Trad. Anna Linda Callow, Ed. Giuntina, collana Israeliana, Aprile 2014, pp. 248, €. 15
“Qui, in questo Paese, prima della guerra c’erano settecentocinquanta sinagoghe, millecentocinquanta cimiteri ebraici, tre milioni e mezzo di ebrei! Oggi avremmo potuto essere quaranta. Quaranta milioni! Ma Hitler ha distrutto l’ebraismo europeo” “La Polonia non lascia indifferente nessun ebreo, è solo questione di tempo….”
“ ‘Malinka, noi siamo un miracolo’ nelle orecchie sento ancora la voce di Hezi ‘siamo l’inizio di qualcosa di bello’ ”. “Non ti dimenticare nemmeno un nome”
“Di che cosa ha tanta nostalgia in realtà?”
Amalia Ben Ami (cognome originario Zukmayer) è un’israeliana di origine polacca, 53 anni, single, annunciatrice alla radio; ha sempre vissuto, insieme ai congiunti, in un quartiere posto nella zona sud di Tel Aviv, Bitzaron (Fortezza), abitato da sopravvissuti alla Shoah. Un ambiente chiuso, dove le persone giunte dall’Europa non parlano ebraico, ma le lingue dei Paesi di origine: soprattutto lo yiddish, ma anche il rumeno, il polacco, l’ungherese…Luogo di nostalgie, di dolori mai dimenticati, di incubi ricorrenti, di speranze appena abbozzate, perché mai sviluppatesi appieno.
Temperamento tenace e sarcastico, Amalia cerca con determinazione di costruirsi un’esistenza libera dai fantasmi del passato. La sua famiglia. La madre, Itka, ora defunta, era una donna all’apparenza distaccata, lontana -non aveva mai superato lo strazio della Shoah-; le sue preferenze erano sempre andate alla figlia minore: Michaela -soprannominata da Amalia “Miss Perfezione”, elegantissima, gallerista d’arte (con l’incorreggibile vizietto di sottrarre oggetti dalla casa della stessa Amalia per valorizzare la propria collezione), un matrimonio a gonfie vele col sefardita Roni, di professione architetto, due figlie-. Il padre, Arthur, idealizzato dalla primogenita, appare e scompare nella vita di casa, è figura fuggevole e rarefatta. Ad un certo punto egli, suscitando la generale riprovazione, se ne va a…….
A Bitzaron, formato da villette bifamiliari a un piano, risiedono, le une accanto alle altre, famiglie per lo più composte da genitori e figli unici: gli Zukmayer costituivano, a tale proposito, un’eccezione. I più vicini a loro, ricorda la protagonista, erano: gli Zunenshayn: madre, padre e figlio Hezinka (Hezi). E i Grin: il figlio Gadinska (Gadi lo zoppo), il padre Marek e la madre Sarka.
Quest’ultima, figura davvero terribile, dominante nei confronti della debole amica Itka, era sempre pronta ad inveire contro Amalia ritenendola una buona a nulla, incapace di realizzare alcunché di decente nella vita, a cominciare dal reperimento di un marito come si deve. Insomma il tipo velenoso ed impiccione che tanti di noi, sotto diverse spoglie, hanno ahimé incontrato nel corso della loro esistenza.
Gli adulti rievocavano, gli uni agli altri, “i bei tempi”, cioè l’epoca precedente la guerra, nello shtetl di Ustrzyki, in Polonia, dove erano nate le madri di Amalia e Hezi.
Amalia (detta Malinka), Hezi e Gadi, coetanei, crescono insieme; poi i due ragazzi, pur entrambi innamorati dell’amica affascinante e ribelle, lasciano quel luogo che impedisce loro di sviluppare un’autonoma personalità e si trasferiscono altrove: il primo a Parigi, il secondo a New York. Via dalla sofferenza, Via da ricordi troppo pesanti. Solo lei è rimasta, intelligente, sensibile, in perenne ricerca del grande amore, ma pronta a cacciarlo lontano non appena esso parrebbe stagliarsi all’orizzonte.
I tre sono lontani, tuttavia i ricordi, i drammi, superati solo in apparenza, riprendono corpo in un gioco drammatico e imprevedibile. E’ il grumo di sofferenza che attanaglia la cosiddetta “Seconda Generazione “ , cioè i figli dei sopravvissuti alla Shoah.
E’ di nuovo con i suoi lettori Lizzie Doron, l’originalissima scrittrice israeliana (Tel Aviv, 1953) che abbiamo scoperto solo sei anni fa ed amato subito per la prosa essenziale e succosa, lo stile ironico in grado di farti sorridere tra le lacrime [1]. D’altronde, come lei stessa afferma, mai avrebbe potuto vivere senza un certo senso dell’umorismo; qualità ereditata dalla madre, Helena, la quale, nonostante le vicissitudini patite, era una donna molto spiritosa.
L’inizio di qualcosa di bello, pubblicato in Israele nel 2007 -dunque la quarta opera in ordine cronologico-, è il suo quinto romanzo uscito in Italia, edito, come i precedenti, dall’ Editore Giuntina .
Un…assaggio lo abbiamo potuto gustare in occasione della Festa del Libro Ebraico in Italia, tenutasi a Ferrara dal 26 aprile all’1 maggio scorsi, quando nel corso di uno dei tanti “Colloqui con l’Autore”, Lizzie ci ha confidato le circostanze che l’hanno portata a scrivere questo racconto, che approfondisce le tematiche da lei preferite; e non solo.
La trama si presenta come un complicato intreccio esistenziale: emozionante quanto impossibile triangolo amoroso tra i protagonisti, Amalia, Hezi e Gadi, narrato secondo i tre diversi punti di vista -e di vissuto-. Condivido quanto afferma, in una recente intervista, Eshkol Nevo, significativo rappresentante, tra gli scrittori israeliani, della generazione dei quarantenni: “Un piacere che si rinnova è raccontare una trama da più punti di vista”, per rendere fluida e completa la narrazione.
Nei personaggi principali sono adombrati tre amici dell’Autrice, ai quali ella ha aggiunto qualche particolare o caratteristica, frutto di fantasia. Col suo stile magico ella è in grado sia di suscitare nel lettore emozioni nuove, conducendolo lungo strade inesplorate, sia di commuoverlo nel riproporre temi a lei cari, perché legati alla sua esperienza personale; come, ad esempio, l’influenza traumatica prodotta dalla Guerra di Yom Kippur (autunno 1973) sui coetanei o il fatto che i genitori, sopravvissuti alla Shoah, considerassero tale Tragedia una sorta di paradossale unità di misura dell’esistente. “Ad Auschwitz [lei] sarebbe stata in grado di procurare la zuppa migliore” oppure, al contrario, ”Laggiù [quello] non avrebbe resistito un giorno”.
O i complessi, dolorosi intrecci tra le persone che tali terribili esperienze hanno saputo comporre o, più sovente, frantumare.
Dapprima parla Amalia. Sotto una scorza fatta di spregiudicatezza e atteggiamenti talora sfrontati, si nasconde un temperamento romantico, di chi non ha rinunciato all’Incontro della sua vita. Ad un certo punto ella sembra averlo trovato nell’antico compagno di gioventù Hezi, professore alla Sorbona, affascinante affabulatore, libero (forse) da vincoli sentimentali.
I due si incontrano in occasione del breve rientro in Israele di lui per il funerale del padre.
Hezi racconta con entusiasmo il suo progetto: ricostruire la Polonia ebraica distrutta dai nazisti (a cominciare dalla rimpianta Ustrzyki) e riportarvi gli antichi abitanti, ora dispersi tra Israele e U.S.A.; progetto di cui è responsabile, composto anche da parti filmate, per il quale si avvale di alcuni collaboratori. Nella propria ansia visionaria, l’uomo vede in Amalia (da lui insistentemente chiamata, alla maniera yiddish, Malinka, con evidente, prevedibile, fastidio dell’interessata) la persona ideale vuoi come voce fuori campo che documenta le attività del gruppo, vuoi come compagna in una vita rinnovata che sarà la vera sconfitta del nazismo. L’inizio di qualcosa di bello, appunto.
Ella, affascinata da lui -forse meno dai suoi piani- lascia di punto in bianco Patria e lavoro (con le inevitabili conseguenze), raggiunge il suo amato a Parigi, trepidante e speranzosa.
Ma viene catapultata nel girone dantesco di una spedizione a Cracovia, organizzata da Hezi, insieme alla sgradita compagnia dei sodali di lui, tra i quali un elemento di punta è Ursula, architetta tedesca (Miss Achtung, così soprannominata da Amalia in un misto di rabbia e sarcasmo), donna dall’esistenza travagliata, con evidenti mire amorose sul fascinoso capo spedizione.
Amalia cerca di resistere alle difficoltà, anche perché si immagina i pensieri maligni che avrebbe espresso su tutta la faccenda la perfida Sarka, malgrado quest’ultima non si trovi più tra i vivi; protesta il proprio sionismo di fronte alla Dichiarazione d’Indipendenza di Israele proclamata “a rovescio” da quei pazzi (“Nella terra di Polonia sorgerà il popolo ebraico….”), ripensa alla propria disastrata vita sentimentale e alle occasioni perdute.
Attraverso una prosa fresca ed immediata Lizzie Doron ci porta sulle montagne russe di continui cambiamenti di fronte spazio/temporali, talora stordenti per il lettore, ma sempre affascinanti, espressione dei pensieri dei protagonisti.
Ma, alla fine, Amalia getta la spugna. Torna in Patria con un insolito souvenir, autentica ritorsione nei confronti di Hezi, e vi ritrova…..Indovinate chi….
C’è una figura di primo piano nella crescita e nella vita di Hezinka Zunenshayn: un amico di famiglia giunto in Israele da Parigi quando il piccolo Hezi aveva sette anni.
Wolf Katzenelbogen, questo il suo nome, è uomo un po’ misterioso, dotato di irresistibile carisma. Entrata in scena che non si dimentica: mazzo di rose rosse in mano -omaggio alla padrona di casa, cioè la madre di Hezi-, completo blu, cravatta di seta colorata, mentre “nel nostro quartiere tutti gli uomini portavano solo vecchi abiti grigi”. Baci, abbracci e pianto della mamma.
Il bambino non ha un’idea chiara sul rapporto di parentela che lega Wolf e sua madre, né che cosa sia la mitica Résistance di cui egli era stato un eroe, a detta dei genitori. E’ colpito dall’ebraico elegante e, soprattutto, dagli occhi di lui: uno azzurro e l’altro verde, particolare che, a prima vista, lo spaventa; ma che in seguito finirà per incantarlo.
Sono gli anni in cui in Israele si discute il problema se sia giusto percepire i risarcimenti di guerra dai tedeschi -come ritiene Wolf, specie se si è sopravvissuti di Auschwitz; “la nostra vendetta” osserva- o se ciò sia inaccettabile, proprio per lo stesso motivo (tale è la dolorosa posizione della madre). Gli anni della costruzione del giovane Stato, dove l’Ebreo forte e combattente sa tener testa ai nemici, armati di potenti eserciti che gli muovono guerra a…trucidarlo intesi. E poi, a seguire, il 1967 allorché, con quella sorprendente vittoria, Israele appare invincibile, in grado di lasciare a bocca aperta l’incredulo ed assai indispettito resto del mondo.
“Merde….Mai più. Abbiamo i Mirages e i carri armati Centurion…non ammazzeranno più i nostri bambini, non ci porteranno via i nostri genitori, non permetteremo che accada di nuovo….Combatteremo, vinceremo, non porteranno Esterka in una camera a gas, non fracasseranno la testa di Tunishka su una pietra”.
Dalla storia ricordiamo il brusco risveglio dell’ottobre 1973, con la Guerra mossa a maligna sorpresa contro Israele da Egitto e Siria nei giorni impegnativi per tutti gli Ebrei, osservanti o meno poco importa, di Yom Kippur, le vicissitudini drammatiche, e spesso tragiche, dei decenni successivi. E sappiamo pure come la lotta per la propria sopravvivenza del piccolo Stato Ebraico sia ben lungi dall’essere finita. E che bambini israeliani hanno fatto la fine della piccola Tunishka.
Wolf è sempre presente nella vita di Hezi e della sua famiglia. Una famiglia che nasconde dolorosi segreti, traumi mai superati; vite spezzate dalla Shoah, il cui ricordo è vivissimo. Anzi, tutto è Attualità, non Memoria.
Fatti dei quali l’Autrice ci mette a parte con intensa delicatezza, profonda partecipazione di esistenza condivisa; e pure crudo realismo, da brivido: “Tuo padre aveva consegnato i suoi due gemelli a Mengele, pensava che così li avrebbe salvati dalla camera a gas”.
E c’è la madre di Hezi, figura tragica fino al giorno della sua morte, persona segnata per sempre, la quale, da un certo punto in poi, diviene muta e sorda. Per comunicare col prossimo, ella disegna.
Disegna il suo paese natale, Ustrzyki, che non c’è più: le case, il cimitero, la sinagoga…..Il ricordo mai sopito di un amore di ragazza che le è davanti ogni giorno.
Grazie a Katzenelbogen, sorta di padre putativo, Hezi andrà a studiare a Parigi, diventerà docente universitario.
Significativo, a tale proposito, è l’incontro con un illustre docente, il Prof. Henri Lucien, grazie al quale il giovane viene a conoscenza di rilevanti fatti che riguardano i suoi congiunti e, più in generale, di vicende concernenti la Francia durante l’occupazione nazista: gli Ebrei, Vichy, le complicità nelle deportazioni, i persistenti silenzi di decenni.
E Hezi ricorderà tanto l’amore dell’adolescenza, Amalia, che le sue “radici” ebraico europee; anzi, come sappiamo, il progetto di restaurare cimiteri, case, sinagoghe e riportare gli Ebrei polacchi da Israele nei loro luoghi d’origine è intimamente legato alla figura di lei, ritenuta la sua “donna del destino”. Riflette “..devo persuadere Malinka che noi apparteniamo anche a questo posto, abbiamo una missione, una responsabilità nei confronti del luogo da cui i nostri genitori sono stati cacciati”.
La campagna desolata che il protagonista attraversa nella ricerca dei parenti e di se stesso mi ricorda alcune scene dello splendido film Ida, visto alcuni mesi fa [2]: “Sulla strada sterrata che stavamo percorrendo vidi pozzanghere torbide, galline fradice di pioggia e fango, cani ossuti, un cavallo solitario, quattro mucche. La macchina passò davanti a una fila di case di legno. I miei occhi cercarono la casa della mamma, quella della famiglia Mintz, quella dei Katzenelbogen, la macelleria di Zerah, la casa del dottore…”.
Un progetto che è insieme risarcimento ai congiunti e ricerca di un filo comune che leghi le generazioni. Perfino a costo di forzare la realtà con affermazioni che farebbero sobbalzare non solo chi abbia un minimo di spirito sionista, ma chiunque conosca un poco la storia. “…Il mondo” afferma Hezi durante un seminario all’università “ha sistemato gli Ebrei in un loro Stato nazionale e si è ripulito la coscienza. Ma voi, come mai non avete fatto ritornare gli ebrei nel vostro seno?”
Il programma che Hezi fa suo e che porta avanti con decisione, nonostante incontri ostacoli d’ogni tipo, parte da lui, dal suo cuore, ma trae profonda ispirazione da….. Perché? Il lettore lo scoprirà in queste pagine vive, palpitanti, da leggere e meditare.
Tuttavia, può realizzarsi un simile sogno?
Gadi ritorna da New York -dove si è costruito una discreta posizione e ha messo su famiglia- nella sua città, nel suo quartiere. I ricordi lo assalgono.
Ricorda con tenerezza la madre Sarka, ora defunta (sempre dipinta come donna forte, decisa, ma non così aspra come appare nel racconto di Amalia), gl’incoraggiamenti di lei per spingerlo a camminare dopo che era stato colpito, da piccolo, da una lieve forma di poliomielite.
E’ un bambino solitario, dati i problemi di salute, nonostante gli sforzi della madre affinché socializzi, ignorato -o tutt’al più dileggiato per la sua infermità- dai coetanei, tra i quali spicca Hezi Zunenshayn, il “re del quartiere”, ammirato da tutti. Sta in disparte ed osserva. La mamma lo incita con energia a leggere. Solo la piccola Malinka gioca con lui, ma è sgradita a Sarka, come sappiamo.
Grazie ad un dispositivo inviato da un amico di famiglia residente in America, la camminata di Gadi migliora, ma i coetanei, con la tipica grettezza dei ragazzi, lo respingono ugualmente.
Meglio andarsene.
Ora è di nuovo in Patria, dopo anni di assenza. Nonostante le sofferenze subite è sempre rimasto legato all’ambiente che lo ha visto crescere, perché esso gli ricorda Malinka.
Negli USA -interessante, sia pure veloce, è lo sguardo della scrittrice sul mondo dell’Ebraismo ultraortodosso americano- Gadi ha fatto fortuna come ottico, ha sposato Dina, una ragazza ricca di iniziativa, è diventato padre di due ottimi figli; ma la nostalgia ha finito per rodere la sua esistenza di uomo tormentato dal carattere complesso, al punto da indurlo, per anni, a ritornare, sia pure per periodi brevi, intensi e frequenti nei luoghi mai dimenticati. Nonostante ciò abbia comportato per Dina gravi conseguenze psico-fisiche.
Sogno e Realtà che si mescolano. In Gadi, come in Hezi, Malinka, Israele e il Passato sono un tutt’uno: un tormento che pare impedire vera serenità a questi figli della “Seconda Generazione” .
Malinka, donna del mito, dai suggestivi capelli ricci, gli occhi azzurri incantatori, la voce suggestiva è parte della loro esistenza; essi non sono certo di fronte, e noi con loro, alla “nervosa zitella cinquantenne”, di cui fa cenno a Gadi una vicina di casa.
Non vi è alcuna speranza di serenità, dunque? Forse c’è una luce, ma il prezzo da pagare sarà, ancora una volta, molto doloroso.
[1] Per i miei contributi sulle opere di Lizzie Doron, sulla sua vita e sulle ragioni che l’hanno portata a divenire una scrittrice giustamente amata ed ammirata nel mondo, vedi: Commento a Sotto la Stella di David, Festival di Letteratura israeliana a Bologna (Luglio 2008); Recensione a C’era una volta una famiglia (Gennaio 2009); Recensione a Giornate tranquille (Aprile 2010); Commento al Festival della Letteratura di Mantova (Settembre 2010); Commento alla Festa del Libro Ebraico a Ferrara (Aprile 2014). L’ordine poi della pubblicazione in Patria dei romanzi è il seguente: I) Perché non sei venuta prima della guerra?, 1998; II) C’era una volta una famiglia, 2002; III) Giornate tranquille,2003; IV) L’inizio di qualcosa di bello, 2007; V) Salta, corri, canta, 2010.
[2] V. mio commento, su questo sito, marzo 2014.