(Titolo originale Sippur al ahava ve hosekh; 2002)
Trad. Elena Loewenthal, Ed. Feltrinelli, Milano 2003, pp. 627
Trad. Elena Loewenthal, Ed. Feltrinelli, Milano 2003, pp. 627
“Presumibilmente così cominciò la mia vita di scrittura: al caffè. Agognando un gelato o una pannocchia.
Ancora oggi pesco così. Soprattutto sconosciuti. E soprattutto in luoghi affollati……in coda davanti alla cassa: prima di me c’è una donna non alta, avrà quarantacinque anni più o meno, è piuttosto formosa….dietro di me… un soldatino di vent’anni: malinconico, tiene fissi i suoi occhi famelici sulla figura della donna che la sa lunga. Mi scosto di mezzo passo per non nascondergliela, libero per loro due una stanza con un tappeto soffice, chiudo le persiane, mi appoggio allo stipite della porta, ma da dentro: la scena immaginaria è al suo apice con dovizia di particolari…Finché la cassiera non mi sveglia esclamando: sì, prego? E con un accento che non è propriamente russo, piuttosto, forse, originario di una Repubblica dell’Asia centrale, no? Eccomi dunque…nella bella Bukhara….”
Quando uscì in Italia nel 2003, non tardai ad acquistarlo; ma confesso che questo poderoso romanzo, salutato come un’autobiografia nazionale e il capolavoro di Amos Oz, mi ispirava una certa soggezione. La cara amica Yocki Kugel -professoressa, lettrice di lingua ebraica presso la nostra Università per alcuni anni, ora ritornata a Tel Aviv- mi consigliò vivamente di leggerlo: “Non preoccuparti per la mole” cercò di rassicurarmi “resterai coinvolta da quelle pagine e non farai fatica ad andare avanti” E spiegò: “E’ un libro importante perché…è anche la storia di Israele”.
Trascorse altro tempo; seguirono diverse vicende e letture.
Non perdevo gli articoli di Amos Oz pubblicati su il Corriere della Sera, pur dissentendo per la verità, a volte, dalle sue posizioni in ordine al conflitto israelo/palestinese. Avevo letto con attenzione il saggio Contro il fanatismo (apparso in Italia, sempre con Feltrinelli, nel 2004), che raccoglie tre conferenze, ricche di contenuto, tenute da lui presso l’Università di Tübingen (Germania); mi ero riconosciuta in pieno nella sua tesi secondo la quale lo humour è un’ottima terapia contro il fanatismo. “In vita mia non ho ancora visto un fanatico dotato di senso dell’umorismo e nemmeno ho mai visto una persona dotata di senso dell’umorismo diventare un fanatico….I fanatici sono spessissimo sarcastici” osservava e il pensiero era corso subito, per riflesso condizionato misto ad irrefrenabile, maliziosa soddisfazione, a certe mie conoscenze nell’ambito del variegato mondo delle Associazioni di amicizia Italia/Israele “Alcuni di loro hanno un profondo senso del sarcasmo, ma niente spirito” Com’è vero, com’è vero, lo so per diretta esperienza! “L’umorismo implica la capacità di ridere di se stessi…” E poco prima confessava “Nel mio mondo la parola compromesso è sinonimo di vita. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte. Sono sposato con la stessa donna da quarantadue anni: rivendico un briciolo di competenza, in fatto di compromessi…
Quando dico compromesso…..intendo….incontrare l’altro, più o meno a metà strada”.
Questo vale, in genere, nella vita comune e pure nel conflitto israelo/palestinese; a patto, però, che entrambe le parti ne siano convinte; e non una sola, come purtroppo si verifica nella realtà.
Intanto, però, il librone restava lì, nella biblioteca di camera da letto in legno color verde chiaro -piccola, ma straripante di volumi- in piedi, ultimo del ripiano, dopo Gente d’Israele di Ruthie Blum, quasi a far da sostegno, per le sue dimensioni, a tutti gli altri. Il padre di Oz mi avrebbe giustamente rimproverato per questa soluzione. Pazienza.
Finché, alla fine del mese scorso, nell’apprestarmi ad un breve periodo di vacanza, la decisione: non è possibile scrivere con cognizione di causa sulla letteratura (e cultura) israeliana, sia pure per un piccolo sito web destinato agli amici, anzi a maggior ragione per rispetto nei loro confronti, senza aver digerito ed assimilato alcuni testi, tra i quali Una storia di amore e di tenebra occupa un ruolo di primordine; anzi non se ne può prescindere, per nulla al mondo.
E così, nel soggiorno con la famiglia sulle Alpi austriache, ho avuto un accompagnatore, a volte magari duro, ma formativo: un’esperienza al termine della quale, se si può parlare di “termine” in simile contesto, sei maturata non solo sotto il profilo letterario e storico, ma soprattutto spirituale ed umano. Ti mette alla frusta, eccome, caro lettore. Coloro che cercano il cuore di una storia, ad esempio, non lo troveranno, scrive Amos Oz, nella ricerca di una relazione tra lo scritto e lo scrittore: nel verificare, ad esempio, se lo studente Fiodor Dostoevskij avrà mai ucciso e derubato anziane vedove; no, ma nel rapporto che si instaura tra lo scritto e il lettore. Nel provare a mettersi nei panni di Raskolnikov, per sentire il terrore, la disperazione, frammista a megalomania ed arroganza napoleonica, per tentare un paragone fra i personaggi della storia e il tuo io segreto, folle e criminoso, la creatura mostruosa che eri convinto di tenere imprigionata per sempre nel profondo di te stesso.
Nel nostro romanzo si intrecciano vicende complesse; magia, psicologia, storia e geopolitica (ma qui mi hanno soccorso Giovanni Codovini, Benny Morris e Barnet Litvinoff), favola; risate, lacrime, speranze, delusioni, tragedia, gioia sublime, in un continuo andirivieni tra passato e presente.
Tra il piccolo Amos Klausner di otto anni cui, in un primo momento, viene permesso dal padre, il 29 novembre 1947, di assistere alla trasmissione radio della votazione all’Assemblea ONU sulla Risoluzione n. 181, concessione su cui prevale il realismo materno di mandarlo a dormire, ma con un impegno: “….se l’esito sarà buono allora ti sveglieremo foss’anche mezzanotte, per raccontarti tutto. Promesso.” Il bambino, manco a dirlo, si sveglia da sé, verso la fine della votazione e, dalla sua finestra, che dà sulla strada, sbircia tra le fessure delle persiane. “Da tremare……..Poi la voce [del brasiliano Osvaldo Arania, Presidente dell’Assemblea] si fermò di colpo. D’un tratto un silenzio di altri mondi scese e agghiacciò tutta la scena, un silenzio terrificante, un silenzio pieno di fiati sospesi quale non avevo mai sentito in vita mia né mai più sentii, prima e dopo di allora….”
….E il celebrato e premiatissimo scrittore Amos Oz che ogni mattina, ad Arad dove risiede dal 1986, allo spuntare del sole, va a vedere che cosa c’è di nuovo nel deserto. “Il deserto…comincia in fondo alla mia strada….la frescura della notte ancora tiene. C’è un buon profumo di terra intrisa di rugiada, frammisto a un sentore di zolfo e di sterco di capra e rovi e fuochi spenti. E’ l’odore della terra di Israele da tempi immemorabili…” Quell’odore che, una volta percepito, ti penetra nell’anima e non ti abbandona.
Poco dopo, l’incontro col vicino di casa, il Sig. Shmulevitz, un colonnello in pensione, deportato a dodici anni, con tutta la famiglia -di cui fu l’unico sopravvissuto- al campo di Maidanek, che irride le sue speranze di pace col mondo arabo e con i palestinesi (“…Questa tragedia, voi la chiamate ancora pace? Mai sentito parlare dei Sudeti? Di Monaco?…No?)
Si mescolano la storia di un uomo, di due famiglie nell’arco di oltre un secolo, di una Nazione. Lo stile cambia di continuo, in una ricerca appassionata. Luce e tenebra e contraddizioni. Passato e Presente. Avanti e Indietro. Amore e Tenebra.
C’è un centro, per così dire, forte, che determina l’unitarietà del racconto: il suicidio dell’amata madre, Fania Mussman, a seguito di una lunga, dolorosa depressione, avvenuto in casa della sorella di lei, Haya, a Tel Aviv, nel gennaio 1952, quando Amos non aveva ancora tredici anni. Su questa tragica vicenda egli aveva serbato un silenzio lungo un cinquantennio.
“Di mia madre non ho parlato quasi mai, per tutta la mia vita fino a ora, che scrivo queste pagine. Né con mio padre né con mia moglie né con i miei figli né con nessun altro. Dopo la morte di mio padre, nemmeno di lui ho quasi mai parlato. Come se fossi stato un trovatello”.
PERCHE’ QUESTO ROMANZO, PERCHE’ PARLARE (SCRIVERE) ORA?
Che cosa lo ha spinto a ritornare ai suoi primi 15 anni di vita che aveva, potremmo dire, rimosso per tanto tempo? In un’intervista rilasciata tempo fa confessava che, cinque anni prima, un nipote gli aveva chiesto se si ricordasse di suo nonno. “Gli ho dato questa risposta lunga 600 pagine….Avvicinandomi ai sessant’anni ho sentito il bisogno di comunicare con i miei genitori, morti molti anni prima. Avevo bisogno di capire….da che cosa fossero scappati. Avevo un’età in cui, ormai, non ero più arrabbiato con loro. Molta gente scrive le proprie memorie per….uccidere nuovamente i propri genitori…Io ho scritto questo romanzo in un momento in cui l’ira si era spenta ed ero pieno di…empatia verso di loro”.
Il linguaggio è efficace, colorato, pieno di sfumature, con pensieri e annotazioni che vanno dritti al cuore del lettore; non mancano, nei contesti giusti, toni ed accenti epici, ma non vi troverai un granello di retorica.
Elena Loewenthal, grande traduttrice ed interprete del profondo, ha dato il meglio di sé, anche se, a mio avviso, l’aver italianizzato alcuni termini per comodità del lettore -ad esempio “papalina”, al posto di “kippah”- ha tolto dalla narrazione un po’ del fascino che la lingua ebraica porta con sé.
Vi sono forti pennellate di ironia affettuosa; Amos Oz è, tra i grandi autori israeliani, l’unico che (finora) non ho conosciuto di persona, pur sperando di colmare quanto prima la lacuna, ma, nelle fotografie e nei filmati, mi ha sempre colpito lo sguardo azzurro, tra il timido e l’ironico, nel suo bel volto solcato da rughe.
Il romanzo si snoda lungo sessantatre capitoli ed è composto, per così dire, di diversi piani che si intersecano l’un l’altro in un mirabile castello palpitante di vita.
Alcune (poche, per la verità) ripetizioni attestano un non esatto incastro tra i diversi piani; ma ciò non è, a mio sentire, un difetto, poiché sta ad indicare la sofferenza, il vissuto faticoso dell’Autore sulle pagine che scrive, una carne viva, come tale non perfetta.
Altro aspetto interessante, nell’intreccio tra storie personali e grande storia, l’apparire sulla scena, in prima persona o grazie alle parole dei diversi personaggi, di interpreti rilevanti per la storia del popolo ebraico e/o di Israele. Da Bialik, a Shmuel Yosef Agnon (“…un giovanotto delicato…un ragazzo sottile e sognatore…”), da Yosef Chayyim Brenner (“un ebreo russo ombroso e isterico, tozzo, trasandato….un’anima dostoevskijana sempre in bilico fra l’entusiasmo e la depressione….”), a David Ben Gurion (all’incontro del giovane autore col quale è dedicato un gustosissimo capitolo), a Menahem Begin (ritratto in maniera impareggiabile) a Vladimir Zeev Jabotinsky e tanti altri, come la poetessa israeliana Zelda, verso la quale Amos Oz nutre profondo affetto e gratitudine.
Vi è pure un accenno, fatto da zia Sonia (sorella della madre), a Giovanni Paolo II, in occasione della visita di questi in Israele nel 2000, ricco di umanità e simpatia (“…si vedeva persino dalla televisione che le gambe gli facevano un male dell’accidenti, ma lui si è fatto forza ed è rimasto muto lì allo Yad Washem per mezz’ora filata, con quell’afa, pur di non offenderci…..”).
LE FAMIGLIE E I PERSONAGGI PRINCIPALI
Vi è la ricostruzione avvincente della storia, nel tempo e nello spazio, di due famiglie della borghesia ebraica europea, da Odessa, Vilnius e Rovno a Gerusalemme, dove esse -a seguito delle persecuzioni antisemite prenaziste- giungono, con la volontà di impiantare nella Terra dei Padri una nuova esistenza ed identità. Interessanti le vicende dei due gruppi, con le numerose ramificazioni, gli spaccati di storia e le annotazioni psicologiche.
Da una parte c’è quello paterno, i Klausner, originari di Odessa e prima ancora della Lituania e, ancora ancora prima, di Matersorf o Matersburg (Austria orientale).
L’esponente più illustre è il prozio dello scrittore, Yosef Gedaliah Klausner (“zio Yosef”). Nato a Oulkeniki nel 1874, fu un importante studioso di lingua e letteratura ebraica (e Professore all’Università Ebraica di Gerusalemme) che Begin e il partito Herut avevano indicato come loro candidato alla Presidenza del neonato Stato di Israele in contrapposizione a Haim Weizmann. Zio Yosef era un “nazionalista liberale illuminato in stile diciannovesimo secolo, al pari di Zeev Jabotinsky” del quale condivideva le posizioni politiche. Aveva compiuto i suoi studi dapprima a Odessa, dove aveva frequentato i circoli sionisti (prima degli Amici di Sion, poi di Ahad ha-am), indi, dato che gli studi superiori, nella Russia zarista, erano preclusi agli Ebrei, a Heidelberg. Aveva conosciuto di persona Theodor Herzl e partecipato al primo congresso sionista nel 1897 a Basilea.
Si era recato una prima volta in Terra di Israele nel 1912 e vi si era stabilito definitivamente nel 1919, dopo aver viaggiato sulla nave Ruslan (sorta di “Mayflower” sionista della terza aliah) insieme alla moglie Fanny Weinrich -per tutti “zia Zipporah”, con la quale, in precedenza aveva dato vita, nella loro casa di Odessa, ad un importante salotto letterario- e all’anziana madre Rose-Keile-Braz.
All’Università di Gerusalemme, inaugurata nel 1925, ricoprì dapprima la cattedra di letteratura ebraica e, in seguito, quella di storia ebraica, cui maggiormente teneva.
Perfino a quell’epoca e in quel contesto, che immagineresti lontano da beghe di potere, la carriera accademica non era facile e zio Yosef faticò assai per realizzare le sue aspirazioni. Infatti “i baroni dell’università, dall’alto della loro germanicità, mi guardavano con la stessa superbia che usavano verso ogni idea nazionale o verso tutto ciò che non meritava gli applausi delle genti e degli assimilati di Sion”.
Era persona di vasta cultura e profonda sensibilità, il Professore. Il pronipote ne traccia un parlante ritratto: un uomo dall’aria mite, con il volto incorniciato da una barbetta accurata, riconoscibile nel francobollo che le poste israeliane gli dedicarono nel 1982.
La sua casa nel quartiere di Talpiyot -concepito come la copia gerosolimitana di un verde sobborgo berlinese-, in cui risiedeva con la moglie, era frequentata da artisti, politici, gente di cultura e vantava una biblioteca ricca di 25.000 volumi. Essa si trovava quasi di fronte alla residenza di Shmuel Yosef Agnon, futuro Premio Nobel per la letteratura, con il quale peraltro zio Yosef non era in buoni rapporti. Entrambe le abitazioni furono gravemente danneggiate durante le rivolte antisemite arabe del 1929.
Beffa della sorte, quando, nel 1958, il Prof. Klausner morì, la strada fu intitolata a lui; e così Agnon si trovò a risiedere in un luogo dedicato a qualcuno nei confronti del quale non provava alcuna simpatia. Così ironicamente annota lo scrittore.
Ciò che Amos ragazzo ammirava di più in questo parente era il fatto che egli avesse coniato, nella risorta lingua ebraica, nuove parole, come ad es., “lunario” o “matita”.
Creare una parola nuova e…”innestarla nella normalità della lingua mi pareva non troppo distante da colui che aveva creato luce e tenebra…. Mettere al mondo una parola nuova è un po’ come sfiorare l’eternità” .
Degni di attenzione sono pure gli studi che il Prof. Klausner condusse sulla figura di Gesù (con i testi Gesù di Nazareth e Da Gesù a Paolo), che, c’era da prevederlo, suscitarono, per motivi opposti, le ire sia di parte ebraica che di parte cristiana. Egli considerava Gesù un seguace della dottrina ebraica “nel senso più pieno dell’espressione” e, in un accostamento tra Gesù e Baruch Spinoza, afferma, in tono calmo, ma deciso, che i “loro detrattori altro non erano che ebrei del passato, dagli angusti orizzonti e dalla scarsa intelligenza, come i vermi nella rapa”.
Un grande amore legava lo zio a sua moglie, zia Zipporah, una sintesi di madre moglie figlia tardiva e scudiera (scrive Amos volutamente non punteggiando). Il dolore che essi provavano per non aver avuto figli è espresso con immagini delicate.
Coinvolgente è la Gerusalemme che emerge dalla descrizione del percorso compiuto, ogni due o tre sabati pomeriggio, dal piccolo Amos con i genitori dalla loro casa, nel quartiere di Kerem Abraham, a quella del prozio (il “pellegrinaggio” a Talpiyot). Grazie a quelle passeggiate durante le quali egli impara ad osservare i diversi tipi umani e ad immaginare storie con loro, nel bambino ancora inconsapevole comincia a nascere lo scrittore.
Leggiamo. “Uscivamo di casa dopo pranzo, nell’ora in cui la città si chiudeva dietro le imposte e sprofondava tutta nel sonno del sabato pomeriggio…Come se tutta Gerusalemme fosse stata travasata dentro una bolla trasparente”.
Ma pure “Qui, in via King George e anche nella crucca Rehavia e nella ricca greco-araba Talbiyeh, dimorava un silenzio diverso, che non assomigliava affatto a quello religioso dei sabato pomeriggio…un silenzio….conturbante…un po’ straniero, un silenzio britannico…Sui due lati della strada c’era qui una facciata incravattata, discreta ma con una certa arroganza….voci soffuse, tessuti pregiati….calici alti e modi sottili. Sugli ingressi c’erano targhe nere di vetro di studi di avvocati….medici, notai…agenti di grandi industrie straniere”.
Gerusalemme assurge al ruolo di personaggio del romanzo, come del resto in altre opere di Oz.
Un serio contributo a questa tematica lo ha dato un giovane scrittore veronese, Lorenzo Gobbi, che ebbi il piacere di incontrare l’anno scorso nella sua città in occasione di alcuni incontri tenuti da lui e dalla moglie, Maddalena Cavalleri, su Gerusalemme e la poesia di Paul Celan (e altro). Lorenzo è una persona simpatica e alla mano, con la quale è piacevole chiacchierare. Ha scritto, tra gli altri, un prezioso libretto Gerusalemme nella memoria di Amos Oz , Ed. UNICOPLI, 2006, che mi è stato molto utile per approfondire le diverse immagini con le quali la città si presenta nelle pagine di questo romanzo. Si potrebbe quasi dire che essa cambia e cresce insieme con l’Autore.
Torniamo agli altri attori della vicenda.
Il fratello minore di zio Yosef, Alexander (nonno dello scrittore), soprannominato fin da piccolo Zussi o Zussl (zucchero), è la figura più piacevole nella schiera dei parenti e l’A. non nasconde la sua simpatia per lui.
Nonno Alexander (nato nel 1881 e morto nel 1977/’78) era mediatore commerciale e rappresentante di prodotti di abbigliamento, di giorno; ma poeta, di notte.
Nella solitudine del suo studiolo, con un bicchierino di liquore dolce sulla scrivania, spandeva sul mondo (indifferente) rime d’amore, di ardore e malinconia, rigorosamente in russo.
I suoi componimenti erano dedicati non solo a personaggi femminili, ma anche Zeev Jabotinsky o a Menahem Begin o al fratello famoso; ma egli non disdegnava invettive contro “i tedeschi gli arabi gli inglesi e altri nemici di Israele”. Erano celebri in famiglia le sue ire (riconoscibili a distanza nei prodromi) che tuttavia duravano poco: “…nel giro di un istante dimenticava chi e che cosa lo avevano fatto tanto arrabbiare…come un bambino che un momento piange e quello dopo ride, tornando allegro ai suoi giochi”.
Fu irresistibilmente attratto dalla bellezza femminile fino alla tardissima età e amato dalle stesse donne, che trovavano ricca di fascino la sua capacità di ascolto. Impagabile la scena in cui, a novantatre anni compiuti e con le più serie intenzioni, rivolge, in un linguaggio russo/ebraico tutto suo, “un discorso sulla donna”, a quattrocchi, al nipote Amos, il quale -piccolo particolare- aveva, all’epoca già trentasei anni, era sposato da quindici e padre di due adolescenti. Stupende le conclusioni del nipote in calce all’episodio.
Egli aveva una predilezione per la nuora Fania, della quale temeva la tristezza; la morte di lei lo addolorò moltissimo.
A 17 anni Alexander si era innamorato della cugina Shlomit Levin, maggiore di lui di 8, 9 anni, una “gran signora”, come rileva l’Autore, mentre sfoglia l’album di famiglia, dove vi sono tante foto dei suoi cari nel periodo europeo, accanto a compagni di scuola sorridenti ed amici, sulla cui sorte Oz si pone drammatiche domande. Alexander e Shlomit si innamorano a dispetto di tutti; fuggono in nave a New York -senza essere ancora sposati!-, ma….lascio ai lettori il piacere di scoprire le vicissitudini di questa coppia, che, caso più unico che raro, resterà nella Goldene Medine solo un anno. E vani saranno i tentativi, anche a distanza di tempo, di altri congiunti per conoscere dagli interessati le cause del rientro a casa. Viene tirato in ballo il fatto che il Paese era affollato, troppo, per la sua piccolezza, s’incolpano i cavalli…gli indiani….ma la ragione vera non verrà mai rivelata; in omaggio alla contraddittoria omertà antica, che ama mescolar le carte e imbrogliare l’ingenuo interlocutore, al limite con pause nel discorso studiate ad arte.
Una sorta di “parlare col p”, cioè mettendo una p davanti ad ogni parola pronunciata (rigorosamente accelerando la velocità espressiva, al momento buono), allo scopo di non farsi comprendere da altri “che non dovevano sapere”; sistema adottato, in gioventù, da mia suocera Lina e dalle sue sorelle, nonché dal fratello minore Agricola.
Ecco un piccolo esempio di personale rapporto instaurato tra lo “scritto” e il “lettore”.
Dopo il ritorno alla base, la nonna trasforma la casa di Odessa in un salotto letterario, il primo salotto letterario ebraico, in cui venivano ospitate illustri persone di cultura. Dopo la Rivoluzione russa del 1917, la famiglia, ora arricchita da due figli (David e Yehuda Arieh), si trasferisce a Vilna. Ma tremende persecuzioni antisemite, delle quali il nazismo sarà l’espressione più potente, ma non l’unica, infestano l’Europa. All’inizio degli anni ’30 i Klausner chiedono di emigrare all’estero, ma, in quanto ebrei, nessuno li vuole. La ragione è facile da comprendere: in un continente in preda ad un nazionalismo becero dilagante, gli Ebrei sono gli unici europofili “che avevano dimestichezza con tutto il ventaglio di lingue del Vecchio Continente, che ne declamavano le poesie…che avevano cara la sua eredità….” Nel 1933, dopo essersi imbarcati da Trieste, Alexander e Shlomit, col figlio minore Yehuda Arieh, si trasferiscono nella Terra dei Padri. Invece David, il primogenito, brillante professore all’Università di Vilna, non intende fuggire. Non intendeva fuggire e inoltre vedeva con scetticismo l’impresa sionista, quest’uomo decisamente moderno, europeo in tutto e per tutto, multiculturale, disinvolto, illuminato, che guardava con disprezzo le onde oscurantiste che stavano avanzando allo scopo di travolgere l’Europa dei Lumi. Resterà in trincea e verrà ucciso nel 1941 dai nazisti impegnati a difendere l’Europa non solo da David, ma pure dalla moglie di lui, Malka, e dal loro figlioletto Daniel, di nemmeno tre anni, tutti quanti espressione di quei “repellenti bastardi ebrei dalle gambe storte…. Il veleno di tutte le razze, il giudaismo trasnazionale” (come riportato nel volume di Joachim Fest su Adolf Hitler).
Il personaggio più bizzarro, reso immortale forse più degli altri, è la già citata Nonna Shlomit, che, giunta al porto di Haifa nel 1933, appena sbarcata dalla nave, emette la sentenza inappellabile: “Il Levante è pieno di microbi”. Ella muore nel 1958, nella vasca da bagno per le troppe abluzioni, espressione di una profonda inquietudine interiore, che l’aveva portata ad ossessionare il nipote con spietate regole di igiene: i microbi sono un incubo continuo. Dunque bisogna sbattere ogni giorno, fino allo spasimo, coperte e lenzuola, spruzzare ovunque il Flit e disinfettare le “narici” dei lavandini. Nonna Shlomit è un unicum, con le sue paradossali, ma significative, osservazioni (“E’ talmente brutto che è quasi bello”) e col suo canticchiare vecchie canzoni, attingendo da dentro di sé una voce “remota….una voce color noce…che poco a poco si assottigliava fino a diventare un’ombra di voce”. Una “sottile voce di silenzio” di biblica memoria.
Il figlio minore della coppia e Padre dello scrittore, Yehuda Arieh, era un laico nazionalista liberale, definito dal figlio un po’ “cananeo”, come tutti i sionisti suoi contemporanei (“…Il borgo ebraico e tutto ciò che ad esso apparteneva, e financo i rappresentanti di questo mondo nella nuova letteratura, Bialik ed Agnon, lo imbarazzavano….La sua ambizione era che tutti rinascessimo daccapo, fieri, robusti…europei-ebrei e non più giudei esteuropei. Mio padre ebbe quasi sempre ribrezzo dello yiddish, che chiamava ‘gergo’….”).
Magari non gli faceva difetto una certa pedanteria nella sua erudizione e nei ripetuti giochi di parole, ma era persona di grande sensibilità. Yehuda Arieh era coltissimo, parlava undici lingue (sia pure con accento russo) ed era in grado di leggerne sedici o diciassette. Quando, nel 1956, farà visita al figlio presso il kibbutz di Hulda, si intratterrà con alcuni abitanti, provenienti da diversi Paesi europei, a conversare, senza alcuna iattanza, nelle loro lingue materne.
Aveva anche studiato con lo zio (letteratura ebraica); ma questi non lo aiutò nella carriera accademica per non essere tacciato di nepotismo (altri tempi rispetto all’attualità!); e in seguito, passato il “tempo di Klausner”, per il nipote non fu possibile accedere ad una cattedra universitaria. Dunque egli si dovette accontentare di un posto di bibliotecario presso la Biblioteca nazionale (situata prima a Monte Scopus, poi nell’edificio detto Terra Sancta, quando il primo divenne una sorta di enclave israeliana nel territorio occupato dalla Giordania, con i conseguenti, gravi rischi). Ma non aveva rinunciato a scrivere. Il suo primo libro, uscito con dedica al defunto fratello David nel 1947, porta il titolo La novella nella letteratura ebraica – Dagli inizi sino alla fine dei Lumi. Otterrà un dottorato a Londra, ma molto tardi. L’amarezza per la mancata affermazione universitaria negli anni di maggiore produttività non possono non aver influito sulla sua vita personale, sui rapporti con la moglie Fania Mussman, conosciuta una sera del 1936: una studentessa di 23 anni introversa, bellissima “scura di pelle e dagli occhi neri, che parlava molto poco ma la cui solo presenza induceva gli uomini a parlare e parlare a più non posso”.
Qualche tempo prima ella aveva lasciato l’Università di Praga ed era giunta da sola a Gerusalemme, nel 1934, dove già stavano i genitori e la sorella maggiore Haya, per studiare storia e filosofia all’Università del Monte Scopus. Anche Fania ha dimestichezza con le lingue: ne legge sei, otto, e ne parla quattro o cinque.
Lui che ama molto parlare, spiegare, esporre; lei che sa ascoltare e sentire ciò che sta tra le righe.
“Una lettrice di grazia suprema”, così la definisce il figlio.
Purtroppo -questo è il mio pensiero dopo essermi accostata alla drammatica vita di queste persone con grande partecipazione e rispetto- fra di due non si instaurò mai quella comunione, quella complicità che, insieme con l’amore, fa superare le gravi delusioni e prove che la vita inevitabilmente ti impone.
“Qualcosa nella proposta formativa di quel liceo [frequentato da Fania, a Rovno, Ucraina] o forse un muschio romantico annidato in profondità nell’animo di mia madre e delle sue amiche, negli anni della loro giovinezza, la fitta nebbia sentimentale russo polacca, una via di mezzo tra Chopin e Mitzkiewitz, fra i dolori del giovane Werther e Byron, qualcosa di crepuscolare…fra il sognante e il solitario, bagliori di palude, di ‘spasimi e malinconia’ tarlò mia madre per quasi tutta la vita e l’avvinse finché ne fu sedotta e si uccise, nel 1952. Aveva trentanove anni…”
A tutto questo va aggiunto il trauma irreparabile della Shoah, con la distruzione del mondo amato da questi inguaribili europofili che erano gli Ebrei: il mondo amato era la vita prima dell’avvento del nazismo e, prima ancora, del dilagare inarrestabile dell’antisemitismo.
All’inizio del romanzo Amos Oz racconta che, nel loro piccolo appartamento del quartiere di Kerem Abraham -trenta metri quadri, al piano terra, sotto un soffitto basso, situato in un edificio il cui pianterreno era scavato nel dorso della montagna-, i libri riempivano tutta la casa.
“Se il senso culturale li spingeva a leggere per lo più in tedesco e inglese, certamente era lo yiddish a popolare i loro sogni, la notte. Quanto a me, mi insegnarono solo e soltanto l’ebraico: forse per paura che la padronanza di tante lingue esponesse anche me alle seduzioni della letale Europa” che li aveva cacciati. “Ebrei andatevene in Palestina!” si leggeva sui muri. Né più né meno di quando, qualche decennio dopo, sugli stessi muri, apparve chiara la scritta: “Ebrei fuori dalla Palestina!”.
E prima ancora: “[I miei genitori] fra loro, conversavano in russo e in polacco, quando non volevano farsi capire da me”. Quali erano gli argomenti tabu, forse quelli sessuali? Molto più probabilmente essi parlavano della tragica storia del popolo ebraico, in particolare quella che si stava svolgendo proprio in quegli anni, un macigno troppo pesante per essere sopportato da un bambino.
Quasi tutti i compagni e gl’insegnanti del liceo frequentato da Fania (compreso l’affascinante preside Issacar Weiss) furono uccisi dai tedeschi nel 1941/42 (e lei, insieme a molti altri, lo sapeva fin dal 1943/44): ciò ha influito sulla sua personalità, oltremodo sensibile. Amos rammenta che ogni tanto ella cantava, con voce scura e calda, “come un sentore di vino cotto in una notte d’inverno”; cantava non in ebraico, ma in un russo dolce o in un trasognato polacco, talora in yiddish; ed una volta al bambino pare che la mamma, nel canto, trattenga le lacrime.
“Ma che sapevo io dei miei genitori?” egli si domanda. “E loro, l’uno dell’altra? Che cosa lui della catastrofe di lei e lei del dolore di lui?”. E conclude amaro “Eravamo distanti tra di noi mille ‘anni tenebra’ ” (non “luce”!).
Qual’è la storia della famiglia Mussman? La conosciamo in parte dalle ricerche dell’Autore, in parte dai ricordi di zia Sonia, sorella minore della madre (immigrata nel 1938), con la quale parla a lungo e che lo coinvolge in quelle vicende di casa che egli non ha potuto udire dalla viva voce della mamma. Il tono di zia Sonia è colmo di rimpianto per “ciò che non è stato”.
Veniamo così a sapere che i Mussman erano originari di Tripe, vicino a Rovno, Ucraina; un centro che, negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, aveva 60.000 abitanti, in maggioranza ebrei.
Fania (nata nel 1913) era figlia secondogenita di Naftali Hertz Mussman, uomo pieno di iniziativa, che aveva raggiunto una discreta posizione economica, e della capricciosa Itta Schuster (sempre viziata da tutti e capace di una “crudeltà manierata”). Tutte e tre le ragazze avevano un ottimo rapporto col padre, chiamato da loro “pape”; affettuoso, paterno, affascinante, intelligente; con una sua personale concezione del c.d. “peccato originale”: nell’Eden abbiamo mangiato, affermava convinto, una “mela avvelenata” dall’ ”albero della cattiveria”, donde è nata, nel cuore degli uomini, la gioia per il male altrui.
“Pape” era una sorta di comunista pacifista alla Tolstoj: anche quando giunse in Terra di Israele dopo aver perduto ogni ricchezza, non aveva lasciato il proverbiale buonumore, pur tormentato dalla moglie, che non sapeva rassegnarsi alla nuova, difficile vita, in un centro vicino a Haifa.
Le giovani figlie, tutte iscritte allo Ha Shomer haTzair, avevano frequentato un ottimo liceo ebraico, aperto nel 1919 a cura dell’organizzazione Tarbut (Cultura). Erano cresciute ben consapevoli dell’importanza dell’ebraico rispetto allo yiddish (la lingua nella quale i genitori litigavano).
Zia Sonia tiene quasi una autoconfessione, nella tipica logorrea delle persone anziane; pure per lei tuttavia è difficile parlare della sorella morta.
LA TRAGEDIA DI FANIA, LA CRESCITA DEL FIGLIO
L’esistenza dura nella nuova patria, prima e dopo la proclamazione dell’Indipendenza di Israele, la ricostruzione a seguito della guerra del 1947/’49 (“l’indomani mattina”), le delusioni nella vita privata, le incomprensioni col marito, magari il mancato inserimento in un’attività lavorativa -si limitò, pur vantando una profonda cultura, a sporadiche lezioni private- portano Fania ad isolarsi sempre di più, complici i problemi di salute fisica che, inevitabilmente, sorgono (come emicrania ed insonnia).
I genitori, frustrati nella loro esistenza, caricano su quell’unico figlio, chiamato dal padre, con un sorriso, “Sua Eccellenza”, ogni aspettativa, ogni sogno da loro non concretizzato. Questo ragazzo, fantasioso e chiacchierone, è ascoltato da loro come un oracolo e presto si diletta a scrivere poesie.
“Mia madre desiderava che crescessi sì da poter esprimere….quel che a lei era sfuggito”.
Ella gli racconta, sfoderando un ventaglio straordinario di parole, storie insolite, spaventose ma accattivanti, popolate di grotte, boschi, torri, ponti sospesi su precipizi, maghi. Anzi un giorno, quando sono soli in casa, lo invita a creare insieme a lei una storia.
E una lettrice infaticabile, finché ha l’energia per farlo, finché non si riduce a stare tutto il giorno (e la notte) seduta davanti alla finestra, con una tazza di the che le si raffredda in mano e gli occhi spalancati, come avviene negli ultimi, terribili tempi: “I libri non ti abbandoneranno mai” dice ad Amos, il quale, ad un certo punto, sogna addirittura, di poter diventare da grande un libro, per difendersi dalle angosce della vita. Certo, i libri possono anche essere bruciati, com’era accaduto tante volte nella storia, ma “è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna….in qualche piccola sperduta biblioteca”.
Il ragazzo osserva il padre impegnato, durante la notte, a studiare, riportando sulle sue schedine dettagli e note da grossi tomi.
In fondo, confessa l’A. guardando all’oggi, anch’io lavoro più o meno così: come un orologiaio o un fabbro dei tempi antichi: quante decisioni deve prendere uno scrittore!!
Yehuda Arieh nutriva un amore carnale per le pagine stampate: “…quell’odore incantato, denso, di legature in pelle e carta ingiallita…di sapienza segreta e polvere…”
UNA NUOVA VITA E LA NASCITA DELLO SCRITTORE
Nella speranza di superare il trauma per la morte della madre, complice il fatto che il padre aveva contratto, poco tempo dopo, un nuovo matrimonio e, diciamo, rimosso, almeno in apparenza, il ricordo della moglie, ma, soprattutto, per diventare membro di quella “una nuova razza di ebrei-eroi, in confidenza col buio” (che abitava oltre i Monti di Tenebra), guidava il trattore e conosceva l’arabo, sulla quale aveva favoleggiato tante volte, Amos, a quattordici anni e mezzo, lascia Gerusalemme e si trasferisce nel Kibbutz di Hulda, dove cambia il proprio cognome da “Klausner” a “Oz” , che significa “forza” o “coraggio”. “E in effetti” ha confessato in occasione di un recente incontro a Roma “avevo bisogno di molti ‘oz’ per fare quello che feci”.
Il kibbutz sarà la sua casa per un trentennio; fino al 1986, quando la famiglia Oz va ad abitare a Arad. Il nuovo ambiente del kibbutz è vivo e palpitante, al di là delle durezze e delle angherie inevitabili che il ragazzo deve subire i primi tempi, data la provenienza da un contesto “revisionista”.
I coniugi Huldai, originari di Łodz, entrambi insegnanti, pieni di calore umano e di cultura (nonché di attitudini organizzative), costituiscono per lui una sorta di genitori adottivi e sono stupende le pagine che gli vengono dedicate. Il loro mondo era pieno di luce, molto diverso da casa dei genitori, con gli scaffali per i libri di colore bianco: si discuteva, studiava, faceva musica, in una mescolanza di cultura europea, fondamenti biblici e tradizione locale rural-proletaria. Dei giovani Huldai, figli della coppia, il timido Ron, attuale Sindaco di Tel Aviv e amico di Amos, suonava il violino; il riccioluto Shai il flauto.
Anche quelli furono anni di letture vastissime, grazie anche all’aiuto di Sheftel, il bibliotecario e futuro suocero, uomo dal cuore d’oro e appassionato di canto.
Letteratura e anche storia, per il nuovo arrivato che, da piccolo, confondeva passato e presente; come quando immaginava un diverso finale per la tragedia di Massada.
Questo antico desiderio, quell’impulso di dare cioè un’opportunità diversa a ciò che non esiste più né mai più avrebbe potuto averne, è ciò che lo muove, confessa ora, quando si accinge a scrivere una storia.
Ma, si domandava il giovane Oz, come può chiunque aspiri ad essere scrittore vivere in ambienti così limitati come, ad es., un kibbutz? E’ indispensabile -per scrivere come Remarque o Hemingway, gli autori dei quali aveva letto le opere da cima a fondo- vivere in posti “veri”, come quelli raccontati da loro, ma….come arrivarci, in quei posti, essendo un perfetto sconosciuto? Un rompicapo senza soluzione! Certo vi erano scrittori israeliani che avevano creato pagine hemingwaiane in kibbutz (Moshe Shamir o Nathan Shacham, ad esempio); ma si era trattato di persone della generazione precedente, quelli della Guerra d’indipendenza -e della bomba al comando britannico-; e non facevano testo, in quanto, diciamo, non “commensurabili” con lui.
Come uscirne?
Gli è d’aiuto, “libera in lui l’ispirazione” uno scrittore statunitense -scoperto nella biblioteca di Hulda- pressoché sconosciuto in patria, contemporaneo di Faulkner, Sherwood Anderson, il quale, in Winesburg, Ohio (una serie di racconti), narra la vita in una cittadina di provincia. Le diverse storie si collegano tra loro per il fatto che i personaggi scivolano da una storia all’altra: in una sono protagonisti, in quella successiva magari restano sullo sfondo. Non era quindi necessario andare chissà dove per trovare l’ispirazione.
Il mondo scritto non dipende da Milano o Londra o Madrid; gira invece sempre intorno alla mano che scrive, nel luogo in cui essa scrive: dove sei tu, quello è il “centro dell’universo”.
Amos deve pure confrontarsi con il problema irrisolto del rapporto conflittuale tra Ebrei e Arabi.
A tale proposito riporta un colloquio avvenuto con Efraim Avneri , poco prima della campagna del 1956, durante un turno di guardia al kibbutz, a proposito delle ragioni degli uni e degli altri. Alla domanda del compagno su come comportarsi nel caso di un assalto di feddayin, Efraim risponde: “…..sparare meglio e più lesti di loro. Ma non perché essi siano un popolo di assassini, ma per la semplice ragione che anche noi abbiamo diritto di vivere……e diritto di avere una terra. Non solo loro”.
Pian piano il giovane protagonista comincia a legare con suoi compagni, nei confronti dei quali provava, nei primi tempi, un sentimento di inadeguatezza: quei pionieri abbronzati e quelle pioniere, così piene di energia inesauribile e di fascino, erano a lui sembrati in precedenza un ideale irraggiungibile.
Tra le pioniere spicca Nilli, la figlia del bibliotecario, che egli sposerà, nel 1960.
C’è un bellissimo ritratto di lei, riassumibile in questo pensiero: “ Ma la sua tristezza [rara] era sempre ben chiusa dentro un potente paio di manette di gioia perenne e tenace come lo zampillo di una sorgente calda e non c’è neve o ghiaccio al mondo capace di arrestare quel calore che sgorga dritto dal centro della terra”.
Beh, come dichiarazione d’amore non c’è male!
Ancora oggi lei è la sua prima lettrice, che non risparmia critiche e consigli, ma “Quando esce qualcosa di triste lei dice, mi fa venire le lacrime questo brano”.
Dalla gioia radiosa e dall’AMORE di Nilli con cui si chiude il sessantunesimo capitolo, si passa alla TENEBRA (sempre mescolata all’amore, però) della morte di Fania, oggetto delle due tappe finali, col loro carico di dolore, disperazione, disorientamento, incomprensioni tra le due famiglie…..il padre che, dopo qualche tempo, si libera con isterica meticolosità di tutto ciò che era appartenuto alla moglie sotto lo sguardo incredulo e terrorizzato del figlio…..
LA CIRCOLARITA’ EBRAICA: L’INIZIO E LA FINE
Questo grande poema o affresco -sul quale mi sono trattenuta a lungo, ma che era impossibile liquidare con poche pagine, accontentandosi di un banale ampliamento della quarta di copertina- si apre e si chiude, in omaggio alla circolarità dell’ebraismo, in due ambienti tanto modesti quanto alto è il sentire dei protagonisti: il minuscolo appartamento, zeppo di libri, a piano terra nel quartiere di Kerem Abraham della famiglia Klausner e la semplice abitazione di zia Haya a Tel Aviv, in cui Fania decide di congedarsi dal mondo.
L’ultimo capitolo è dedicato alla morte di Fania. E’ di altissima intensità; una sinfonia, col canto della capinera Elisa sullo sfondo.
Valgono per Fania le parole di “zia” Rauha -la missionaria laica finlandese, amica dei genitori; uno dei personaggi c.d. secondari del romanzo, che meriterebbero tutti un commento a parte-: “Un’anima tormentata, la pace sia su di lei. Un’anima di grandi tormenti perché lei vedeva nel cuore degli uomini, e quel che vedeva non era facile per lei accettarlo.”
L’ultimo paragrafo -con l’emblematica annotazione finale: Arad, dicembre 2001- è da brivido. Sarebbe irrispettoso commentarlo. Bisogna leggerlo.
Immagino che Nilli abbia pianto, com’è capitato a me.
Nell’immagine, trovata per caso, il piccolo Amos con i genitori.
Nell’immagine, trovata per caso, il piccolo Amos con i genitori.