In occasione della IX Giornata Europea della Cultura Ebraica, festeggiata oggi in 27 Paesi e avente come filo conduttore il tema Musica e Parole, il Museo Ebraico di Bologna ha inaugurato la mostra della pittrice Hana SILBERSTEIN, dal misterioso -ma solo in apparenza- titolo La vita probabilmente, che sarà aperta fino al 30 novembre prossimo e che è pure inserita nei programmi di altre rilevanti iniziative cittadine: Artelibro 2008; Giornate del patrimonio; Sbam! Apriamo le porte alla cultura.
Il Direttore del Museo, Prof. Franco Bonilauri, con la nota esperienza e sensibilità, ha condotto il pubblico presente in una visita guidata della mostra, alla presenza dell’Artista.
Hana è una signora sorridente; lo sguardo intenso, il caschetto biondo e l’abbigliamento sportivo la rendono subito familiare. Può essere definita una “Figlia della Shoah”: i suoi genitori (la madre è morta da tempo, mentre il padre è tuttora vivente), polacchi di nascita, furono entrambi deportati ad Auschwitz. Alla fine del conflitto essi si trasferiscono in Terra di Israele, dove, a Tel Aviv, nel 1951, nasce Hana; ella dunque è cresciuta negli anni drammatici in cui il nuovo Stato è andato costituendosi. Nella città natale frequenta, nello stesso tempo, sia il Liceo, sia il Conservatorio, dove si diploma in pianoforte. Nel 1970, obbedendo al desiderio di compiere esperienze nuove rispetto al contesto di origine, si trasferisce nel nostro Paese, dove frequenta l’Accademia di Belle Arti a Bologna, diplomandosi nel 1975. Interessante rilevare l’impatto della sua formazione ebraica, dunque aniconica, con la tradizione pittorica italiana, strettamente figurativa.
Iniziato il suo percorso con un’iniziativa collettanea presso il Circolo Artistico di Bologna, ha in seguito tenuto numerose mostre, personali e collettive, sia in diverse città italiane, che all’estero (Spagna, Germania, Svizzera, Belgio). Vive e lavora a S. Giovanni in Persiceto, un comune alle porte della città.
Se ci soffermiamo avanti alle opere esposte, tutte rigorosamente intitolate dall’Autrice, vediamo come i personaggi dell’universo di Hana si muovono lievi cercando di staccarsi da terra per librarsi nel cielo. Impossibile non pensare al grande Chagall, pur nella diversità delle esperienze vissute.
Vi è una forte vena ironica, potente arma di difesa per non essere sopraffatti dal DRAMMA, sempre presente, anche solo nell’inconscio; la cultura e lo spirito yiddish emergono, quasi a far da sottofondo.
Nell’opera riprodotta nella copertina della brochure (portante il significativo titolo Voglio giocare ancora, mamma!) vediamo il Bambino desideroso di correre verso la Madre, ma, nello stesso tempo, egli si lascia suggestionare dalla musica che ode in lontananza, simboleggiata in quella specie di foglia illustrata da lettere e numeri, che tiene legata a sé con un filo. La scena si svolge sotto lo sguardo partecipe di un cagnolino nero.
Come un altro artista originale e significativo -incontrato lo scorso anno proprio in questi giorni-, Tobia Ravà, anche Hana (la quale peraltro collabora con Tobia) sviluppa un percorso simbolico, costruito su diversi piani di lettura, attraverso la ghematrià, il criterio di permutazione delle lettere in numeri in uso fin dall’antichità nell’alfabeto ebraico, secondo il quale ad ogni lettera corrisponde un numero, così come ogni successione alfabetica può considerarsi una somma aritmetica. L’artista ricrea i luoghi del reale servendosi di un linguaggio codificato riferito ai numeri relativi alla traslitterazione ghematrica delle 22 lettere che compongono l’alfabeto ebraico, che hanno dunque un significato etico, spirituale e numerologico. Per esempio, alla base della scena creata nell’opera prima nominata, notiamo il numero 42, traduzione numerica del vocabolo Imah (Mamma). La figura materna è spesso presente, pur volutamente non visibile, a cominciare dal quadro successivo Nostalgia (2003), dove il Bambino tocca una schematica Casa; la casa in Israele, vuota poiché la Mamma è morta. Le figure sono essenziali (sorta di “compromesso artistico” tra tradizione pittorica italiana e cultura ebraica), tese a superare la forza di gravità, in senso sia materiale che metaforico, a vantaggio di una dimensione spirituale.
In questo rapporto stretto tra numeri, lettere, parole emerge, come in una sorta di ordine cosmico (l’espressione è allitterante, non a caso!), l’eterna validità della scrittura, come fondamento di ogni cultura e pensiero.
Durante il viaggio in compagnia di Hana incontriamo stravaganti personaggi da favola, giocolieri, pianisti, animali colorati, cammelli (ecco il richiamo al Medio Oriente, la Terra dei Padri) e significativi cani, vasi di fiori che, non appena caduti, si rialzano, quasi spinti da una molla. Tra i colori declinati dall’Artista prevale il rosso.
Il cane è umanizzato, sia che ricopra il ruolo di protagonista, come in Cane solo (2007); sia quello di osservatore. Notevole è Non voglio più giocare con voi (2005): un variopinto Toro (tradotto in numero: 506) protesta la propria opposizione ad ogni forma di violenza, a cominciare dalla corrida. A tale proposito mi ha colpito l’assonanza tra questo quadro di Hana Silberstein e le numerose opere di Pablo Picasso, peraltro attratto dai combattimenti nelle arene, centrate su tori, toreri e corride, che ho ammirato non più di due giorni fa nella sua città natale, mai dimenticata, l’andalusa Malaga.
Amore per gli animali -simpatetico, commovente- come espressione dell’amore per ogni essere vivo, reazione positiva all’assurdità dell’odio distruttore, che l’Artista porta nel profondo del proprio essere, nel suo codice genetico si può dire, a causa dell’esperienza vissuta dai suoi genitori.
Ma il messaggio, forte nei contenuti, porta una cifra espressiva leggera, delicata, con l’ombra di un melanconico sorriso. Un Poeta, un Pittore sulle ali di farfalla.