio 2000, n. 211- propongono alcune iniziative di rilievo, volte a ricordare, spiegare, riflettere, mantenendosi aderenti al tema, già di per sé vasto, della Giornata stessa.
Domenica 26 gennaio, presso la sede del Museo, alla presenza delle Autorità cittadine e di un folto pubblico, è stata inaugurata la mostra CHILDREN’S STORY. I disegni dei bambini dal ghetto di Terezin.
Il campo/ghetto di Terezin (in tedesco Theresienstadt), circa sessanta chilometri a nord di Praga, fu istituito nel novembre 1941, ad opera di Reinhard Heydrich [1], e smantellato l’8 maggio 1945. La sua funzione principale fu di smistamento e transito per gli Ebrei boemi e moravi, e successivamente per gli Ebrei di mezza Europa, destinati ai campi di sterminio. I nazisti intendevano fare di Terezin un ghetto “modello” per dimostrare agli ottusi e docili osservatori internazionali (la Croce Rossa, per esempio, che lo visitò) la loro benevolenza verso la “razza inferiore”. Per rafforzare simile menzogna essi girarono perfino un film di propaganda nel quale si vedevano giovani e bambini cantare e danzare. Inutile dire che la realtà era ben diversa. Anche se le condizioni di vita sembravano più sopportabili di quelle nei luoghi dello sterminio, i prigionieri subirono tutti le privazioni dei campi di concentramento: fame, malnutrizione, spaventose condizioni igieniche, infezioni…..Si viveva e si dormiva ammassati tutti insieme in una promiscuità e affollamento inconcepibili.
Da Terezin passarono 140.000 deportati e ne morirono, a causa delle condizioni di vita del luogo, 33.000. Gli altri furono spediti ad Auschwitz .
Gli Ebrei internati fecero ogni sforzo affinché i bambini prigionieri (furono oltre 15.000) potessero continuare il loro percorso educativo: si cercò di dar vita ad un mondo separato per loro, dove potesse essere avviata una parvenza di sistema di istruzione.
Nell’estate 1942 si riuscì a costituire dei dormitori per bambini, divisi in aule di venti o trenta ragazzi ciascuna, ripartiti per età e lingua, affidati alla supervisione di un istruttore, cui spesso essi si rivolgevano col nome ebraico di madrich. Nonostante le dure condizioni di vita diverse riviste furono pubblicate dai bambini, tra le quali la più celebre fu Vedem, cioè Andiamo Avanti. Venne realizzata nel Block L417 da un centinaio di giovanissimi deportati da Praga e da Brno. Ne era “direttore” il quattordicenne Petr Ginz, ucciso nel 1944 ad Auschwitz, divenuto celebre perché la copia di un suo disegno (l’originale si trova allo Yad Vashem di Gerusalemme), raffigurante La Terra vista dalla Luna (con tanto di montagne dalle cime aguzze sulla superficie lunare), fu portato nello spazio da Ilan Ramon, il coraggioso, sfortunato astronauta israeliano, morto insieme ai compagni di missione nell’incidente subito dallo shuttle Columbia l’1 febbraio 2003. In seguito, astronomi cechi dettero il nome di Petr Ginz ad un piccolo pianeta, posto tra Marte e Giove, scoperto nel 2000.
Nell’arco di due anni i piccoli internati scrissero, di nascosto dai nazisti, testi che rappresentano una preziosa testimonianza della loro capacità di opporsi alla cultura della morte.
Poesie che esprimevano tanta paura, ma anche speranza di uscire da quel luogo e di tornare a correre liberi. Nostalgia di casa, come nei semplici versi di questo piccolo anonimo poeta (1943).
“E’ più di un anno che vivo nel ghetto,
nella nera [….] città di Terezin,
e quando penso alla mia casa
so bene di cosa si tratta.
Che arrivi dunque quel giorno
in cui ci rivedremo, mia piccola casa!
Ma intanto preziosa mi sei”
Ottocento sono le pagine conservate tra il Memoriale di Terezin e lo Yad Vashem.
L’insegnante di disegno fu Friedl Dicker-Brandeis (Vienna, 1898 / Auschwitz, 1944).
Pittrice, fotografa, architetto (seguace della corrente del Bauhaus di Weimar), aveva imparato a far concentrare gli allievi con esercizi respiratori e a comporre con materiale di scarto.
Insieme al marito Pavel (che sopravvisse alla Shoah) nel settembre 1942 era stata deportata a Terezin.
Qui si dedicò al corso di disegno che divenne ben presto centrale nel programma complessivo di formazione. Ella utilizzò le tecniche sperimentali apprese a Vienna e a Weimar, insegnando ai ragazzi a lavorare col colore e la luce e mostrando loro come sviluppare il senso della forma e della composizione. I piccoli autori firmavano i loro disegni e vi annotavano il numero dell’aula e il gruppo di appartenenza. Friedl ci lavorava ulteriormente, allo scopo di aiutare gli allievi a superare, prima che le difficoltà di espressione artistica, le ansie e il terrore dovuti alle privazioni quotidiane e al pensiero di un incerto futuro. Il suo obiettivo, come scrive lei stessa, non era di trasformarli in artisti, ma di far sì che crescessero come individui sani e, compatibilmente con la situazione, sereni.
Andava senza tregua alla ricerca di carta e colori e, nonostante le fosse concesso di ricevere pochissimi pacchi dall’esterno, chiedeva agli amici, coi quali riusciva fortunosamente a mantenere contatti, materiali da disegno anziché abiti e generi di conforto per sé. I bambini usavano pezzi di carta qualsiasi per disegnare, talvolta perfino vecchi moduli militari lasciati a Terezin (che era stata una piazzaforte) dalle truppe cecoslovacche prima della guerra. Nonostante la povertà di mezzi, grazie a questa insegnante fuori del comune, i risultati dei lavori furono, quanto alla forza espressiva, davvero notevoli.
Dicker-Brandeis ha aiutato i bambini ad esprimere i loro sentimenti, anche la paura, e la loro speranza di sopravvivere utilizzando metodi che oggi sono divenuti la base della terapia d’arte.
Nell’ottobre 1944 Friedl fu deportata ad Auschwitz. Il viaggio significò la morte per lei e per quasi tutti i bambini trasportati in quel periodo. Ma restarono due valigie piene di oltre 4000 disegni, che ella aveva nascosto in una delle aule; non appena la guerra finì, nel maggio 1945, essi furono portati al Museo Ebraico di Praga, delle cui collezioni oggi fanno parte.
La Mostra allestita presso il Museo Ebraico bolognese costituisce un esempio rilevante della produzione di questi autori, ragazzini di età compresa tra i dieci e i quattordici anni, che seppero esprimere sensibilità e creatività anche “nell’Orrore”, come in modo perspicuo ha sottolineato, nella conversazione inaugurale del 26 gennaio, il Prof. Antonio Faeti, insigne storico di Letteratura per l’Infanzia, già Professore ordinario nella nostra Università.
I disegni sono suddivisi in due gruppi. Da un lato, quelli a tema infantile, in cui i ragazzi tornano alla loro infanzia perduta: raffigurano giocattoli, la casa, prati pieni di farfalle in volo o si lasciano andare a sogni, come quello di un mondo sott’acqua di Ruth Guttmarova (1930/1944)
Non sempre quindi è interamente vero (ciò dipende da una serie di fattori, in primo luogo quello anagrafico) quanto afferma Aharon Appelfeld -in un articolo pubblicato su la Repubblica del 27 gennaio scorso- allorché sottolinea, in merito alle testimonianze dei sopravvissuti, che, mentre gli adulti parlavano di com’era la vita prima della guerra, per i bambini la Shoah era “il presente, era la loro infanzia, la loro giovinezza. Non conoscevano altra infanzia, né la felicità. Crebbero nel terrore…..i bambini non avevano avuto una vita precedente, oppure, se l’avevano avuta, ormai gliel’avevano cancellata. L’Olocausto era il latte nero, come scrisse Paul Celan, che succhiavano al mattino, a mezzogiorno, a sera”.
Dall’altro lato, ecco il ghetto di Terezin e la tragica realtà quotidiana: le caserme, le baracche, i soldati, come li raffigura, ad esempio, Pavel Sonnenschein
La paura è simboleggiata, per Raja Englanderova (1929, sopravvissuta), da una grande porta nera che cattura l’attenzione
Ecco l’uomo con la stella di David sul braccio e, accanto a lui, una guardia armata; e il deportato con la sua valigia in primo piano, mentre lo sfondo è occupato dalla sinistra sagoma di un treno.
E le docce……Non sono sfuggite alla piccola Ruth…
L’esposizione va visitata più volte fermandosi con calma su ogni singola opera.
Ti colpiscono la spontaneità espressiva, unite all’esattezza delle raffigurazioni, i colori, i contorni delle figure e degli ambienti.
Degli oltre 15.000 piccoli internati -una parte di quei Bambini contro i quali, in quanto Ebrei, i nazisti avevano organizzato una guerra di annientamento- ne salvarono solo 150.
Concludo con una riflessione, ancora di Appelfeld, espressa ritengo anche alla luce del proprio vissuto di bambino della Shoah: “…nessuna sublimazione, nessuna scusa, e nemmeno glorificazione…Quello era il modo di parlare, si può dire, dei bambini…Il loro contributo è legato alla loro esperienza, ma la loro limitata esperienza è profonda. Non stupisce che proprio da loro sia iniziata la letteratura dell’Olocausto”.
[1] A proposito di questo personaggio, figura chiave del nazismo, v. il commento su questo sito (Agosto 2011) a BINET Laurent, HHhH, Giulio Einaudi Editore S.p.A., Collana Frontiere, Torino, 2011, pp. 342.