Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, Piazza Galvani n. 1 – Bologna
25 Gennaio / 28 Febbraio 2014
Orari di visita: da Lunedì a Venerdì: 9.00 / 17.00; Sabato: 9.00 / 13.00
Altro appuntamento, rilevante nella sua drammatica attualità, è l’inaugurazione della presente mostra, promossa dal Dipartimento di Storia Culture e Civiltà dell’Università di Bologna, con il patrocinio della locale Comunità Ebraica e la collaborazione del Museo Ebraico di Bologna.
L’iniziativa, diretta a tutti i cittadini interessati ma, in primo luogo, ai giovani e a chi si occupa della loro formazione, intende anzitutto illustrare il contesto politico/culturale in cui maturarono le famigerate Leggi razziali del 1938, espressione di un regime che aveva ottenebrato la coscienza degli italiani determinando un clima che interessò profondamente anche la città di Bologna.
L’esposizione, esaustiva nella sua essenzialità, si declina lungo pannelli esplicativi e bacheche che mostrano documenti davvero interessanti.
Ripercorre in sette tappe (sette, come le braccia della Menorah, il candelabro ebraico) gli effetti della legislazione razziale sulla comunità universitaria.
1 e 2. L’introduzione sottolinea, privilegiando quale ambito di analisi, il campo dell’istruzione superiore ed universitaria, come varie furono le forme di discriminazione (nel significato intuitivo del termine) messe in atto contro gli Ebrei d’Europa ben prima delle leggi razziali (promulgate in Germania nel 1935, Leggi di Norimberga; in Italia nel 1938). Dalla Russia dove, fin dai tempi degli Zar, le forti restrizioni nei confronti degli Ebrei in ogni campo della vita civile, istruzione compresa, erano accompagnate da violenze e feroci pogromi, più che tollerati, incoraggiati e fomentati, dalle autorità, e dove terribili massacri di Ebrei furono compiuti dalle c.d. armate bianche del Gen. Denikin; peraltro le speranze riposte dagli Ebrei nella Rivoluzione d’Ottobre andarono ben presto deluse. Alla Polonia in cui, negli anni Venti del ‘900, a discrezione dei Rettori delle diverse Università, gli studenti ebrei furono isolati dagli altri compagni. Essi dovevano occupare i posti in fondo alle aule, chiusi in una sorta di ghetti (cosiddetti bench-ghetto o Ghetto-benches, introdotti per la prima volta all’Università di Lwow nel 1935) e con un posto ben preciso. Ciascuno aveva l’obbligo di indicare, sul rispettivo libretto universitario, oltre al numero di matricola, anche quello in cui era schedato nel…ghetto.
Pure in Ungheria vi furono pesanti restrizioni in quegli anni, per non parlare della Romania (e ciò prima ancora del regime filonazista di Ion Antonescu del 1940), con incoraggiate, rituali, periodiche “cacce all’Ebreo” da parte degli altri studenti .
In Italia, invece, vi fu nelle Università un’iniziale apertura verso gli studenti ebrei, provenienti da quei Paesi che applicavano legislazioni ostili. Bologna ne contava alcune centinaia (nel 1934/35 erano oltre settecento), attratti dalla piacevole vita cittadina e dall’ambiente cordiale.
Anzi il Rettore dell’Ateneo (1930/1943), l’illustre ornitologo Prof. Alessandro Ghigi, personaggio di salda fede fascista, ebbe a dichiarare, nel 1931, che “gli stranieri..sono il mezzo più efficace per diffondere all’estero la cultura italiana e la fama dell’Alma Mater”.
La crescente integrazione degli studenti ebrei nella vita cittadina era accompagnata da una rispettosa osservanza delle regole ebraiche in materia di alimentazione: nel dicembre 1934 fu aperta una mensa kasher in Via del Borgo n. 46, presso la Sig.ra Valeria Finzi.
Tutto ciò era facilitato dal fatto che, fin dall’Unità d’Italia, forte era stata la presenza di docenti ebrei nelle Università, come del resto in ogni contesto della vita civile. Nell’ambito bolognese basti ricordare due figure come l’emerito Salvatore Pincherle, matematico, docente di Calcolo infinitesimale, firmatario, tra l’altro, del cosiddetto Manifesto Gentile in appoggio al regime (1925); e Attilio Muggia, anch’egli emerito, ingegnere, docente presso la Scuola per Ingegneri, teorico ed utilizzatore del brevetto Hennebique per le costruzioni in cemento armato, nonché progettista responsabile di alcune opere pubbliche vanto della città (Sinagoga; rifacimento dell’allora sede del Banco di Napoli; sistemazione della Montagnola, ecc.) e di numerosi edifici civili privati.
A Bologna i nuovi arrivati non solo furono accolti nel GUF (Gruppo Universitario Fascista) ma pure, nel 1933, poterono dar vita ad un autonomo GUS (Gruppo Universitario Sionista), denominato Tehijà, cioè Resurrezione. Al momento della costituzione esso contava già 89 iscritti e prevedeva, tra i suoi scopi, la raccolta di fondi allo scopo della “ricostruzione nazionale ebraica in Eretz Yisrael (Palestina)” e corsi di cultura e lingua ebraica.
Purtroppo la situazione cominciò a mutare già nel corso del 1937, con l’accrescersi della potenza tedesca.
3. La propaganda antisemita si fece sempre più insistente; allo scopo di preparare la pubblica opinione alla normativa che sarebbe stata emanata l’anno successivo. La pubblicazione di libri, articoli, pubblicazioni pseudoscientifiche, caricature all’insegna dei tradizionali stereotipi antisemiti, intendeva insinuare tra la popolazione l’antica, mai sopita, paura di un preteso dominio degli Ebrei sul mondo. Obiettivo raggiunto con successo, poiché non ci furono reazioni degne di nota a tale campagna.
Evidentemente l’odio antiebraico (allora come oggi, anche se -oggi- si manifesta sotto forme talvolta differenti rispetto ad allora) è una bomba ad orologeria pronta ad esplodere non appena se ne presenti l’occasione.
“E’ tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti”, così recitava il Manifesto della Razza, pubblicato il 5 agosto 1938 sulla Rivista La difesa della razza (diretta da Telesio Interlandi)
4. Le Leggi razziali del 1938 (più esatto sarebbe definirle razziste) colpirono l’Università in tutta la sua compagine: furono 49 i docenti espulsi dai diversi Atenei, insieme ad un numero imprecisato di alcune centinaia di studenti.
Ai vari “Regi Decreti” in materia -5.9.1938, n. 1390; 23.9.1938, n. 1630; 15.11.1938, n. 1779- seguirono una miriade di circolari con le quali il Ministero competente s’impegnò ad estromettere anche chi, essendo cittadino italiano, avrebbe potuto godere dei diritti civili.
L’Università si trovò in prima linea allorché si trattò di applicare le nuove disposizioni. E il nostro Ateneo non fu certo da meno di altri.
“Quello che è successo in quegli anni deve essere ricordato. All’epoca non ci fu nessuna protesta e tutto si svolse in silenzio, nonostante che alle Università venissero sottratti ricercatori e giovani studiosi di livello elevatissimo. Il senso di questo evento è di respingere ogni violazione della libertà delle persone” Con queste parole, nel 1998, in occasione del sessantesimo anniversario della promulgazione delle famigerate leggi, il Prof. Fabio Alberto Roversi Monaco -Magnifico Rettore allora in carica- fece apporre all’entrata della Sede centrale dell’Università, Palazzo Poggi (sede pure del Rettorato), una targa in memoria dei docenti e degli studenti cacciati dall’Ateneo.
Diversi furono i tentativi, spesso falliti, di aggirare le disposizioni. Gli stranieri non poterono proseguire gli studi; quanto agli italiani, ciò fu loro consentito, a patto che la discussione di laurea avvenisse entro fine ’39 (fu il caso del giovane ferrarese Giorgio Bassani).
Come ben sappiamo le disposizioni antiebraiche si estesero a tutte le scuole e ad ogni forma di vita civile. Vennero istituite, per alcuni anni, scuole private ebraiche, autorizzate dai Provveditorati agli Studi, con decreti rinnovati ogni anno. A Bologna furono ospitati circa 40 ragazzi nella scuola aperta (in Via Gombruti) dal dicembre 1938, dapprima secondaria inferiore, indi anche elementare. Naturalmente, con l’occupazione tedesca, anche questo minuscolo spazio fu chiuso.
5. “Il GUF di Bologna ha la soddisfazione di vedersi liberato da tutte le scorie ebraiche che ne inquinavano la salda compagine”, così Tullio Pacchioni, segretario del locale GUF.
Diversi presero la via dell’esilio verso luoghi lontani dai quali ci fu chi, sentitosi tradito dalla propria Patria che aveva servito con impegno per anni, preferì non tornare. Alcuni nomi, in breve, nella consapevolezza che il tema meriterebbe ben altra trattazione: Rodolfo Mondolfo e Beppo Levi (in Argentina); Tullio Ascarelli e Edoardo Volterra (in Brasile); Luigi Jacchia e Franco Mortara (negli USA); Giulio Levi (in Palestina) [1].
6. Tra i professori cacciati figura pure certo Silvio Magrini. Arrestato (da italiani!) il 15.11.1943, fu ucciso all’arrivo ad Auschwitz il 26.2.1944; a lui Giorgio Bassani si ispirò per il suo Ermanno Finzi Contini.
Con Magrini era pure Aldo Cividali.
Nato a Bologna il 10.2.1894, era uno dei medici più stimati nella nostra città.
Arrestato (anch’egli da italiani!) alla frontiera italo/svizzera il 9.12.1943, con la moglie Ada Levi e i figli Sergio (15 anni) e Angelo (13 anni), fu portato a Fossoli, indi salì sullo stesso treno descritto da Primo Levi in Se questo è un uomo, per un viaggio senza ritorno -fu ucciso all’arrivo ad Auschwitz il 26.2.1944 e i congiunti subirono la stessa sorte-. Della famiglia si salvò solo il figlio Claudio, studente all’estero, il quale si è battuto per anni affinché il padre fosse ricordato come meritava.
Primario all’Ospedale Maggiore, medico condotto in Via Indipendenza, dottore dei ferrovieri, amato dai cittadini perché curava gratuitamente i più poveri, fu uno dei 103 Ebrei bolognesi trucidati nei lager nazisti, dei quali 84 appartenevano alla locale Comunità Ebraica.
Il 15 settembre 2005, in Piazzetta S. Michele (prospiciente Strada Maggiore), nella casa in cui la famiglia abitava e dove aveva soggiornato pure Gioacchino Rossini, è stata apposta una lapide a ricordo.
Tanti quindi furono i deportati che non tornarono più.
Furono sterminate intere famiglie. La mostra ci fa conoscere alcune storie significative, come quella della famiglia Klinger. Josef Klinger, polacco, nato nel 1906, si era laureato a Bologna in Medicina e Chirurgia. Fu fucilato dai tedeschi durante la rivolta di Varsavia nel settembre 1944.
Dei suoi congiunti: il figlio Emil, di 1 anno, fu ucciso con la mamma Erna nella camera a gas il 10.8.1942 a Belzec (campo di sterminio aperto quell’anno, non lontano da Lublino, dove furono soppressi 600.000 Ebrei), mentre il nipote ex sorore, Marek, 11 anni, venne fucilato dai tedeschi nel campo di concentramento di Janowska (non lontano da Belzec) il 17.3.1943.
7. Dopo la tragedia della Shoah molti di coloro che erano stati espulsi, come detto, non tornarono e proseguirono studi ed attività in Paesi lontani.
E chi ritornò dovette impegnarsi oltre l’impossibile per avere riconosciuto il periodo di studi compiuto in Italia, nel nostro caso a Bologna. Per tacere di quei Professori ebrei i quali, ritornati alle cattedre dalle quali prima avevano dato prestigio all’Ateneo, le trovarono occupate da colleghi che non si erano lasciati sfuggire l’occasione di un furto consumato alla luce della “legalità”. I casi, anche celebri, non mancarono.
Due vicende emblematiche, per altri aspetti.
Izrail Kohn, russo di nascita, si era laureato in Medicina a Bologna. Riuscito a sopravvivere alla Shoah, ritorna nel luogo dei suoi studi e, a 70 anni suonati, sostiene l’esame di Stato (aveva ottenuto la cittadinanza italiana grazie all’amicizia con Giorgio Napolitano) per esercitare la professione medica presso l’Istituto Ortopedico Rizzoli, dedicandosi alla cura della scoliosi nei bambini. Nello stesso Istituto oggi lavora la nipote Elizaveta, che, in occasione dell’apertura della presente mostra, ha raccontato le vicissitudini del nonno.
Alexander Fallik era nato a Drohobycz in Galizia, oggi Ucraina; città natale, tra gli altri, di Bruno Schulz, poeta e disegnatore, ucciso dai nazisti nel 1942, e, prima ancora, di Yuriy Drohobych -1450/1494-, astronomo, filosofo, medico, oltre che, per un anno, dal 1481 al 1482, Rettore nell’Università di Bologna -paradossi dell’esistenza!-.
I Fallik si trasferiscono, negli anni Venti, a Vienna, dove Alexander frequenta la scuola media. Nel 1936 eccoli a Bologna, dopo che avevano lasciato l’Austria a causa dei provvedimenti antisemiti, già in atto all’epoca. Nella nostra città il giovane compie gli studi di Medicina, ma è sorpreso dalle leggi razziali.
Insieme ad altri 800 compagni riesce ad imbarcarsi alla volta di Eretz Yisrael. In prossimità delle coste, raggiunge la riva a nuoto, mentre i suoi compagni, rimasti a bordo, sono tutti arrestati dagl’Inglesi.
Aderisce alla Haganah (l’armata ebraica clandestina di difesa, che diverrà Tsahal, l’esercito israeliano), indi alla Jewish Brigade, inquadrata nell’Ottava Armata Britannica.
Grazie alla perfetta conoscenza della lingua tedesca, entra nei ranghi dell’intelligence.
Combatte coi britannici a Montecassino, indi giunge a Firenze.
Nel 1945, grazie all'altrettanto perfetta conoscenza della lingua italiana, imparata durante la permanenza a Bologna, fa da scorta a Roma al Maresciallo Rodolfo Graziani (Ministro della Difesa della Repubblica Sociale) che avrebbe dovuto essere processato quale criminale di guerra per l’uso dei gas in Etiopia.
Nel 1948 ritorna in Eretz Yisrael e partecipa alla Guerra d’Indipendenza nella Brigata Givati. Successivamente rientra nella vita civile e diviene, nel 1954, direttore dell’Ospedale di riabilitazione di Tirat Shalom, vicino a Tel Aviv.
Storie di morte…Storie di ritorno alla vita, come anche quella che possiamo leggere in un piccolo dépliant, posto all’uscita dalla mostra: sono stralci del Diario di guerra di Vittorio Lanternari (su gentile concessione della figlia Diana). Dopo un lungo periodo di terrore, nascondigli, fughe interminabili: “Il 4 [agosto 1944; non siamo a Bologna, evidentemente] mattina i tedeschi hanno sgombrato le posizioni. Il 5 arriva alle 11 di mattina la prima camionetta inglese. Welcome. Welcome to you! I am a very friend of you, I am very glad you have arrived. I am a jew”.
[1] Sul tema v. il notevole testo a cura di ARIETI Stefano e MIRRI Domenico, La cattedra negata. Dal giuramento di fedeltà al fascismo alle leggi razziali nell’Università di Bologna, Ed. CLUEB, Bologna, 2002, pp. 223.