PRO Armenia

(Titolo originale Pro Armenia. Jewish Responses to the Armenian Genocide, Center for Armenian Remembrance -CAR-, Glendale, California, Vartkes Yeghiayan,  2011)

 A cura di Fulvio Cortese e Francesco Berti; Introduzione di Antonia Arslan, Trad. Rosanella Volponi, Ed. Giuntina, collana S. Vogelmann,  Gennaio 2015, pp. 132, € 12,00

“Tutti gli Autori concordano sulla pianificazione statale dello sterminio degli armeni, da condursi principalmente attraverso il sistema della deportazione, che molto efficacemente Einstein definisce un Esodo rovesciato: una marcia nel deserto verso la morte o la schiavitù, invece che verso la vita e la libertà, com’era stata quella del popolo ebraico guidato da Mosè” dalla postfazione

“Armeni, fratelli miei, noi non possiamo aspettarci nulla dai governi, noi abbiamo soltanto le nostre anime…” Alex Aaronsohn, Novembre 1915

Una tragedia che pareva dimenticata, anche se possiamo verificare come, più che di oblio, possiamo parlare di una sorta di oscuramento, di oculata, politicamente programmata, damnatio memoriae calata come macigno sul destino di un popolo; un genocidio del quale si sono occupati per lungo tempo solo storici e specialisti, questi ultimi talvolta parenti delle vittime o loro discendenti, pressoché sconosciuto al grande pubblico.

Metz Yeghern, cioè Grande Male, il Genocidio degli Armeni -perpetrato dai Turchi negli anni della Prima Guerra Mondiale, in particolare nella primavera 1915, ma con prodromi nel secolo precedente e proseguimento fino al 1922- solo in tempi recenti è divenuto oggetto di progressivo interesse pure da parte di coloro i quali, pur non studiosi di professione, hanno a cuore sul serio la sacralità della vita e la tutela dei diritti umani.

Il Genocidio, tuttora non riconosciuto dal governo della Turchia, al punto che chi ne parla rischia, in quel Paese, di finire sotto processo ai sensi dell’art. 301 del Codice penale (“Offesa alla dignità nazionale turca”), fu il programma di annientamento di un Popolo in quanto tale -persone, cultura, storia, monumenti, in primo luogo chiese e monasteri, va da sé-, attuato con fredda determinazione, non certo un “danno collaterale” del conflitto, come troppi hanno sostenuto e tuttora sostengono. Fu il primo genocidio del XX secolo, che comportò la morte di circa un milione e mezzo di persone. La “prova generale” dalla quale Adolf Hitler seppe ben trarre spunto, tanto che, una volta, dichiarò che, di lì a pochi anni dai fatti, nessuno si sarebbe più ricordato degli Armeni.

Previsione vera solo in parte, poiché l’interesse verso la Tragedia di questo stupendo Popolo -il primo al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di Stato, nel 301 e.v., precedendo così di alcuni decenni l’Impero romano- è andato è andato via via crescendo. Per merito, in Italia, di associazioni come Gariwo, la Foresta dei Giusti, presieduta da Gabriele Nissim (del quale uscirà, a fine aprile, in occasione del centenario del Genocidio, un volume dedicato ad Armin T. Wegner, ufficiale tedesco, coraggioso testimone oculare, oppositore al nazismo, dichiarato Giusto da Ebrei e Armeni), e Antonia Arslan, docente universitaria padovana di origine armena, autrice di indimenticabili testi sull’argomento, quali anzitutto il romanzo La masseria delle Allodole (2004), dedicato alla sua famiglia.

Nell’estate 2012 incontrai la Prof.ssa Arslan allorché ella presentò, a Cortina d’Ampezzo, una sua recente opera; breve, ma bellissima: Il libro di Mush (Ed. Skira), vicenda ambientata durante Metz Yeghern. A tale proposito, v. il mio commento  su questo sito (Agosto 2012), con brevi note in calce.
In quell’occasione l’A.  ci mise a parte dei suoi ultimi studi sul tema, dei rapporti di amicizia e collaborazione instaurati in California con esponenti della vivace comunità armena che vive là, in particolare con l’Avv. Vartkes Yeghiyan e sua moglie Rita.

Grazie pure a costoro stava prendendo corpo il progetto di redigere un testo che raccogliesse voci ebraiche sul Genocidio Armeno. Gli esponenti di un popolo perseguitato da tempo immemorabile, gli Ebrei, che raccontano con viva partecipazione le sofferenze inflitte ad un altro popolo, gli Armeni, sorta di loro, per così dire, “interfaccia cristiana”, percepito così simile nei drammi, nelle sofferenze, ma pure nella gioia di vivere, nella cultura, nella religiosità profonda.

La Prof.ssa parlò, tra l’altro, degli Aaronsohn, la famiglia ebraica di origine romena, trasferitasi in Terra di Israele a fine ‘800, i cui giovani membri, i fratelli Aaron, Sarah, Alex -insieme ad un gruppo di amici- dettero vita, com’è noto, negli anni della Prima Guerra Mondiale, ad un intrepido gruppo, il Nili, [1] il quale svolse opera di spionaggio a favore dei britannici contribuendo, in maniera determinante, alla vittoria di questi ultimi contro l’Impero turco.

Udire la parola “Aaronsohn” e sentir risuonare in sala i nomi dei tre fratelli, tanto uniti tra loro, dei quali avevo visitato, nel 2010, le case poste in quel luogo quanto mai evocativo chiamato Zikhron Ya’aqov, fu per me un’emozione indescrivibile. Ho atteso l’uscita del testo annunciato con una certa trepidazione.

In questi giorni, per rendere omaggio alla Memoria di Metz Yeghern, la Casa Editrice Giuntina  pubblica, nella collana Schulim Vogelmann: Pro Armenia – Voci ebraiche sul genocidio armeno. [2]

Nel volume sono raccolte quattro testimonianze, in presa diretta, di Ebrei che hanno assistito in prima persona -da diversi punti di vista, esperienze e analisi- alla nascita e allo svilupparsi del “Grande Male”. Ne ripercorrono la genesi e la travagliata storia, ne evidenziano le caratteristiche (del tutto nuove, come detto, rispetto a precedenti eccidi) e gl’incredibili orrori, ponendone in luce, senza alcun infingimento, le responsabilità. Responsabilità principali: il governo dei cosiddetti “Giovani Turchi” -movimento politico che peraltro aveva suscitato iniziali grandi speranze di modernizzazione e democrazia in un contesto decadente ed arretrato, quale quello del cosiddetto “Uomo malato d’Europa”- e, in particolare, della triade costituita da: Enver Pascià, Ministro della Guerra, Djemal, Ministro della Marina, e Talaat Bey, Ministro degl’Interni (“l’uomo forte” del regime). Senza contare l’ideologo ispiratore, Nazim Pascià.
Responsabilità secondarie, ma già precorritrici di ciò che avverrà di lì a pochi decenni: quelle dell’alleata Germania, nelle persone dei suoi burocrati senza scrupoli.

Evidente appare, sin da subito, nel lettore la premeditazione, la volontà di attuare con estrema accuratezza il programma di sterminio.

L’opera, curata da Fulvio Cortese (Professore di Istituzioni di diritto pubblico presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Trento) e Francesco Berti (Professore di Storia delle dottrine politiche presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università di Padova), anche  autori dell’istruttiva post fazione, tradotta da Rosanella Volponi, porta l’intensa prefazione di Antonia Arslan, la quale ci presenta i nostri testimoni, autentici Giusti, dei quali sono pubblicati brani forse non noti come meriterebbero, ma, proprio per questo, utilissimi. Di tutti, alla fine, sono riportate esaustive note bio / bibliografiche.

Due diplomatici, operanti a Istanbul nel tremendi mesi della primavera /  estate 1915.

Lewis Einstein (I massacri armeni, gennaio 1917), anche apprezzato storico (New York, 1877 / Parigi, 1967), fu primo segretario di legazione nell’ambasciata statunitense e, in seguito, ambasciatore in Cecoslovacchia. Autore di circa un centinaio di pubblicazioni su svariati argomenti, dall’arte rinascimentale, alla storia, alla geopolitica, intrattenne per anni un’interessante corrispondenza con Wendwell Holmes, illustre giurista, membro della Corte Suprema americana.

Andrej Nikolaevič Mandelstam (La Turchia, Parigi, 1918), nacque in Russia (1869), studiò a S. Pietroburgo e a Parigi, avviandosi alla carriera diplomatica. Fu segretario dell’ambasciata russa nella (allora) capitale ottomana. Rifugiatosi a Parigi dopo la Rivoluzione bolscevica, si occupò, in via privilegiata, di Diritto internazionale, dedicando le proprie energie alla protezione delle minoranze, ambito in cui svolse un ruolo di avanguardia. Autore di numerose pubblicazioni, è stato il fondatore dell’Istituto di Diritto Internazionale e “padre nobile” della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che, a più riprese tentò, senza successo, di porre all’attenzione dei più alti consessi internazionali. Essa fu approvata dall’ONU il 10 dicembre 1948, poche settimane prima della morte (1949) di colui che l’aveva tanto curata e caldeggiata.

Di Aaron Aaronsohn leggiamo Pro Armenia, Memorandum presentato al Ministero della Guerra a Londra nel 1916. Il testo corrisponde a un dattiloscritto, risalente a fine 1916, tratto dagli archivi del Nili, presso Casa Aaronsohn in Zikhron Ya’aqov. Aaron, nato a Bacău (Romania) nel 1876, immigrato bambino in Terra d’Israele con la famiglia, morto il 15 maggio 1919, agronomo di fama mondiale, ideatore, come detto, del Nili, sionista, è uno dei Padri morali dello Stato di Israele.

Il suo scritto dà giustamente il titolo al nostro libro;  ti colpisce nell’intimo per il tono vibrante e per la profonda carica umana.

Egli non assiste di persona agli eccidi, ma ne constata le terrificanti conseguenze. Villaggi abbandonati e distrutti, cataste di cadaveri, centinaia e centinaia di persone ridotte a larve umane, dalle malattie e dall’efferatezza turca; ragazze e ragazzi armeni tratti in schiavitù. La medesima tragedia che oggi colpisce altre popolazioni del Medio Oriente e dell’Africa, tragedia che peraltro sembra non essere meritevole di un intervento liberatore coordinato ed efficace da parte delle cosiddette democrazie.

Le complicità dei Tedeschi, alleati dei Turchi.

Sappiamo quanto la tragedia armena sia stata alla base dell’impegno politico di Aaron e  Sarah, la quale, nell’estate del 1915, nel viaggio da Costantinopoli (dove aveva lasciato un coniuge non amato) a casa, aveva visto coi suoi occhi i massacri indiscriminati compiuti dai Turchi contro gli Armeni e ne era stata segnata per sempre. Giunta in Patria, insieme col fratello e gli amici, nel timore, anzi nel consapevole terrore, che altrettanto potesse accadere agli Ebrei -il che, in parte, succederà agli abitanti, se non erro, di Tel Aviv, che, per qualche tempo, furono deportati dalle loro case-, mette in piedi la meritoria rete spionistica, cui debbono la vita oltre trentamila soldati britannici, ma che a lei porteranno tortura e morte (catturata, trovò la forza di suicidarsi per non cedere agli aguzzini ottomani) e a lui la scomparsa nel 1919, allorché era stato chiamato da Haim Weizmann quale inviato  alla Conferenza di pace di Parigi, in un incidente aereo sulla Manica, le cui cause non sono mai state chiare.

Il libro si conclude con Dossier sul genocidio armeno, assai documentato contributo dell’avvocato polacco Raphael Lemkin (Vawkavysk, allora Bielorussia, 1900 / New York, 1959).

Ispirato dagli studi compiuti sulla tragedia degli Armeni, fu proprio Lemkin, figura fondamentale nella riflessione politica e morale della nostra epoca, a coniare, com’è noto, nel 1944, il termine “Genocidio”, definizione accettata dall’ONU nel dicembre 1948.

Il saggio di Lemkin è importante, come rilevano i curatori nella postfazione, perché proviene da un giurista il quale, fin dal 1933 -data emblematica!-,  proprio a partire dalla tragedia armena, aveva profuso il massimo impegno nel promuovere sul piano internazionale l’adozione di una convenzione in grado di obbligare gli Stati a punire ciò che solo più tardi, dopo la Seconda Guerra Mondiale e la Shoah, verrà definito come “Genocidio”.

Giuntina ci propone un testo la cui lettura è semplice per la scorrevolezza, ma altresì impegnativa, prima che per la copiosa messe di dati forniti, per l’intensa capacità di coinvolgere chi legge.

Ci induce infatti a ripensare a quanto accadde nel XX secolo, ma anche, attraverso le pagine dei nostri autori, così attuali nel renderci partecipi di quelle efferatezze (incluso il carattere anche di persecuzione anticristiana, spesso misconosciuto, che Metz Yeghern riveste), a riflettere sulle dure prospettive dell’oggi, caratterizzate pure da un crescente, sempre più vasto, antisemitismo; diffuso a macchia d’olio, a cominciare da Europa e Turchia.

Un contesto assai preoccupante, dove perfino autorità di alto peso politico -e non solo- sembrano frenate dall’incertezza e dall’incapacità di dimostrare un autentico coraggio morale.


[1] NILI è l’acronimo della frase biblica Netzach Israel Lo Ishakare (L’Eterno di Israele non ti deluderà).

[2] Come già aveva intuito Franz Werfel -autore del celebre romanzo I quaranta giorni del Moussa Dag (Die vierzig Tage des Musa Dag) scritto a Damasco nel 1929, pubblicato nel 1933, ispirato ad una vicenda realmente accaduta- sul popolo armeno fu sperimentata, per la prima volta nel Novecento, un’efficienza del tutto moderna, di tipo industriale, “massificata”, nell’organizzazione dello sterminio. In Italia è importante in tema il saggio di Marcello Flores, Il genocidio degli Armeni (il Mulino, 2006, pp. 295, €. 22). Flores fa parte del gruppo di studiosi -tra essi Martina Corgnati, Ugo Volli, David Meghnagi- che pubblicherà, nel prossimo mese di marzo, Il genocidio infinito (Ed. Guerini), dedicato a Metz Yeghern. Nello scorso novembre, poi, è uscito AmarArmenia (Ed. Ararat, gruppo editoriale di Silvia Denti, pp. 318) di Diego Cimara, giornalista e scrittore, di origine armena per parte di madre: romanzo-diario sul genocidio del popolo armeno, libro di storia, saggio sul bene e sul male, diario intimo di Kostja, nonno dell’A., filosofo nella Parigi degli anni ’20 del Novecento.