Trad. Elena Loewenthal, Ed. Guanda, Settembre 2007, pp. 141  

“Qualche giorno prima, presso l’ufficio postale, un cittadino di Badenheim, maggiore nella Prima Guerra Mondiale, era andato a chiedere….perché mai l’ufficio era chiuso. Il Dottor Pappenheim…..rispose…che la città era sottoposta ad una specie di quarantena. ‘Non capisco’ disse il maggiore ‘c’è forse un’epidemia?’ ‘Un’epidemia ebraica’ ‘Perché vi prendete gioco di me? ‘Non è uno scherzo, provate ad andarvene…..’ “.
 
L’editore Guanda riserva ai lettori una preziosa sorpresa al ritorno dalle vacanze: in questi giorni, infatti, è uscito, nella suggestiva traduzione di Elena Loewenthal, questo romanzo che Aharon Appelfeld scrisse nella seconda metà degli anni ’70 (significativo il titolo originario in ebraico: Badenhaim ‘ir nefesh), tradotto in molti Paesi del mondo, apparso da noi con Mondatori nel 1981, esaurito per diversi anni, ed ora riproposto da Guanda.
L’Autore è uno dei maggiori scrittori israeliani contemporanei. Meno conosciuto presso il nostro grande pubblico dei celeberrimi Yehoshua, Grossman, Oz -ma quanti, tra il c.d. grande pubblico, leggono davvero le opere, di oggettivo valore, di questi ultimi, anziché limitarsi ad un rapido esame delle loro opinioni politiche, in quanto tali, discutibili?- egli coinvolge per la profonda ironia con cui tratteggia i suoi personaggi, accompagnandoli con indulgente affetto nelle tragiche vicissitudini che li vedono protagonisti.
Nato nel 1932 a Czernowitz, in Bucovina, da una famiglia ebraica, Aharon è deportato in un campo di concentramento insieme al padre, dopo che i nazisti gli avevano ucciso la madre. A otto anni riesce a fuggire, si nasconde per alcuni anni nei boschi, aiutato per lo più da persone ai margini della società (nei confronti delle quali conserva una speciale predilezione, priva di retorica); viene poi raccolto dai soldati dell’Armata Rossa (nel 1944), presso i quali presta servizio come cuoco. Nel 1946, dopo essere arrivato in Italia, riesce a raggiungere la Palestina mandataria. In Israele, nel 1959, ritroverà suo padre.
Vincitore di prestigiosi premi letterari, ha pubblicato venticinque titoli fra romanzi, raccolte di racconti e saggi (ha insegnato letteratura ebraica presso la Ben Gurion University di Be’er Sheva). I suoi libri sono stati tradotti in ventotto lingue. In italiano sono stati pubblicati: Il rifugio (Mondadori 1985, esaurito), Il mio nome è Katerina (Feltrinelli 1994), Tutto ciò che ho amato (La Giuntina 2002), Storia di una vita (La Giuntina 2001) e Notte dopo notte (La Giuntina 2004).
Badenheim 1939 è un romanzo breve, intensissimo, ricco di quell’umorismo yiddish nel quale l’iniziale, apparente, farsa scivola nell’inesorabile tragedia.
La vicenda è allegorica. Nella primavera del 1939 giungono, come ogni anno, i villeggianti nella località austriaca di Badenheim, dove si tiene un celebrato festival di musica. Badenheim è una cittadina reale (lo stesso Appelfeld vi si recava, da bambino, coi genitori), ma è anche un luogo dell’anima, come suggerisce il titolo nella lingua originale. Una novità accoglie gli ospiti: per ordine delle Autorità viene imposto agli ebrei di registrarsi presso un misterioso Dipartimento sanitario. Un Dipartimento dotato di vasti poteri, con ispettori sguinzagliati ai quattro angoli per misurare, piantar bandiere, tendere recinzioni, mentre alacri facchini scaricano rotoli di filo spinato, pali di cemento ed attrezzature, che “facevano venire in mente una grande festa” annota l’Autore con sarcasmo. Si ipotizza che detti ispettori abbiano pure competenze tributarie….Davanti a quell’ordine di registrazione diverse persone sono infastidite, alcune protestano, ma nessuno riconosce con chiarezza la minaccia. Tanto più che, ben presto, si diffonde la voce che ospiti ed abitanti saranno trasferiti, a cura del Dipartimento, in Polonia e, se si considera che quello è il luogo di origine della maggior parte di essi, ecco che la fantasia e la nostalgia per la terra dei padri hanno il sopravvento e fanno nascere una cloroformizzata illusione. Mirabile la penna dell’artista nel tratteggiare i differenti caratteri. Dalla moglie del farmacista, Trude, nella cui mente sconvolta torna la lucidità non appena rammenta come la Polonia sia la terra più bella del mondo, con l’aria più limpida, al marito Martin, ora divenuto, lui, confuso e privo di energia; a Sally e Gertie, due prostitute non più giovani, pazienti e generose, nonostante fossero state tenute, in passato, ai margini della comunità; a Yanuka, figura grottesca di bambino prodigio, che suscita un sentimento di intuibile antipatia, mista a pietà.
Su tutto aleggia un senso di incombente catastrofe, reso palpabile dall’ambiente naturale circostante, che via via si fa sempre più freddo e ostile. Perfino i rapporti tra le persone mutano: nascono nuove amicizie, s’intrecciano storie sentimentali, ma scoppiano pure ostilità reciproche, sconosciute fino a quel momento; si assiste a saccheggi e perfino ad un suicidio. Ad un certo punto diventa impossibile comunicare con l’esterno perché l’ufficio postale viene chiuso.
Tuttavia, nonostante gli sconvolgimenti, finché il pur intuito pericolo resta senza un volto preciso, si preferisce dar retta alle parole rassicuranti dell’impresario Dottor Pappenheim, organizzatore del festival, che, paradossale pifferaio magico, fa del suo meglio per illudere i compagni di tragedia e se stesso.
Alla fine il gruppo si avvierà docile verso la stazione, guidato da un rancoroso rabbino sulla sedia a rotelle, sbucato ad un certo punto dal nulla (“Al rabbino era presa una paralisi. In città erano convinti che fosse defunto”). Sembra proprio che nessuno di loro paia comprendere a fondo la natura e le dimensioni dell’inferno che sta per inghiottirli.
“Se i vagoni sono così sporchi, significa che non si andrà lontano”. E’ la frase che conclude la disperata metafora, che, a volte, almeno nei toni e nei caratteri, sembra anticipare i temi del piccolo gioiello cinematografico Train de vie di Radu Mihaleanu: l’illusione della borghesia ebraica europea, convinta di essere parte integrante dei propri Paesi di origine, decisa a non voler vedere, né capire, che l’epoca dell’assimilazione era terminata ed era iniziata quella della discriminazione e della distruzione. Significativa l’illustrazione di copertina (idea di Giovanni Mulazzani), sintesi del messaggio che ci lascia l’Autore: l’affascinante signore dai capelli lisci, come detta la moda del tempo (il Dr. Pappenheim?) con un bicchiere di vino rosso in mano, ma con una stella gialla cucita sulla giacca elegante.
Tanti (“Illuministi fino all’ultimo capello” osserva Appelfeld in una recente intervista) erano convinti che l’antisemitismo fosse passeggero e preferirono restare, anziché, fin tanto che fu possibile, fuggire verso le Americhe, la Palestina o chissà dove.
Quando aprirono davvero gli occhi, era troppo tardi.
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