Ed. Giuntina, Firenze, Gennaio 2014, pp. 120,    €.10

 
“Un cretino, in preda a una folle ispirazione, ha scritto sui muri della sinagoga [di Bologna] ‘Morte agli ebrei!’; parole figlie dell’odio lette su ogni giornale e sentite in tanti discorsi. In quante menti alberga il deserto!”
“….I nostri poveri occhi umani hanno una vista breve, limitata nello spazio, ma ancor più nel tempo. Non sappiamo quel che ci aspetta domani e nemmeno fra cinque minuti…”
 
Nissim Matatia è un giovane ebreo greco originario di Corfù, pieno di spirito di iniziativa.
Ai primi del Novecento lascia il suo Paese alla volta dell’Italia, insieme col fratello Leone.
Si stabilisce a Forlì dove apre una pellicceria che, in pochi anni, diviene un negozio apprezzato e ben frequentato. Nel 1920, viste le ottime prospettive, giunge in Italia il terzo fratello Eliezer, il quale apre, a sua volta, un esercizio di pellicceria nella vicina Faenza.
Nissim è sposato con Matilde Hakim, correligionaria nativa di Smirne; dal matrimonio sono nati tre figli: Beniamino, detto Nino, nel 1924; Camelia, nel 1926, e Roberto, nel 1929. La famiglia trascorre estati spensierate a Riccione, dove Nissim ha acquistato, nel 1930, una graziosa villetta in mattoni rossi, in fondo a Viale Ceccarini, con un bel giardino che giunge quasi fino alla spiaggia. Tutto sembra andare per il meglio: l’attività prospera, diversi gerarchi fascisti sono legati ai Matatia da rapporti commerciali e di consuetudine, le loro mogli frequentano il negozio, il giro delle amicizie è costituito da persone importanti.
Nel frattempo la casa posta proprio di fronte all’abitazione dei Matatia, già chiamata Villa Margherita, diviene di proprietà nientemeno che di Benito Mussolini. Nel periodo delle vacanze c’è tutto un andirivieni di personaggi illustri in visita, esponenti del regime, operatori dell’Istituto Luce….Villa Mussolini è motivo di orgoglio in più per il nostro Nissim al quale quasi non sembra vero di essere al centro del mondo che conta, in quegli anni Trenta.
Ma l’aria sta cambiando. Siamo nell’estate 1938 e qualcuno tra gli amici ben informati comincia a mettere in guardia i Matatia. Per voi Ebrei si preparano tempi difficili. State attenti: vendete tutto, realizzate al meglio ed andatevene.
Si sente parlare di strane, assurde leggi contro la popolazione ebraica, a imitazione di quelle vigenti in Germania da tre anni. Il legame tra Mussolini e Hitler si è fatto sempre più stretto.
E’ un dato incontrovertibile che, ormai da diverso tempo, la propaganda antisemita è divenuta ogni giorno più assillante, al fine di preparare la pubblica opinione alla normativa che sarebbe stata emanata di lì a poco. La pubblicazione di libri, articoli, saggi pseudoscientifici (che portano firme illustri per l’epoca), caricature all’insegna dei tradizionali stereotipi antisemiti, intende insinuare tra gl’italiani l’antica, peraltro mai sopita, paura di un preteso dominio degli Ebrei sul mondo, l’ancestrale, immarcescibile odio, nelle sue mille, incredibili sfumature. Obiettivo raggiunto con successo, poiché non si notano ribellioni di sorta a tale vergognosa campagna.
Nissim sa bene che essere Ebrei significa portare un pesante fardello, che le persecuzioni sono una costante nell’esistenza del suo popolo; per questo rifiuta di perdere la calma di fronte alla nuova situazione. Non intende vendere la sua casa riccionese, frutto di sudati risparmi, né tanto meno vuol prendere in considerazione la possibilità di lasciare quello che è ormai il suo Paese -anche se ancora non ne ha ottenuto la cittadinanza-, come invece ormai meditano sul serio di fare i suoi fratelli. E come faranno, salvandosi.
Ma è avvilito e preoccupato, specie allorché lo convocano, a più riprese, presso la Questura di Bologna, dove certo commissario D’Antonio, senza peli sulla lingua e con la sicumera di chi sa di essere dalla parte del potere -ma che, con sadico piacere, “ci mette del suo”- gl’ingiunge di vendere la villa al mare perché essa “costituisce un ostacolo per le serene vacanze del nostro amato Duce e un danno irrimediabile al prestigio dell’Italia in campo internazionale. [sic!]. E’ inimmaginabile che il Duce risieda vicino a una famiglia di ebrei!”
Dolore, paura, scoraggiamento…..
La speranza che “le cose si sistemeranno” tramonta definitivamente con l’emanazione delle famigerate leggi del settembre 1938 con annessa miriade di disposizioni, circolari, normative diverse.
Nissim è abbandonato da tutti: nessuno si affaccia più al suo negozio in piazza Saffi, a Forlì -e le leggi antiebraiche sono state appena promulgate; figuriamoci di lì a poco…-, i cosiddetti amici gli hanno voltato le spalle; compreso Ettore, quel suo “amicone vicino a Mussolini”, per usare le parole di Matilde, il quale, non solo lo tratta con freddezza, non appena gli si rivolge, ma coglie al volo l’occasione per carpirgli una cifra ingente in cambio di un ipotetico aiuto. E quando Nissim gli fa osservare che non potrà mai arrivare a quella somma, ecco l’immancabile tiritera antisemita, carica di disprezzo, sul rapporto amoroso tra ebrei e danaro: “Un giudeo che non ha soldi!”, accompagnata da uno sguaiato scoppio di risa.
Seguono, nel giro di un breve lasso di tempo, il carcere e l’espulsione dall’Italia, in quanto cittadino straniero, e poi….
Poi la tragica odissea della famiglia, tra terrore, dolori e umiliazioni indicibili (come la forzata vendita della casa al mare per un prezzo vile), speranze, il rientro clandestino di Nissim che non sa, non può, star lontano dai suoi, nascondigli e immancabili tradimenti.
L’arresto, in momenti diversi, dell’intera famiglia, la deportazione verso il luogo maledetto, Auschwitz.
Di loro cinque tornerà solo Nino, salvato dalla sua abilità nel suonare la fisarmonica, ma morirà poco dopo, a causa delle sofferenze subite.
 
Roberto Matatia (Faenza, 1956), laureato in giurisprudenza, imprenditore, è nipote, in linea paterna, di Eliezer, fratello minore di Nissim, e quindi pronipote di Nino, Camelia e Roberto, del quale porta il nome.
I vicini scomodi. Storia di un ebreo di provincia, di sua moglie e dei suoi figli negli anni del fascismo, pubblicato il mese scorso da Giuntina , è un’opera preziosa che ho amato fin dalla prima pagina. Non solo perché le vicende ivi narrate si svolgono in luoghi che ben conosco -Bologna, dove abito, le non lontane Faenza, Forlì, Savigno (sul nostro Appennino)-, ma anche e soprattutto per quel sapore di vita familiare vissuto nel profondo, che essa sa trasmetterti.
A cominciare, nell’introduzione, dall’incontro avvenuto, circa trent’anni fa, nel negozio di Faenza, tra lo stesso Roberto Matatia e Mario, amico della giovanissima Camelia, in un passato lontano in senso cronologico, ma ancora ben presente nel suo cuore. Tra i due -incontratisi sulla corriera che ogni mattina portava lei da Savigno in città, a Bologna, per frequentare la scuola ebraica costituita con coraggio dalla locale Comunità a far tempo dal dicembre 1938- era sbocciato un tenero amore di adolescenti; a Mario (biondo, animo sensibile, cattolico, ma per nulla spaventato al pensiero di amare un’ebrea) la ragazzina aveva scritto alcune lettere, nelle quali confidava le proprie paure, il dolore per una situazione che le appariva assurda, ma anche progetti, speranze, scritte con una sensibilità e una maturità che t’incantano. Facile comprendere come quell’incontro condizionerà tutta l’esistenza di Mario. L’ultima lettera è datata 1 dicembre 1943: pochi minuti dopo la diciassettenne Camelia viene arrestata (dai soliti italiani) con la mamma Matilde e il fratello Nino e, dopo la detenzione a Bologna e in varie città, deportata ad Auschwitz dove sarà uccisa in data ignota.
Mario consegna a Roberto una cartella di colore giallo: vi sono raccolte le famose lettere perché “…voglio che le conservi un Matatia; sono una testimonianza unica di quella che è stata la terribile storia di quei tempi”.
Sono state proprio queste missive, meditate a più riprese con crescente emozione, profonde nella loro lucida drammaticità, a stimolare l’Autore a raccogliere materiale per conoscere quanto più possibile la storia della famiglia. Esse costituiscono l’ossatura del suo primo, toccante libro.
Un racconto vivo, appassionante, in presa diretta, in cui chi scrive dà voce via via ai congiunti, immedesimandosi in loro con intensa empatia.
Stupenda è l’immagine scelta per la copertina: Camelia e Nino insieme, con un amico al centro: tutti e tre in bicicletta, sorridenti, abbracciati, felici.
Come ti affascina lo studio dei caratteri compiuto dall’Autore.
Nissim, solido imprenditore, il quale coltiva a lungo l’illusione di essere considerato per le sua capacità e non per la “discendenza”.
La fierezza, lo scoramento, l’illusione che, dopo il 25 luglio, il pericolo si stia allontanando, l’amore per i congiunti, la paura “..mi sento come un topo in trappola: da una parte i fascisti, dall’altra le bombe, in mezzo io”.
I bombardamenti sulla mia città, Bologna, le cui immagini ho visto tante volte.
Matilde, con il suo carattere passionale, la visione tradizionale della vita, la propensione ad esternare paura e dolore, senza moderarsi. Nino, che intuiamo, al di là dell’aspetto vigoroso, come fragile ed oltremodo sensibile. Il giovanissimo Roberto, del quale è detto poco, ma basti la scena dell’arresto (aveva quattordici anni).
E soprattutto Camelia, poco più che una bambina quanto all’età anagrafica, ma già donna nell’animo, capofamiglia in assenza del padre, in grado di sorreggere gli altri. E’ il personaggio chiave del libro, che non definirei propriamente romanzo, ma una sorta di testimonianza, diretta come un’intervista. No, non la dimentichi Camelia, come del resto non dimentichi tutti i suoi cari; tanto che, giunta all’ultima pagina, ti pare di averli incontrati e conosciuti in carne e ossa.
Roberto Matatia ci regala anche alcune fini pennellate psicologiche.
Due esempi. L’antisemitismo senza ebrei di due militari che offendono con frasi ingiuriose Nissim, lasciandolo stupefatto: “….Sono allibito e, notando il loro accento pugliese, mi chiedo mai quanti ebrei avranno avuto modo di conoscere nel luogo da dove provengono!”
O quella scena commovente, all’interno del carcere di S. Giovanni in Monte a Bologna. Un sacerdote entra nella cella dove si trovano Nissim e altri compagni di sventura. “Il prete ci guarda, stupito e compassionevole e, con occhi lucidi e in silenzio, ci abbraccia uno ad uno. Quell’affettuoso e inatteso gesto di solidarietà umana mi ha colpito e impressionato, tanto che scoppio a piangere come un bambino”. Senz’altro il sacerdote in questione era lo “storico” (dal 1916 al 1976!) parroco della chiesa di San Giovanni in Monte -nella cui circoscrizione risiedo-, attigua al carcere, Mons. Emilio Faggioli, uomo severo, ma sensibilissimo, che celebrò il mio matrimonio. Durante la guerra era solito riunire alcuni giovani cattolici antifascisti all’interno del campanile, per ovvie ragioni di sicurezza -rispetto ai nazifascisti e… ai bombardamenti alleati: un campanile non era certo un obiettivo facile da centrare-.
Da tutta la narrazione emerge, ancora una volta, come l’odio antisemita sia una sorta di bomba ad orologeria pronta a scoppiare in qualunque momento o, se preferite, un fiume carsico che esce all’aperto nei momenti (in apparenza) più impensati e secondo modalità spesso differenti.
A conclusione della lettura del libro di Matatia mi si consenta una riflessione sul Giorno della Memoria, da ultimo celebrato.
Quest’anno il significato della ricorrenza è stato oggetto di dibattito vivace, poiché il 27 Gennaio aveva finito per assumere, nel corso del tempo, il ruolo di “festa comandata”, svuotata di significato. Anzi spesso strumentalizzata. O in chiave che definisco antisemita oltre l’inimmaginabile: l’attribuzione allo Stato di Israele nei confronti dei Palestinesi dei crimini commessi, a suo tempo, dalla Germania hitleriana contro gli Ebrei (magari con la variante di negare, in tutto o in parte, che la Shoah sia mai avvenuta -guai pretendere coerenza da chi mente conscio di mentire!-), in barba a qualunque criterio di onestà storica, culturale ed umana.
Celebrare, tanto per esser chiari, il giorno della memoria ponendosi dalla parte non delle Vittime autentiche, bensì di coloro che furono fedeli alleati dei nazisti. Posizione assai diffusa, non solo nel nostro Paese, ma in tutto l’Occidente, come studiosi autorevoli purtroppo dimostrano (Daniel Goldhagen in primo luogo).
O in chiave, per così dire, diversiva e “buonista”, in voga nelle scuole (non tutte, beninteso!): accostare cioè al Giorno della Memoria altre tematiche, certo rilevanti, ma che esulano da quanto previsto dalla Legge istitutiva, n. 211 del 20 luglio 2000: come, ad esempio, la condizione degl’immigrati nei CIE o la violenza contro le donne. Ciò al fine di celebrare il Giorno in modo “nuovo”. E falsato, aggiungo.
Tentativi, questi ultimi, fatti talora in buona, talaltra in mala fede, volti comunque a non affrontare il vero problema, a non voler tenere conto di una verità incontrovertibile, ignorando la quale la melassa che (auto)assolve gli odierni…celebranti, più che un rischio, diviene realtà concreta.
La verità è questa: le leggi razziali non furono un fulmine a ciel sereno, ma vennero approvate, più o meno silenziosamente, dalla maggioranza degli italiani. Non furono opera di pazzi fanatici, lontani da una popolazione sana e per bene. Quindi ciò che è successo, potrebbe avvenire ancora, tenuto conto della rilevante riserva di antisemitismo presente oggi in Italia e in Europa.
Basta poco per riaccendere la miccia. E’ fuorviante ripetere l’inascoltabile e ipocrita MAI PIU’ se non si va alla radice del problema. Questo si dovrebbe dire in occasione del 27 Gennaio, con tutte le scomode conseguenze che ne derivano.
Riflettere finalmente su questi temi, dimostrare come fa, col suo linguaggio poetico, Roberto Matatia, quanto sia stretto il mortale rapporto tra vittima e carnefice -le stesse persone con le quali solo ieri avevi normali rapporti di amicizia e di affari o magari scherzavi in spiaggia, oggi sono quelle che ti tradiscono, ti sputano in faccia e, alla fine, ti consegnano agli aguzzini- può costituire un primo passo per comprendere sul serio le cause, oltre che le complicità, di ciò che è accaduto.Ecco il booktrailer dell’opera, tratto dal sito web di Giuntina
http://youtu.be/vIw9iYqNtcU